Il testimone imbeccato a dovere

Si devono ora analizzare le dichiarazioni rese da Francesco Andriotta nell’ambito dell’odierno dibattimento, anche rispetto a quelle rese negli interrogatori espletati in fase d’indagine preliminare (come detto, acquisite al fascicolo per il dibattimento col consenso delle parti).
In primo luogo, Andriotta spiegava che veniva collocato nel carcere di Busto Arsizio, nell’estate del 1993, su sua richiesta. Dopo l’allocazione nella cella accanto a quella di Vincenzo Scarantino, che si era sempre protestato estraneo ai fatti di via D’Amelio (“Io devo ribadire che Scarantino ha sempre ribadito che era innocente”), riceveva una visita da parte del dottor Arnaldo La Barbera e dal dottor Vincenzo Ricciardi. Tale visita “importante” gli veniva anche preannunciata dal comandante della polizia penitenziaria di quel carcere.
La richiesta degli inquirenti era quella di collaborare con la giustizia, sui fatti di via D’Amelio. Andriotta faceva subito presente che non sapeva alcunché della strage e gli inquirenti gli spiegavano che volevano “incastrare” e mettere con le “spalle al muro” Vincenzo Scarantino, inducendolo a collaborare, poiché erano assolutamente certi del suo coinvolgimento nell’eccidio del 19 luglio 1992. In cambio, venivano prospettati ad Andriotta, all’epoca condannato all’ergastolo con sentenza di primo grado (non ancora definitiva), benefici come il programma di protezione, per lui e la famiglia (negli Stati Uniti d’America) e la riduzione della pena perpetua con una temporanea (di diciassette o diciotto anni di reclusione).
Contestualmente, gli veniva accennato, da parte di Arnaldo La Barbera, il contenuto delle dichiarazioni che doveva rendere in merito al furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio ed i nomi dei soggetti che doveva chiamare in causa per quella strage. Di fronte alle resistenze di Andriotta, il dottor Arnaldo La Barbera lo invitava a prender tempo ed a rifletterci meglio, anche se non per troppo tempo, perché in carcere “si può sempre scivolare e rimanere per terra”, mentre il dottor Vincenzo Ricciardi dava un buffetto sulla guancia di Andriotta, invitandolo ad ascoltare il collega e dicendogli che lo avrebbero aiutato e sostenuto.
Sulla persona che accompagnava, in detta occasione, Arnaldo La Barbera, Andriotta spiegava (senza alcuna esitazione od incertezza) che si trattava proprio di Vincenzo Ricciardi e che detto ricordo gli affiorava gradualmente(effettivamente, l’imputato ne riferiva già in fase d’indagine preliminare).
L’imputato non ricordava se, prima di fargli la suddetta proposta di rendere le false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, i due funzionari di polizia gli prospettavano anche la possibilità di divenire un loro informatore. A tal proposito, Andriotta (dietro precisa indicazione di Arnaldo La Barbera) rifiutava, anche dopo l’avvio della sua falsa collaborazione, quanto prospettatogli dal Pubblico Ministero con cui rendeva i primi interrogatori (la dott.ssa Ilda Boccassini), vale a dire di ritornare in carcere a Busto Arsizio, per registrare le sue conversazioni con Scarantino, accampando, timori per la propria incolumità personale, in caso di ritorno in quell’istituto da ‘collaboratore’.
In epoca successiva rispetto alla visita carceraria di Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, quando ancora non aveva accettato la loro proposta, Andriotta veniva prelevato dalla cella, di notte, e portato nel cortile del passeggio (analogamente a Vincenzo Scarantino), dove veniva minacciato da un giovane agente di polizia penitenziaria, con accento palermitano, che lo sollecitava “a dire le cose come ti hanno riferito”, perché Scarantino era colpevole. L’agente della penitenziaria, inoltre, gli metteva un foulard, a mo’ di cappio, attorno al collo (quest’ultimo particolare, comunque, già dichiarato dall’imputato anche nell’interrogatorio del 17.7.2009, veniva confermato al dibattimento dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Analogo trattamento veniva riservato a Scarantino, come Andriotta poteva udire in carcere (quella stessa notte, oppure in un’altra occasione).
Anche in altre circostanze, Andriotta, sentiva che Scarantino urlava, perché sottoposto a maltrattamenti, nel carcere di Busto Arsizio; il compagno di detenzione gli confidava poi che i maltrattamenti erano da parte di Arnaldo La Barbera (anche su tale circostanza, non secondaria e non confermata da Scarantino, l’imputato confermava le sue precedenti dichiarazioni soltanto dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Scarantino raccontava ad Andriotta che gli facevano mangiare
cibo contenente urina e che non lo curavano adeguatamente, quando stava male. Andriotta, su indicazione di Arnaldo La Barbera, parlava a Scarantino della morte in carcere di Nino Gioè, per fargli pressione psicologica, cercando d’incutergli tensione e paura (detta circostanza, peraltro, veniva negata da Andriotta, nel confronto pre-dibattimentale con Vincenzo Scarantino).
