Memorie di un’amicizia

La testimonianza di chi ha vissuto in prima persona quel periodo che erroneamente i giornalisti chiamarono guerra di mafia e che, di fatto, non ebbe mai due eserciti contrapposti a fronteggiarsi, porta sempre con sé un alone di fascino ed epicità, soprattutto se a darla è Giuseppe Ayala, in quegli anni chiamato a collaborare con il pool antimafia in qualità di pubblico ministero.
Incisivo e graffiante come di consueto, in Giovanni Falcone. “L’uomo, il giudice, il testimone”, ripercorre le tappe di quella straordinaria avventura professionale intrapresa insieme a Falcone presso la Procura di Palermo.
Innegabilmente diversi, l’uno trasgressivo e l’altro quasi bacchettone, a legarli era non solo il medesimo orizzonte di valori e ideali, ma una profonda amicizia, un sentimento fraterno in cui Falcone svolgeva il ruolo del fratello maggiore protettivo e complice. Fu proprio lui, infatti, a fiutare il potenziale del giovanissimo Ayala e a sceglierlo nonostante la sua trascurabile esperienza, cambiandogli la vita per sempre.
Consigliere e maestro al tempo stesso, Falcone diventa da quel momento una presenza costante nella vita di Ayala, come lui stesso ammette, ed è proprio a partire da una provocazione del più anziano che nel 1992 Ayala deciderà di candidarsi come capolista in Sicilia occidentale per il Partito repubblicano.
In virtù della sua esperienza in Parlamento, il magistrato, pur consapevole dei diffusi casi di malgoverno, ammette, tuttavia, la lungimiranza della politica in alcuni momenti cruciali della storia d’Italia, come nel caso della legge Rognoni-La Torre o della costruzione in tempo record di quella straordinaria struttura chiamata aula bunker, voluta dal ministro di Giustizia, al fine di facilitare la celebrazione del Maxiprocesso, che, inevitabilmente, prendeva spunto dal metodo-Falcone.
Infatti, fu proprio una grandissima intuizione di Falcone che portò alla necessità di costruire il pool: egli aveva intuito che i delitti di matrice mafiosa sono intimamente legati tra loro perché frutto di una logica associativa e, per questo, era necessario lavorare in sinergia per trovare quel sottile filo rosso che li univa. Così, prima sotto la guida di Rocco Chinnici e poi con la guida di Antonio Caponnetto, si creò un gruppo di giudici composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe di Lello.
La cooperazione tra questi intellettuali e Giuseppe Ayala viene da lui ricordata con un simpatico aneddoto che sintetizza l’atmosfera di grande intesa e complicità che impregnava il loro operato. Egli racconta, non senza un po’ di nostalgia, che Falcone, conclusasi la sua requisitoria al maxiprocesso, dopo essersi complimentato con lui gli aveva detto “Tu sei The voice come Frank Sinatra, però non ti scordare che la canzone l’abbiamo scritta noi”. Ed era così: il loro contributo era reciprocamente necessario. Di questo Ayala ne era pienamente consapevole e riconosceva i grandi meriti attribuibili a Falcone, da lui ritenuto un grande innovatore fin da quella intuizione che è riassumibile nel suo motto Follow the money.
Falcone ebbe il coraggio di seguire il denaro per davvero, promuovendo la sburocratizzazione ed il superamento dei confini che la mafia aveva già tempo abbattuto con i suoi traffici. A tal fine promosse la cooperazione giudiziaria con i vari Paesi coinvolti, moltiplicando i suoi viaggi all’estero per verificare le prove e ricercarne ulteriori.
Tutto questo, che Falcone aveva fatto per amor di verità, non trovò altro che sferzanti critiche. Le sue rogatorie vennero ridotte da alcuni media ad un singolare tipo di Turismo giudiziario e lui stesso venne accusato con malizia di essere un giudice sceriffo.
Il grande valore della cooperazione giudiziaria sarebbe stato poi confermato dalle innumerevoli prove raccolte, che permisero con il tempo di fare luce sugli enigmi della mafia e dei suoi affari, di cui alcuni particolarmente suggestivi vengono svelati da Ayala attraverso la sua avvincente narrazione.
Del resto, a strumentalizzare il caso-Falcone non furono solo i giornali. Falcone divenne il bersaglio facile di alcuni ambienti della politica italiana collusi con la mafia e, subito dopo la storica sentenza del Maxiprocesso, l’organo di autogoverno della magistratura, il CSM, in virtù della sua anzianità, preferì Antonino Meli a Falcone come successore di Caponnetto a capo dell’Ufficio istruzione. Finiva così la straordinaria esperienza del pool antimafia, proprio quando lo Stato aveva ottenuto una schiacciante vittoria contro la mafia.
Non è un caso se il Tribunale di Palermo era definito a quell’epoca il palazzo dei veleni, giacché la notorietà e il merito di questi magistrati suscitavano in molti un sentimento di invidia. A tal proposito, Ayala ricorda con un pizzico di orgoglio quanto scritto da Attilio Bolzoni, il quale in un articolo ha sostenuto che nella Procura della Repubblica Falcone aveva un solo amico: proprio lui, Giuseppe Ayala.
Quella di questi intellettuali è una delle perentesi più felici della storia del nostro Paese e tutti noi abbiamo il dovere di conoscerla e perpetuarla. A questo scopo la testimonianza di Ayala è preziosa, avvincente e interessante.
Egli non scade mai in una narrazione cronachistica e fredda: il suo racconto è ricco di aneddoti ed episodi che, seppur con apparente leggerezza, colpiscono il lettore e fanno breccia nella sua memoria.
Ricche di verve e di brio, le sue parole meritano di risuonare nella mente di chi legge perché frutto di un’esperienza fondamentale per quegli anni in cui, grazie al contributo di grandi uomini, anche i progressi della magistratura furono grandi, come mai prima era accaduto.

(sintesi di Sofia Trisolino)

 

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