Giuseppe Pignatone l’ex Procuratore di Roma che lavorò con Falcone e amico di tanti potenti dello Stato

di Francesca Scoleri di Te M

Pubblichiamo l’articolo di Francesca Scoleri che traccia un curriculum di Pignatone non conosciuto

Lo scandalo che sta interessando il Consiglio Superiore della Magistratura, comprende la nomina di Procuratore della Repubblica di Roma dopo l’era Pignatone.

Pochi organi di informazione stanno seguendo con senso del dovere i fatti che emergono dalla condotta di alcuni magistrati, altri sono impegnati ad offrire il quadro del perfetto Procuratore in fase di congedo, quello di Giuseppe Pignatone. 

“Sobrio”, “moderato”, “prudente”, “pacato”, “mancherà a tutta Roma”, “Magistrato esemplare”, “una vita spesa contro la mafia” e molto altro ancora. C’è odore di santità.

Dal 2012, la Procura della Capitale e’ sotto la guida di Pignatone che oggi, va finalmente in pensione. Il “finalmente” non è un garbo nei confronti di un uomo di 70 anni che finisce di lavorare, piuttosto un soddisfatto “era ora”. Una voce fuori dal coro ce ne rendiamo conto.

Giovanni Falcone lo ha conosciuto bene; lavoravano fianco a fianco nel palazzo dei veleni altrimenti detto, palazzo di giustizia di Palermo.

Un percorso difficoltoso quello di Falcone nell’ufficio diretto dal Procuratore capo Pietro Gianmanco che considerava Pignatone “un fedelissimo”. Falcone descrive i due come una coppia in perfetta sintonia e si sentiva sminuito professionalmente da entrambi al punto da segnalare più volte atteggiamenti inconsueti soprattutto in presenza di indagini che avvicinavano nomi eccellenti.

Da una sua testimonianza: “Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo, (Gianmanco) che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta”.

In realtà restarono solo parole e una serie di comportamenti inaccettabili che spinsero Antonino Caponnetto, il Giudice che guidò il pool antimafia di cui fecero parte Falcone e Borsellino, a rispondere nel seguente modo a chi gli chiedeva chi fossero gli autori dello smantellamento del pool; dopo aver attribuito parte della responsabilità ad Antonino Meli, dice:

Giammanco ha fatto la sua parte presso la procura della Repubblica, e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana.»

“Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni” Le parole di Falcone sono chiarissime. Le umiliazioni c’erano ed erano rivolte al suo lavoro che riscontrava ostacoli e freni inspiegabili dalla coppia Gianmanco-Pignatone.

Fin quando si indagavano “pesci piccoli” tutto scorreva, ma come ci si avvicinava a nomi eccellenti, l’inquietudine era palpabile nella Procura di Palermo. Poi arrivò il tritolo.

Il Magistrato Alberto Cisterna, Procuratore Aggiunto della DNA negli anni in cui era guidata da Piero Grasso, ha rilasciato dichiarazioni molto dure su Pignatone e fra le righe di quelle che appaiono come polemiche, leggiamo ancora quel vizietto di arrivare fino ad un certo punto ma non oltre:

“…Lui accusato da Falcone, è stato promosso a brillante carriera”. 

Cisterna, pone l’attenzione su un collaboratore di Pignatone che lo ha seguito fin dentro la Procura di Roma; Renato Cortese, il poliziotto che arrestò Bernardo Provenzano, “responsabile di aver inviato in copia atti del suo procedimento coperto da segreto, al Quirinale”.

“Destinatario del plico, Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del capo dello Stato (Giorgio Napolitano) che intratteneva rapporti con l’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino sulla presunta Trattativa Stato-Mafia”. In quel momento, imputato per falsa testimonianza nel processo trattativa.

Il copione cosa prevede in questi casi?Avanzamento di carriera? Abbiamo l’avanzamento; nel 2012 Cortese diventa capo della squadra mobile di Roma mentre Pignatone si prende la Procura.

Nel 2011, Marco Travaglio, dalla pagine de l’Espresso, si interroga su un fatto che riguarda proprio Pignatone; un’inchiesta per corruzione e mafia che riguarda “tre politici siciliani del centrodestra: Saverio Romano, ministro dell’Agricoltura (imputato pure di concorso esterno), Carlo Vizzini e Totò Cuffaro (condannato e detenuto per favoreggiamento mafioso). I tre sono accusati di aver ricevuto soldi da Massimo Ciancimino tramite il commercialista-prestanome del padre Vito, il ragionier Giovanni Lapis.

La prova deriva da intercettazioni che nei giorni scorsi la Procura di Palermo ha chiesto al Parlamento il permesso di utilizzare. Ma che risalgono al 2003-2004, quando si indagava su Ciancimino jr. per il riciclaggio del tesoro del padre, poi sequestrato con la condanna del figlio di don Vito per intestazione fittizia di beni. Perché sono giunte alle Camere soltanto ora, sette anni dopo? Nel 2003-2004 l’indagine è coordinata dall’allora procuratore Piero Grasso e dal fedele aggiunto Giuseppe Pignatone. Che usano le intercettazioni per incriminare e far arrestare il giovane Ciancimino, ma non per indagare i tre politici. Perché? Mistero”.