Andriotta decideva, poi (non è affatto chiaro in quale momento e, soprattutto, in che modo), d’accettare le proposte ricevute dai predetti funzionari, dopo aver riflettuto sul colloquio con Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, e chiedeva d’essere interrogato dalla dott.ssa Zanetti della Procura di Milano (vale a dire il Pubblico Ministero del processo per omicidio, a suo carico) sulle vicende che lo riguardavano direttamente, per far presente, in un secondo momento, come suggeritogli da Arnaldo La Barbera, che era in condizione di riferire anche circostanze utili alle indagini sulla strage di via Mariano D’Amelio.
Ancora, Andriotta parlava di un successivo incontro avvenuto alla Procura di Milano, dopo aver sostenuto un primo interrogatorio (con la dott.ssa Zanetti) sull’omicidio del quale era accusato e prima d’essere ascoltato dalla dott.ssa Boccassini, proprio in relazione alle conoscenze millantate sulla strage di via D’Amelio. In quell’occasione, Andriotta conosceva anche Salvatore La Barbera, che entrava, seguito da Vincenzo Ricciardi, nella stanza dove l’imputato attendeva d’essere condotto davanti al magistrato.
L’imputato inoltre confermava (dopo la contestazione di quanto dichiarato nella fase delle indagini) la presenza di Arnaldo La Barbera (detta presenza, comunque, è documentata, in occasione dell’interrogatorio del 14 settembre 1993, che segnava
l’avvio della ‘collaborazione’ di Francesco Andriotta).
In tale occasione, Salvatore La Barbera raccomandava ad Andriotta di seguire quello che gli suggeriva Arnaldo La Barbera, che era “il numero uno”, una vera e propria “potenza” ed avrebbe mantenuto le promesse. Quando Andriotta rispondeva che lui non sapeva alcunché della strage di via D’Amelio, il funzionario gli strizzava l’occhiolino, dicendo che Scarantino, nel carcere di Busto Arsizio, gli parlava della strage. Inoltre, prima che Andriotta venisse condotto davanti alla dott.ssa Boccassini, Arnaldo La Barbera entrava nella stanza dove l’imputato attendeva e gli spiegava che doveva fare i nomi di Scarantino, Profeta, Orofino e Scotto, come persone coinvolte nella strage di via D’Amelio, in base alle confidenze carcerarie ricevute dal primo, nel carcere di Busto Arsizio.
[…]
Il predetto dialogo con i funzionari di polizia, prima dell’atto istruttorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della falsa collaborazione di Francesco Andriotta, non durava a lungo (appena cinque o dieci minuti circa, secondo l’imputato), a fronte di un interrogatorio di ben otto ore (il relativo verbale è composto da oltre diciassette pagine). Sul punto, Andriotta spiegava, in modo assai poco convincente e lineare, poiché molto generico e con dichiarazioni assolutamente inedite prima del dibattimento, che, in precedenza, gli giungevano (neppure è dato sapere se al carcere di Busto Arsizio, oppure in quello di Saluzzo) degli appunti, da parte del dottor Arnaldo La Barbera, con scritto quello che doveva imparare e dichiarare all’autorità giudiziaria.
[…]
L’imputato dichiarava anche d’aver ricevuto, nel corso del tempo, in due o tre occasioni, delle somme di danaro per un totale di circa dieci o dodici milioni di Lire, ulteriori rispetto alle somme accreditategli dal Servizio Centrale di Protezione. Dette somme, a dire di Andriotta, venivano consegnate, in un’occasione, direttamente alla sua ex moglie (Bossi Arianna), da Arnaldo La Barbera e, un’altra volta, invece, nelle sue mani, da Mario Bò, durante un permesso premio (negli interrogatori pre-dibattimentali, invece, Andriotta dichiarava che riceveva, personalmente, in entrambi i casi, le somme in questione per cinque milioni di Lire). L’imputato spiegava poi che non riferiva, in precedenza, che parte di quelle somme venivano ricevute dalla sua ex moglie, perché non voleva coinvolgerla nella sua vicenda processuale. Analoga giustificazione veniva data dall’imputato ad un’altra dichiarazione inedita, relativa alla circostanza che la sua ex convivente, Manacò Concetta, a metà degli anni duemila, sapeva della falsità della sua collaborazione con la giustizia e, in un’occasione, gli sputava persino in faccia per questo motivo, dicendogli che sapeva che tutto quello che lui dichiarava sui fatti di via D’Amelio era falso, perché Scarantino non gli aveva mai fatto quelle confidenze35.
