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Così, se al posto delle toghe lo scandalo riguardasse esponenti politici, probabilmente Davigo sarebbe in televisione a dirci che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti” e che quindi dovremmo considerare gli indagati come già colpevoli. Ci farebbe forse notare che “a 25 anni da Mani Pulite è drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale”, e che non occorre necessariamente un rinvio a giudizio o una sentenza per cacciare un funzionario pubblico, perché “molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti” (Corriere della Sera, 13 febbraio 2017). E ancora, con toni perentori Davigo ci direbbe che “la classe dirigente di questo paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni più gravi” (lectio magistralis all’Università di Pisa, 22 aprile 2016) e che, in definitiva, oggi la situazione in Italia “è peggio di Tangentopoli”, perché “i politici (o in questo caso i funzionari pubblici in senso lato, ndr) non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi, rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto” (Corriere della Sera, 22 aprile 2016).
Di fronte ai timidi passi indietro e alle autosospensioni (non dimissioni) dei consiglieri del Csm toccati dallo scandalo, Davigo ci direbbe che “processiamo gente abbarbicata alla poltrona, che nessuno si sogna di mandare a casa malgrado condotte gravissime”, e che “la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici”, perché “se il mio vicino di casa è rinviato a giudizio per pedofilia, io mia figlia di sei anni non gliel’affido quando vado a far la spesa” (Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2016).
Se qualcuno gli facesse notare il fatto che nessun magistrato è stato arrestato e che per le stesse accuse probabilmente un politico già sarebbe in carcere, l’ex pm di Mani pulite risponderebbe che oggi “in Italia in galera ci vanno in pochi e ci stanno poco” (La Stampa, 23 febbraio 2019) e che “esiste una subcultura diffusa secondo cui a violare le leggi sono i furbi e a rispettarle i fessi” (La Repubblica, 11 maggio 2018).
Di fronte alle difese degli odierni indagati, poi, Davigo ci farebbe una lezioncina per dirci che “l’unica parte buona del processo è il pubblico ministero, per definizione legislativa, le parti private fanno i propri interessi” (La Stampa, 23 febbraio 2019), oppure che “le parti nel processo non sono uguali, perché il pm è costretto a dire la verità e il difensore dell’imputato il falso” (DiMartedì, 20 febbraio 2019).
E, infine, se anche i magistrati oggi indagati dovessero essere rinviati a giudizio, subire un processo ed essere assolti, Davigo ci spiegherebbe che “in buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca” (La Stampa, 23 febbraio 2019). Tutte cose che il “vero” Davigo direbbe e che ora, invece, non dice.
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