Calabria, un romanzo sulla sofferenza

C’è marzo per gli agnelli” è un detto aspromontano: come per gli agnelli che nascono e muoiono a marzo, immolati alla Pasqua cristiana, per ogni azione bisogna attendere il momento propizio. Se spiattellato in faccia, è la minaccia che un’offesa non rimarrà impunita.
Un destino che si rinvia, quindi. E gioca sul filo del destino, “Marzo per gli agnelli”, con gli uomini in dubbio se esso sia ineludibile, già tracciato e con niente e nessuno in grado di dirottarlo, o capriccioso da potersi mutare se solo interviene qualcosa in grado di spostare l’attimo in agguato. È un romanzo sulla sofferenza, con l’acciaccata solitudine di un padre condannato a sopravvivere ai figli e che volge irrispettosi sguardi di protesta al Cielo frettoloso, la disperazione di una madre che annienta la donna, i giorni che scorrono irreparabili e luttuosi, e poi le passioni, l’ingordigia del potere, il malsano gusto del torbido.
Fato e dolore qui s’intrecciano con la ’ndrangheta, che è l’abisso sul cui bordo si trascinano incerti i passi di giorni che non meritano d’essere vissuti. A legarli, da non riuscire più a districarli, Giorgio Marro, brillante avvocato penalista, in disarmo da dopo che una tragedia gli ha tranciato la famiglia, con il figlio piccolo che gli sorride da una foto sulla lapide al cimitero, il maggiore che, da un letto del centro neurolesi, vaga occhi dispersi a non vedere nulla, la moglie che è smontata dalla fatica del vivere. E lui che conia pensieri di distruzione. E che, nell’imbattersi nel sospetto di due morti caduti di lupara bianca, indaga, s’incaponisce a scavare in vicende da cui si sarebbe tenuto alla larga se fosse rimasto l’uomo che era. Non un eroe che si veste di coraggio e di civiltà. Piuttosto uno a cui, al più, potrà capitare d’essere ucciso, ed è forse ciò a cui aspira. Si mette nei guai, perché scoperchia gli interessi danarosi e delittuosi di due ’ndrine, alleate nelle forzature per la costruzione di un lussuoso villaggio turistico e diventate nemiche appena la Legge sequestra i capitali di una e non tocca quelli della seconda. Marro diventa un ostacolo da rimuovere. Lasciarlo impunito minerebbe la forza, la paura che tutto regge.
Né una cosca può lasciarsi scivolare addosso gli affronti subiti da un’altra cosca. Sarebbe debolezza, e sulla debolezza si infierisce. Ed è guerra, in una terra dove non è vero ci sia una struttura piramidale della ’ndrangheta e un capo dei capi in grado d’imporsi d’autorità e impedirla, ma solo un custode delle regole, una figura di parata che non conta, non militarmente almeno, uno utile per ingannare d’antico, di una continuità con il passato del consenso.
C’è la Calabria collimata dall’inquadratura più buia, che pur esiste, e che bisogna raccontare, per averne coscienza, e da lì ripartire. Con personaggi tutti senza speranza, senza salvezza, senza redenzione, tutti in attesa che scocchi l’inevitabile marzo. Così, Giorgio Marro: appena capisce l’inganno con cui ha trascinato i giorni e decide d’arrampicarsi verso la vita, per salvarsi ricorre al capobastone zi’ Masi e non alla Giustizia. Così, i selvaggi Survara, padre e figlio, la nuova ’ndrangheta, più sanguinaria, più deleteria. Così, zi’ Masi, affossato nelle peggiori nefandezze e a cui nessuno toglierà la convinzione d’essere un necessario dispensatore di giustizia, lo Stato parallelo – non antistato – che era nell’arrogante supponenza dei vecchi dell’onorata società.
È un racconto di fantasia, ma verosimile come è possibile solo alla penna di chi ha l’età giusta da poter sezionare due tempi distanti decenni e confrontarli e ha avuto la malasorte di vita, che diventa fortuna letteraria, di attingere fiati dalla stessa cappa di cielo che incombe sui malavitosi, e li ha fiutati, ne ha osservato le pose, le mosse, gli atteggiamenti, la tracotanza, la vanità, ne ha colto le parole, il gergo, i ghigni, le parate, le esibizioni. Ne emerge una terra prigioniera nelle sue aree più calde, dove una sparuta minoranza opprime, scianca le carni, ammorba l’aria, mette in affanno le esistenze, in una libertà che è un inganno, che appare tale finché non s’impatta in un interesse anche minimo di bestie immonde e feroci con la sfacciataggine di definirsi uomini d’onore. Dentro, ci sono le colpe di tutti: dello Stato, di più nei trent’anni dal dopoguerra, quando ha abdicato e legittimato, consentendo alla ’ndrangheta di occupare gli spazi lasciati vuoti e indicando così al popolo la direzione da seguire, della Chiesa acquiescente, della politica spesso complice – più si sono occupati posti a cassetta, poltrone imbottite, e maggiori sono le responsabilità – dei cittadini stessi, loro con l’attenuante della paura, di aver esercitato il diritto di non diventare eroi magari da venerare in morte prematura.
Oggi è peggio. Oggi si vive l’aggravante della Calabria compressa tra criminalità e criminalizzazione. Perché all’Italia la si è offerta irredimibile, affossata sotto un pregiudizio che va molto oltre i demeriti reali. Alla paura della ’ndrangheta si è aggiunta paura della Giustizia – certo, diversa, e tuttavia paura – troppo capita che, pur di sconfiggere la malapianta, esasperi leggi e normative che non odorano di Stato di diritto e vada per le spicce, abbia la mano sinistra con la spada affilata e la destra vuota della bilancia, e sbirci da sotto la benda, troppo capita che butti le reti a strascico, a chi c’incappa c’incappa, rinviando a una seconda fase di decidere chi meritava di restare impigliato e chi no. Lo smascherano le recenti posizioni di magistrati allineati ai principi della Costituzione. Lo smascherano i numeri sull’innocenza oltraggiata.

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