Oltre alla predetta vicenda degli appunti, contenenti le dichiarazioni da imparare, in vista dell’avvio della collaborazione, l’imputato confermava che, prima di diversi interrogatori con l’autorità giudiziaria, i funzionari di polizia gli indicavano cosa doveva dichiarare ai Pubblici Ministeri. Ad esempio, prima di un interrogatorio nel carcere di Milano Opera con la dottoressa Boccassini, Andriotta aveva un colloquio con il dottor Arnaldo La Barbera (la circostanza, tuttavia, non risulta affatto riscontrata), così come incontrava il predetto funzionario, nel carcere di Vercelli, prima di un altro interrogatorio (quest’ultima affermazione dell’imputato, invece, è riscontrata: il 17 gennaio 1994, Andriotta veniva interrogato, peraltro, aggiungendo circostanze significative rispetto alle sue precedenti rivelazioni ed, in pari data, risulta un colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera).
Ancora, l’imputato ricordava d’aver incontrato il dottor Mario Bò, nel carcere di Paliano, con il funzionario che gli spiegava cosa doveva dichiarare nell’interrogatorio successivo. Su quest’ultima emergenza si tornerà a breve, ma si deve subito accennare che, dagli accertamenti espletati […], risultano documentati due accessi al carcere di Paliano del predetto funzionario, in occasione degli interrogatori resi da Andriotta il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994: la circostanza pare di non poco momento, posto che si trattava proprio dei due interrogatori immediatamente successivi alla sopravvenuta ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino, dove Andriotta, adeguandosi (in gran parte) alle dichiarazioni dell’ex compagno di detenzione, millantava, per la prima volta, delle confidenze dello stesso Scarantino sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute, sino ad allora, per timore.
Inoltre, Andriotta dichiarava (non senza qualche oscillazione, […]) d’aver ricevuto, mentre era ristretto in cella (con tale Nicola Di Comite), nel carcere di Milano Opera, agli inizi del 1996, tramite il comandante della polizia penitenziaria di detto istituto, corposa documentazione, contenente anche interrogatori resi dal ‘collaboratore’ Vincenzo Scarantino.
Ancora, sul tema del materiale scritto che gli veniva messo a disposizione dagli inquirenti, Andriotta dichiarava, per la prima volta al dibattimento, che riceveva, personalmente, dal dottor Mario Bò, presso uno dei tre istituti dove veniva trasferito, in rapida successione, dopo il carcere romano di Rebibbia, anche il verbale contenente la ritrattazione dibattimentale di Vincenzo Scarantino.
In merito ai suoi rapporti con Scarantino, Andriotta escludeva decisamente d’essersi mai accordato con lui, per rendere le sue false dichiarazioni all’autorità giudiziaria (così anche Scarantino), negando (in maniera molto decisa) d’aver mai riferito di un tale accordo (appunto, inesistente) a Franco Tibaldi ed a Giuseppe Ferone (come, invece, affermavano costoro, nei verbali d’interrogatorio acquisiti agli atti del dibattimento). A Franco Tibaldi, che faceva la socialità con lui al carcere di Ferrara, Andriotta spiegava (giacché questi era con lui, quando l’imputato riceveva la missiva) che il suo avvocato (Valeria Maffei) rinunciava al mandato, poiché assumeva la difesa di un nuovo collaboratore di giustizia (Gaspare Spatuzza), che faceva rivelazioni sui fatti di via D’Amelio e, probabilmente, si lasciava pure andare ad uno sfogo, in sua presenza, dicendo che “gli accordi non erano questi”. Tuttavia, detto riferimento del prevenuto era agli accordi con i predetti funzionari, messi in discussione dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza […].
