L’ecomafia made in Veneto

Nel libro “Mafia come M” abbiamo voluto evidenziare un aspetto assai grave dello smaltimento illecito dei rifiuti, sottolineato anche dalla magistratura inquirente: a commettere reati che riguardano il business dei rifiuti spesso sono gli imprenditori veneti.
“La condizione principale dell’esistenza dell’ecomafia è sicuramente la corruzione. Che non per forza deve essere quella che prevede l’accordo segreto tra due soggetti in cambio di denaro o altro ancora; ma anche una corruzione di tipo etico, morale. Come si può, altrimenti, decidere di avvelenare la terra, l’acqua, l’ambiente in cui viviamo e quindi noi, se non si è corrotti dentro? Il gioco criminale che sta dietro ai reati ambientali è un gioco formato da più attori provenienti da vari settori: dalla politica, dall’imprenditoria, dai colletti bianchi, dagli addetti ai lavori, dai mafiosi. È un sistema e molto spesso le organizzazioni criminali di stampo mafioso sono solo parte di ingranaggi già collaudati; prestano il fianco ai professionisti del mestiere”.
Per spiegare quanto scritto, basta rileggere alcune delle inchieste giudiziarie che hanno coinvolto imprese del Veneto già negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila come l’operazione “Adelphi” e l’operazione “Cassiopea”, “definita come la madre di tutte le indagini riguardanti il traffico illecito di rifiuti speciali per una serie di motivi – dal numero dei soggetti inquisiti alle aree regionali interessate, dalle strategie dei traffici illeciti alla stessa durata dell’inchiesta – che si fa luce sul binomio tra imprenditori del Nord e organizzazioni di stampo mafioso”.
Ma questa imponente indagine si è conclusa con un classico italiano: impunità, grazie alla prescrizione. “Con “Cassiopea”, in effetti, ci si era concentrati più sulla sfera imprenditoriale e quindi sulla “catena” di imprese normali che si occupavano di rifiuti, ma a cui ugualmente la magistratura aveva contestato anche il reato di associazione di stampo mafioso, come pure quello di associazione a delinquere semplice, di disastro ambientale, di getto pericoloso di cose, di realizzazione e gestione di discariche abusive e di una serie di reati “meno” gravi rispetto a quelli appena elencati, come truffa e abuso d’ufficio. Tutto in prescrizione. Tutto finito nel 2011. Intere zone e città compromesse, inquinate da colpevoli senza nomi. Da fantasmi, a conti fatti”.
“Ancora altre inchieste degli anni Duemila, come “Murgia violata” e “Houdini” – quest’ultima riguardante la società “Nuova Esa s.r.l.” di Marcon che insieme alla “Servizi Costieri” si occupava dei rifiuti di Marghera – descrivevano le rotte che dal Nordest facevano confluire illegalmente la “munnezza” nel Meridione, in Puglia, in Molise o in Calabria.
Sono le parole di Antonio Menga, allora Comandante del Gruppo Roma tutela ambiente, a chiarire la centralità del Veneto nel sistema criminale: “Nell’indagine di Venezia [“Houdini” ndr.] abbiamo rilevato una particolarità: per la prima volta (anche se già durante le attività pregresse era emerso il problema delle bonifiche) c’era proprio il coinvolgimento diretto dei titolari della società che svolgeva attività di smaltimento di rifiuti – il centro di stoccaggio –, che erano allo stesso tempo titolari di una società che svolgeva attività di bonifica. Quindi, questi stessi soggetti acquisivano a prezzi stracciati le terre e le rocce provenienti dalle bonifiche, sapendo benissimo che avrebbero speso anche molto poco per lo smaltimento successivo […]”. In concreto, i rifiuti giungevano all’impianto della “Nuova Esa” da tutte le regioni italiane ed erano destinati a proseguire senza alcun trattamento – anzi, miscelando rifiuti speciali pericolosi, rendendone impossibile l’identificazione – verso altre regioni. Il fine, ovviamente, era quello di conseguire cospicui profitti attraverso l’abbattimento dei costi di smaltimento dei rifiuti”.
In tempi più recenti, a Zero Branco, Treviso, è stata indagata la “Mestrinaro s.p.a.”. “Secondo gli organi inquirenti, all’inizio del secondo decennio del Duemila, i titolari dell’azienda, i tre fratelli Mestrinaro, “cedevano, ricevevano, trasportavano, smaltivano e, comunque, gestivano abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti (quantificabili in decine di migliaia di tonnellate), allo scopo di conseguire i risparmi di spesa correlati all’abbattimento dei costi da sostenere per il regolare recupero/smaltimento dei rifiuti”. In particolare i Mestrinaro avrebbero impastato e mescolato in maniera grossolana e approssimativa i rifiuti, alcuni per giunta inidonei a tale trattamento, di fatto non inertizzandoli; poi i prodotti ottenuti sarebbero stati declassificati in maniera illecita in materie prime secondarie per l’utilizzo in cantieri e opere edili, anche al di fuori del Veneto, con grave pericolo per l’ambiente. Infatti, tali materiali forniti con la qualifica di “Rilcem” per i sottofondi stradali, rilasciano nel suolo sostanze inquinanti e, di fatto, è assai complicato se non impossibile la loro completa asportazione”.
Nella vicenda Mestrinaro compare la figura dell’ingegnere Fabio Fior, dirigente della Regione Veneto, settore ambiente. “Fior aveva ricevuto l’incarico del collaudo dell’impianto ma non avrebbe potuto svolgere tale lavoro poiché, in virtù del ruolo pubblico ricoperto, aveva approvato lo stesso progetto per la realizzazione dell’impianto dei Mestrianaro per trattare i rifiuti speciali e aveva dato parere positivo di compatibilità ambientale. In altre parole, c’era un palese conflitto di interessi poiché, in concreto, è risultato che il controllore controllava se stesso”.
“Fabio Fior non è un personaggio di secondo piano; è stato dirigente generale presso la direzione tutela ambiente della regione Veneto, dal 2002 al 2010; vicepresidente della Commissione regionale di valutazione di impatto ambientale (VIA), dal 2002 al 2005; vicepresidente della Commissione tecnica regionale per l’ambiente (CTRA), dal 2002 fino al 2010; dirigente preposto all’unità di progetto energia presso la sezione energia, dal 2010 fino al 2014. Nonostante il ruolo di dirigente pubblico svolto, Fior, secondo gli organi inquirenti che lo hanno indagato, ha “operato come socio occulto di una serie di società, che facevano capo a lui, abusando delle sue funzioni”. Un giro di malaffare organizzato, in un clima di omertà diffusa, perché Fior, ad una serie di aziende operanti nel settore rifiuti, a lui riconducibili e di cui lui era il “dominus” incontrastato, procurava l’affidamento di incarichi per programmi di attuazione, di monitoraggio e di controllo; svolgendo, per di più, questa attività imprenditoriale «in concorrenza sleale con gli operatori del settore e, addirittura, dirottando verso le società anzidette quota parte di finanziamenti e contributi pubblici nel settore ambientale»”. La Commissione Bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti della scorsa legislatura ha evidenziato “un dettaglio non di poco conto: «Fior ha operato impunemente per circa quindici anni, grazie alle “coperture” di assessori e di funzionari della regione Veneto, alcune disvelate dalle indagini della procura della Repubblica in Venezia, altre rimaste in sottofondo”; senza dimenticare il grave danno economico (concernente i tanti soldi pubblici a lui destinati) recato a tutti noi»”.

[Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi” – Linea Edizioni, 2019]

 

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