Potremmo aggiungere anche che  nel 2005, Pignatone trovò a casa Ciancimino una lettera che Provenzano scrisse a  Berlusconi ma non ritenne di darne comunicazione. Un altro mistero.

Quei comportamenti che piacciono tanto a Giorgio Napolitano; li ha infatti sempre elogiati sotto la voce “magistrati che non fanno opera di protagonismo” perchè, “occorre che ogni singolo magistrato sia pienamente consapevole della portata degli effetti, talora assai rilevanti, che un suo atto può produrre anche al di là delle parti processuali”.

Parole gravissime che han fatto tirare un sospiro di sollievo a buona parte di criminali eccellenti e che a pronunciarle sia stato l’ex Capo dello Stato, ha lasciato la nazione completamente indifferente.

In poche parole, i Magistrati che fanno il proprio dovere a prescindere dal peso sociale ed economico dei propri indagati, finiscono sotto attacco e sono vittime di rappresaglie. Quelli che valutano l’opportunità di una indagine invece, rientrano nella categoria apprezzata da Napolitano.

La Procura di Roma a guida Pignatone si distingue, sempre in materia di “non protagonismo” cosi come inteso da Napolitano, nel caso “insider trading” che ha coinvolto Matteo Renzi e Carlo De Benedetti. L’attenzione degli inquirenti finisce sulla fuga di notizia ma non sul reato e archivia tutti e tutto. Per fortuna ci pensa la Procura di Perugia ad andare a fondo all’operazione che contemporaneamente, rovinava centinaia di correntisti e portava 600.000 euro nelle casse dell’amico di Renzi all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio.

Fra le altre cose, il motivo per cui chi scrive non ha la benché minima stima del Procuratore Pignatone, racchiude in parte le considerazioni sin qui riunite e in parte, la totale mancanza di attenzione verso una famiglia che a lui si è appellata fino allo sfinimento, affinché avviasse indagini serie sulla morte del figlio liquidata dalla Procura di Viterbo – città dove il ragazzo è stato ritrovato con un buco nel braccio – come “suicidio volontario per inoculazione di sostanze stupefacenti”

Attilio Manca era un giovane urologo che secondo numerose testimonianze – tutte ignorate da Pignatone – avrebbe operato Bernardo Provenzano durante la sua lunghissima latitanza  quando si è ammalato di tumore alla prostata.

E volendo tralasciare le testimonianze di pentiti e collaboratori di giustizia, le prove della negligente e illegittima autopsia eseguita senza avvisare la famiglia, il mancinismo del giovane che smentisce il suicidio per overdose con una puntura sul braccio sinistro e molti altri indizi che oggi rappresentano una vergogna per l’inadempienza della Procura di Roma, bastava partire dalle parole dei colleghi di Viterbo proprio su quel Presidente della Repubblica tanto attento “…alla portata degli effetti, talora assai rilevanti…” che un’indagine può scaturire.

I giudici di Viterbo hanno riferito pubblicamente dell’interessamento alla vicenda da parte di Giorgio Napolitano, durante una conferenza stampa che dovrebbe finire al vaglio di un CSM sano, non quello attuale ovviamente; “Io sono arrivato a Viterbo nel bel mezzo di questa faccenda – spiegal’allora Procuratore capo, Alberto Pazienti – La prima cosa che ho trovato sulla mia scrivania è stata la richiesta da parte della segreteria del Gabinetto del Capo dello Stato, che voleva chiarimenti in merito a questa vicenda. […] Ovviamente, sollecitato dal Capo dello Stato, mi sono attivato subito”.

Ad oggi, nessuno conosce il perché dell’interessamento di Napolitano verso un caso completamente ignoto – all’epoca – di un ragazzo liquidato come “drogato suicida”.

Nessuna indagine è stata fatta per capire come un mancino puro possa essersi inoculato droga nel braccio sinistro, a procurarsi ferite ed ecchimosi su gran parte del corpo, per capire che fine ha fatto il suo computer e i suoi diari scomparsi con la sua giovane vita.

Il Procuratore narrato dalle pagine dei maggiori quotidiani come “perfetto”, avrebbe fatto luce su questo caso restituendo un minimo di giustizia alla famiglia. Ma nulla. Davanti a certi nomi non si passa e nemmeno si tenta di passare.

La latitanza di Provenzano è stata protetta dallo Stato e cuor di leone, da prassi, non ha mosso ciglio.

Ma almeno ci vengano risparmiati momenti di commiato strazianti perchè il pensiero che ne arrivi un altro uguale è tutt’altro che rassicurante e da quello che ruota intorno alla nomina, all’interno del CSM, è una quasi certezza.

Fonte: Francesca Scoleri di Te M