In merito alle promesse che gli venivano fatte affinché si determinasse a rendere le false dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, Andriotta ha sostenuto che gli inquirenti gli prospettavano anche (come già esposto) la riduzione della pena dell’ergastolo di primo grado, nei successivi gradi di giudizio. Dopo che la condanna all’ergastolo diventava definitiva, senza che Andriotta ottenesse la prospettata riduzione di pena, gli inquirenti, oltre a spiegargli i benefici di cui poteva, comunque, fruire come collaboratore di giustizia, gli avrebbero parlato della possibile revisione del processo: “ne parlò la dottoressa Anna Maria Palma di una revisione, di una probabile revisione del processo e ci fu quella volta là c’è la dottoressa e c’era il dottore Antonino Di Matteo quando mi disse questa cosa” (era la prima occasione in cui Andriotta conosceva il dottor Di Matteo). Inoltre, veniva anche assicurato all’imputato che, da lì a poco, gli avrebbero concesso un permesso premio, come -effettivamente- accadeva e come gli comunicava Salvatore La Barbera, nell’aula bunker di Catania Bicocca (il funzionario sottolineava che loro mantenevano le promesse). Ancora, dopo che Scarantino ritrattava, ad Andriotta veniva richiesto di dichiarare, falsamente, d’esser stato avvicinato, in località protetta, da due mafiosi per indurlo alla ritrattazione. Il fine di tali dichiarazioni, come gli spiegavano, in occasione di due diversi permessi premio, sia Arnaldo La Barbera (a settembre 1997) che Mario Bò (a dicembre 1997), era quello di screditare la ritrattazione di Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa (per rendere tali dichiarazioni, all’imputato veniva promessa la detenzione domiciliare e, dopo due anni, la liberazione condizionale).
[…]
Con particolare riferimento a taluni degli interrogatori (già richiamati) che segnavano le tappe della sua falsa collaborazione con l’autorità giudiziaria, Andriotta dichiarava quanto di seguito riportato.
In relazione al primo interrogatorio da ‘collaboratore’, fatto il 13 settembre 1993, al Pubblico Ministero, dottoressa Boccassini, Andriotta spiegava che, delle circostanze in esso riportate, rispondevano al vero unicamente quelle relative al fatto che egli era detenuto nella cella a fianco di Vincenzo Scarantino e che si prestava, effettivamente, a scrivergli delle lettere destinate alla moglie (giacché il compagno di detenzione era praticamente analfabeta), nonché i bigliettini da recapitarle o da comunicarle, attraverso la propria coniuge (Bossi Arianna). Rispondeva al vero, inoltre, la preoccupazione mostrata da Vincenzo Scarantino in occasione dell’arresto del fratello Rosario: il compagno di detenzione, effettivamente, temeva che il germano fosse stato arrestato anch’egli, per il furto della Fiat 126 utilizzata per la strage, pur essendo entrambi estranei a quella vicenda.
Non era affatto vero, invece, che Michele Giambone chiedeva ad Andriotta di portare i suoi saluti a Scarantino (come gli suggerivano di riferire al detenuto Arnaldo o Salvatore La Barbera).
Neppure rispondeva a verità che il compagno di detenzione gli confidava d’aver ricevuto, da un parente, l’incarico di rubare la Fiat 126, che doveva essere di color bordeaux come quella di sua sorella o che il furto veniva poi effettivamente eseguito da Salvatore Candura, che portava la vettura in un luogo prestabilito, con Luciano Valenti. Si trattava di circostanze che Andriotta poteva leggere negli appunti che gli venivano recapitati, prima di sostenere l’interrogatorio con la dott.ssa Ilda Boccassini.
Lo stesso vale per le dichiarazioni relative ai problemi meccanici dell’automobile, alla necessità di trainarla dopo il furto e, ancora, alla sua riparazione ed al cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché al ritardo nella denuncia del furto delle targhe stesse, al lunedì successivo alla strage (tutte circostanze, peraltro, intrinsecamente vere, come visto in altra parte della motivazione, sebbene mai rivelate da Scarantino ad Andriotta).
Del pari, era un suggerimento del dottor Arnaldo La Barbera quello relativo alla falsa confidenza di Scarantino che, ad accusarlo, erano proprio i predetti Candura e Valenti. Ancora, era falsa la circostanza che, dopo l’arresto del ‘garagista’, Scarantino iniziava a temere per la propria posizione e che mutava pure la sua versione sul luogo dove l’autovettura veniva imbottita d’esplosivo (come già accennato, indicando, prima dell’arresto menzionato, la porcilaia nella disponibilità dei suoi parenti e, successivamente, proprio il garage di Orofino).
Questa dichiarazione sul cambio del luogo di riempimento della Fiat 126, tuttavia, non era contenuta negli appunti predetti, ma gli veniva suggerita oralmente, da taluno degli inquirenti, prima dell’interrogatorio (l’imputato non specificava da chi). Quanto al Matteo o Mattia o La Mattia, Andriotta si limitava a ripetere al Pubblico Ministero il nominativo contenuto negli appunti che gli venivano forniti, evidenziando che le indicazioni ricevute erano proprio di fare quel nome in maniera volutamente generica ed imprecisa e che egli non chiedeva alcunché a tal riguardo.
Ancora, l’imputato si limitava ad indicare, genericamente, in quel primo interrogatorio, la figura di un ‘telefonista’, che associava poi al nome di Gaetano Scotto solo nel successivo interrogatorio del gennaio 1995, perché così gli veniva
detto di fare.
In relazione all’interrogatorio del 4 ottobre 1993, presso il carcere di Milano-Opera, con la dott.ssa Ilda Boccassini ed il dottor Fausto Cardella, Andriotta spiegava che era presente anche il dottor Arnaldo La Barbera; quest’ultimo non partecipava all’atto istruttorio, ma accompagnava la dottoressa e fumava anche una sigaretta con l’imputato, prima dell’atto istruttorio. Come spiegato dall’imputato, anche le dichiarazioni rese in quella circostanza erano false e, in particolare, non rispondeva affatto al vero la circostanza relativa al messaggio minatorio, dentro il panino imbottito, diretto al dott. Lo Forte (“guida forte la macchina”), che Scarantino (a suo dire) recapitava all’esterno del carcere tramite Andriotta e la moglie di quest’ultimo. Detta dichiarazione gli veniva suggerita da Arnaldo La Barbera, così come gli veniva suggerita la falsa confidenza di Scarantino (“è arrivata la Profezia”) relativa all’incarico ricevuto dal cognato, Salvatore Profeta, per rubare la Fiat 126 da impiegare nell’attentato: detta ultima circostanza, suggeritagli prima dell’interrogatorio, serviva per render più credibili le sue dichiarazioni, in considerazione dello spessore criminale del cognato di Scarantino (“perché Scarantino è un pesce piccolo, mentre ProfetaSalvatore mi dissero che era uno che contava”). Arnaldo La Barbera, come detto, suggeriva detta dichiarazione, che gli serviva per far scattare il blitz contro Profeta (“C’era il dottor Arnaldo La Barbera, mi disse: “Adesso devi dire Salvatore Profeta, il cognato di Scarantino, perché io devo fare scattare il blitz dell’arresto”. E mi sembra che fu pochi giorni dopo ilmio interrogatorio l’arresto di Profeta”).
Più in generale, Andriotta spiegava che era, appunto, Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo inquirente che si occupava delle indagini sulla strage, a dare le direttive, mentre gli altri funzionari di polizia erano “diciamo dei supervisori … come glielo devo spiegare? Non so. Non erano proprio loro che mi dicevano le cose, se non in alcune occasioni, tipo Salvatore La Barbera o il dottor Mario Bo’. Però in special modo era il dottor Arnaldo La Barbera”.
In relazione all’interrogatorio del 17 gennaio 1994, nel carcere di Vercelli, con la dott.ssa Ilda Boccassini, Andriotta (come anticipato) rammentava d’aver sostenuto, prima dello stesso, un colloquio investigativo, non breve, con il dottor Arnaldo La Barbera, tant’è che l’imputato terminava tutte le sigarette ‘Marlboro’ a propria disposizione, fumando poi le ‘Rothmans’ che gli offriva il funzionario, anche se non ricordava di cosa parlavano in quella specifica occasione (della quale, come detto, risulta traccia documentale, negli accertamenti espletati). Sul punto, va rilevato che nel corso dell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (come detto, acquisito agli atti), l’imputato dichiarava che il funzionario di polizia, in detta occasione, gli suggeriva le dichiarazioni da rendere all’autorità giudiziaria e, come già riportato, l’interrogatorio in questione era quello in cui Andriotta dichiarava, per la prima volta, adeguandosi ad una sopravvenuta dichiarazione di Salvatore Candura, che quest’ultimo, dopo la strage del 19 luglio 1992, contattava più volte Scarantino, telefonicamente, per sapere se la Fiat 126 che gli faceva rubare era proprio quella impiegata come autobomba in via D’Amelio.
Invece, l’imputato non ricordava alcunché di un ulteriore colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera, sostenuto, sempre nella casa circondariale di Vercelli, il 2 marzo 1994 (del quale, pure, vi è traccia negli atti), non rammentando nemmeno se vi era o no un collegamento fra tale colloquio ed il successivo interrogatorio reso alla dott.ssa Boccassini il 21 marzo 1994 (nel quale Andriotta manifestava un momento di disagio per la sua situazione carceraria).
Quanto al contenuto degli interrogatori del 16 settembre 1994 e del 28 ottobre 1994 (come già accennato), Andriotta evidenziava che, in occasione del primo di tali atti istruttori, il dottor Mario Bò -che vi assisteva per ragioni investigative- gli suggeriva di riferire all’autorità giudiziaria (i Pubblici Ministeri erano la dottoressa Anna Maria Palma ed il dottor Carmelo Antonio Petralia) di una riunione cui era presente anche Vincenzo Scarantino. In quella occasione, il dottor Mario Bò, durante una pausa, gli consegnava, su direttiva di Arnaldo La Barbera, due o tre fogli contenenti le circostanze che doveva studiare e riferire nell’interrogatorio successivo (quest’ultima circostanza non veniva mai menzionata prima del dibattimento, dall’imputato; infatti, negli interrogatori resi in fase d’indagine, Andriotta raccontava solo di un colloquio di circa mezz’ora con il dottor Bò, senza fare alcun riferimento a documenti od appunti che provenivano da Arnaldo La Barbera).
[…]
Quanto alle dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 26 gennaio 1995, al carcere di Paliano (innanzi ai Pubblici Ministeri, dott.ri Anna Maria Palma e Carmelo Antonio Petralia, assistiti dall’Agente Scelto Michele Ribaudo), Andriotta non rammentava chi gli suggeriva di dichiarare, per la prima volta in occasione di tale atto istruttorio, da un lato, che alla predetta riunione di villa Calascibetta partecipavano anche Ciancio o Gancio e Matteo o La Mattia e, dall’altro lato, che anche Gaetano Scotto era coinvolto nella strage di via D’Amelio, avendo fornito il consenso della famiglia Madonia. Si trattava, comunque, di un suggerimento proveniente dagli inquirenti, vale a dire da Arnaldo o Salvatore La Barbera o, ancora, da Mario Bò (quest’ultimo, appena qualche giorno prima, andava in carcere per fare firmare ad Andriotta delle carte relative al suo programma di protezione).
Quanto, poi, alle dichiarazioni rese il 29 aprile 1998, presso il carcere di Roma Rebibbia (alla dott.ssa Anna Maria Palma, coadiuvata da Mario Bò), sulle minacce (come detto, inesistenti) ricevute da due emissari mafiosi, in località protetta, affinché ritrattasse le dichiarazioni rese in precedenza, Andriotta evidenziava che era un suggerimento di Arnaldo La Barbera e Mario Bò. Quest’ultimo, in compagnia di altri due funzionari, che non Andriotta conosceva e che sembravano di livello più elevato (poiché uno di loro, ad un certo punto, zittiva Mario Bò), in occasione del permesso natalizio del 1997, durante il viaggio notturno, in automobile, dal carcere romano di Rebibbia, gli suggeriva appunto di riferire quelle false circostanze, spiegando che ciò serviva a sostenere le sue precedenti dichiarazioni ed a rendere non credibile la ritrattazione di Vincenzo Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa. Inoltre, Andriotta riceveva analoga sollecitazione anche da Arnaldo La Barbera, in occasione del precedente permesso premio, a settembre 1997, quando si trovava a Piacenza. Sempre per far apparire verosimili le dichiarazioni di Andriotta, screditando la ritrattazione di Vincenzo Scarantino, Mario Bò suggeriva all’imputato di nominare, come propri difensori, due dei legali che difendevano alcuni imputati della strage di via D’Amelio, nei processi in corso di celebrazione, vale a dire (come già detto) gli Avvocati Scozzola e Petronio.
Ancora, era il dottor Mario Bò che -allo stesso scopo- spingeva Andriotta a denunciare Scarantino per calunnia, per le dichiarazioni rese da quest’ultimo con la clamorosa ritrattazione della sua ‘collaborazione’. Ciò avveniva, forse, nel marzo/aprile 1998 (la datazione è evidentemente errata, poiché la predetta ‘ritrattazione’ di Scarantino avveniva, come è noto, soltanto a settembre di quell’anno), all’interno del carcere di Rebibbia, allorché il dottor Bò era in compagnia della dottoressa Palma; quest’ultima, però, non assisteva a tale discorso.
Inoltre, l’imputato sosteneva (in maniera assai poco convincente) la propria volontà di ritrattare le sue false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, anche prima d’esser messo innanzi all’evidenza delle risultanze
successive alla collaborazione di Gaspare Spatuzza. In particolare, Andriotta sosteneva d’aver riferito ad un ispettore dell’Anticrimine di Piacenza di nome “Davio, Davico, Davini”, durante un permesso premio del marzo 1998: “mi stanno facendo girare le scatole, se voglio io, gli faccio cadere tutto il processo” (la circostanza, tuttavia, non trovava alcuna conferma, nonostante l’audizione dei poliziotti dell’Anticrimine piacentina). Ancora, durante un permesso premio nel mese di ottobre/novembre 2005, preso dal rimorso, Andriotta avrebbe fatto un’istanza al servizio centrale di protezione per poter rendere una dichiarazione alla stampa ed alla televisione, ma l’autorizzazione veniva negata. Nessun magistrato della Procura di Caltanissetta andava ad interrogarlo per comprendere che cosa voleva riferire agli organi di stampa, né Andriotta avanzava alcuna richiesta d’esser ascoltato dai magistrati, poiché intendeva ritrattare soltanto “via etere”, sentendosi più tutelato dai media (in quanto, a suo parere, i magistrati potevano insabbiare la vicenda).
Ancora (per lo stesso motivo), pur venendo successivamente ascoltato dalla Procura Nazionale Antimafia, Andriotta non ritrattava le sue dichiarazioni sui fatti di via D’Amelio (chiedeva d’esser ascoltato dal dottor Pietro Grasso, ma veniva interrogato dal dottor Giordano, già in servizio alla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta).
Andriotta, dettagliando un accenno fatto durante le indagini (nell’interrogatorio del 17 luglio 2009: “ci sono state delle volte che io volevo ritrattare e ho preso botte”), riferiva anche alcuni episodi di maltrattamenti personalmente realizzati dagli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Sulmona, nel 2002 e nel 2007, allorché aveva rappresentato al suo avvocato dell’epoca, a colloquio in tale carcere, che non riusciva più a sopportare il peso delle false dichiarazioni e che intendeva ritrattarle.
Per tali fatti veniva anche celebrato un processo penale, presso il Tribunale di Sulmona (“Perché purtroppo in quel carcere, quando parli con il tuo legale di fiducia, ti ascoltano e io dissi in più occasioni all’Avvocato che non… non riuscivo ad andare avanti, volevo dire la verità perché non me la sentivo, mi stavo facendo io la galera e anche gli altri, non volevo più andare avanti così. Però puntualmente, come operazione farfalla, abbuscavo mazzate. Ogni volta, ogni volta!”). Sul punto, Andriotta rendeva anche un’altra dichiarazione inedita sul fatto che, dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, veniva avvicinato, nel giugno/luglio del 2009, dal comandante della polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, che gli faceva domande “strane”, se corrispondeva o meno a verità che intendeva ritrattare le sue precedenti dichiarazioni.
Altra dichiarazione rilevante di Andriotta era quella relativa alla circostanza che, durante uno dei processi in cui deponeva come testimone, in particolare nell’aula bunker di Torino, in una pausa dell’udienza (trattasi dell’udienza del 16 ottobre 1997, nel dibattimento di primo grado del processo c.d. Borsellino bis), il dottor Mario Bò lo rimproverava duramente perché rendeva una dichiarazione difforme da quella che gli veniva suggerita (della quale, però l’imputato non rammentava l’oggetto), rischiando, a dire del funzionario, di far saltare il processo. A tal proposito, quando gli veniva domandato se a tale “rimprovero” di Mario Bò assistevano anche la dott.ssa Palma oppure il dottor Di Matteo (che erano i due Pubblici Ministeri di quell’udienza), Andriotta rispondeva (più di una volta): “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Analoga facoltà veniva esercitata dall’imputato anche in risposta ad una domanda sulla conoscenza, da parte dei magistrati inquirenti dell’epoca, della circostanza che Scarantino si professava innocente per la strage, peraltro dopo che Andriotta aveva già affermato, spontaneamente, d’aver rivelato, anche ai magistrati inquirenti, che Scarantino si professava innocente (“Ah, questo gliel’avevo detto ai poliziotti che lui non mi aveva mai raccontato nulla e che continuava a dire che era innocente. (…) Al dottor Arnaldo La Barbera, al dottor Ricciardi e anche al dottor Mario Bo. (…) E anche ai magistrati. (…) Su questo mi avvalgo della facoltà di non rispondere, come ho detto all’Avvocato Scozzola nell’aula bunker di Torino”). Tale atteggiamento dell’imputato è legittimo, ma contraddittorio, poiché egli esercitava il c.d. diritto al silenzio, dopo una serie domande su eventuali intromissioni dei magistrati nella sua falsa collaborazione: ebbene, a dette domande (fatte appena pochi minuti prima), Andriotta rispondeva escludendo qualsivoglia ruolo o consapevolezza dei magistrati dell’epoca, per poi affermare, invece, quanto sopra riportato. Nel riesame del Pubblico Ministero, infine, Andriotta tornava sui suoi passi, sostenendo (in maniera assolutamente non convincente) che s’era avvalso della facoltà di non rispondere soltanto per un “errore di pronuncia” e specificando di non aver mai informato alcun magistrato delle falsità delle sue rivelazioni o di quelle di Scarantino. Invece, nell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (pienamente utilizzabile ai fini probatori), Andriotta spiegava che era proprio la dott.ssa Palma ad arrabbiarsi molto con lui, chiedendogli come faceva a sapere delle cose che non erano nemmeno uscite sui giornali (cfr. interrogatorio 17.7.2009, pag. 154: “E allora in una occasione è stato che durante un processo in video conferenza nell’aula bunker di Torino addirittura la dottoressa Anna Maria Palma si arrabbiò tantissimo con me, c’era la scorta dei Carabinieri quindi stiamo parlando che era 1996 o ’97 (…). Perché io aggiunsi delle dichiarazioni nuove che non erano ancora uscite nemmeno sui giornali o sulla televisione e disse “Andriotta adesso mi devi dire chi t’ha detto ste cose?”, e io me le sono ricordate. In quell’occasione c’era il dottor Mario Bo insieme alla dottoressa Anna Maria Palma, non mi ricordo se c’era anche il dottore Antonino Di Matteo quel giorno come Sostituto Procuratore per la parte dell’accusa, non mi faccia dire una bugia”).
Orbene, prima di passare alle conclusioni in merito alla responsabilità penale dell’imputato per la calunnia continuata ed aggravata […] occorre fare alcune considerazioni generali sul contenuto delle predette dichiarazioni, palesemente autoaccusatorie.
A tal proposito, va -innanzitutto- sottolineato come il percorso dell’imputato (a far data dal luglio del 2009, allorché decideva di ritrattare le dichiarazioni rese nei precedenti procedimenti) sia tutt’altro che lineare, in quanto segnato da molteplici incoerenze e contraddizioni, oltre che da significativi aspetti di progressione (e pure da qualche reticenza) nelle accuse mosse contro altri soggetti. Talune novità nelle dichiarazioni dibattimentali dell’imputato, poi, dopo ben quattro interrogatori nell’arco di un anno e mezzo (in fase d’indagine preliminare), sono assolutamente non credibili e paiono strumentali ad alleggerire la propria posizione processuale. […]
Ebbene, pur con tutte le (doverose) cautele e riserve sull’attendibilità complessiva dell’imputato (le cui dichiarazioni vanno ‘maneggiate’ con estrema cautela, soprattutto ove attingano terze persone), alla luce del suddetto percorso di falso ‘collaboratore’ della giustizia ed anche della marcata progressività delle dichiarazioni stesse (evidentemente funzionali, come detto, ad alleggerire la propria posizione processuale), pare difficile, alla luce del complessivo compendio probatorio (ed al di là delle accennate ed evidenti contraddizioni ed incongruenze, su molteplici circostanze specifiche), confutare quanto da lui dichiarato in merito alla tematica generale dell’indottrinamento da parte degli inquirenti infedeli dell’epoca, sebbene sia del tutto evidente che l’imputato introduca anche circostanze non vere e, comunque, non voglia raccontare tutto quanto è a sua conoscenza in merito alla propria ed all’altrui ‘collaborazione’. Sul punto, al di là dell’evidenziata progressività delle dichiarazioni dell’imputato (che parlava, come detto, solo al dibattimento di appunti scritti consegnatigli in carcere, prima dell’avvio della ‘collaborazione’), pare assai difficile ipotizzare un’origine diversa rispetto al suggerimento degli inquirenti dell’epoca (poco importa, da tale punto di vista, se con appunti scritti o soltanto con indottrinamento orale, magari fatto con modalità assai diverse, rispetto a quelle -inverosimili- riferite dall’imputato negli interrogatori acquisiti agli atti), atteso che la collaborazione di Scarantino non era ancora iniziata (come è noto, il primo verbale del pentito della Guadagna risale al giugno 1994). […]
Addirittura inquietanti (come già accennato), alla luce di quanto ampiamente accertato in questo procedimento sul furto della Fiat 126 e sulle sue condizioni meccaniche, oltre che sulla sistemazione dell’impianto frenante, a cura di Gaspare Spatuzza (tramite Maurizio Costa) e francamente inspiegabili (come si vedrà meglio, trattando della posizione di Vincenzo Scarantino), senza un apporto di infedeli inquirenti e/o funzionari delle istituzioni, la circostanza che Andriotta, già nel primo interrogatorio da falso ‘collaboratore’ della giustizia, senza sapere alcunché della strage che occupa, né ricevendo alcuna confidenza da Scarantino (totalmente estraneo alla preparazione ed esecuzione della strage), parlava di circostanze non rientranti nel suo bagaglio di conoscenze, ma oggettivamente vere (come risulta da questo procedimento), vale a dire di problemi meccanici della Fiat 126 utilizzata come autobomba e della necessità di trainarla subito dopo il furto (come oggi dichiarato da Gaspare Spatuzza), ed, ancora, della sua riparazione e del cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché del ritardo nella denuncia al lunedì successivo la strage (di tutte queste circostanze, così come dell’attendibilità di Gaspare Spatuzza e dei numerosi riscontri alle sue dichiarazioni, si è dato ampiamente atto, in altra parte della motivazione, alla quale si rimanda).

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