I contatti segreti dell’estate 1992

Si è già visto sopra nei paragrafi precedenti che dei contatti di Mori e De Donno con Vito Ciancimino non venne mai data alcuna informativa alla Autorità Giudiziaria (di Palermo o anche di altra sede).
E ciò, non soltanto in modo formale (circostanza fattuale incontestata) anche eventualmente tacendo il nome dell’informatore avvalendosi della prerogativa di cui all’art. 203 c.p.p. pure più volte richiamato da Mori […], ma neppure in modo informale in colloqui riservati con magistrati della Procura di Palermo (o anche di altre Procure, quali in ipotesi, la Procura di Caltanissetta che indagava sulle stragi prima di Capaci e poi di via D’Amelio, ovvero anche la Procura di Roma stante che i contatti con Ciancimino iniziarono in tale città).
L’imputato Mori ha sempre giustificato tale omissione con i rapporti non idilliaci che il R.O.S. allora aveva con la Procura di Palermo a causa delle vicende del c.d. rapporto “mafia e appalti” […].
Tale giustificazione appare però chiaramente pretestuosa, tenuto conto che:
– neppure dopo l’insediamento del nuovo Procuratore della Repubblica Caselli e nonostante nel frattempo Vito Ciancimino fosse stato arrestato facendo così venire meno eventuali esigenze di riservatezza, venne mai redatta dal R.O.S., una informativa su tutti i contatti intrapresi con Ciancimino sin dal mese di giugno precedente e sugli sviluppi degli stessi;
– tale informativa, in realtà, neppure informai mente fu data al medesimo nuovo Procuratore della Repubblica Caselli, che, come si è già visto nel precedente paragrafo (v. dichiarazioni del teste Caselli già richiamate), infatti ebbe poi ad apprendere degli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino soltanto da quest’ultimo e nei soli limiti in cui lo stesso ritenne di informarlo, mentre né
Subranni, né Mori, né De Donno mai ebbero a fornirgli una effettiva e completa informazione anche con la ricostruzione dei medesimi accadimenti dal loro (necessariamente diverso) punto di vista;
– la giustificazione addotta potrebbe riguardare, al più, soltanto la Procura della Repubblica di Palermo e non spiega, quindi, perché non furono informati altri Uffici Giudiziari, primo fra tutti la Procura di Caltanissetta, tanto più che, a detta degli imputati, da Vito Ciancimino si intendevano acquisire notizie anche sulle stragi (v., ancora, dichiarazioni spontanee di Mario Mori sopra già riportate: “… mi ripromettevo di acquisire da lui elementi che mi potessero fare progredire
nelle indagini, per l’identificazione di mandanti e autori delle stragi di Capaci e
Via D’Amelio…”).
Già tali considerazioni rendono vana la giustificazione addotta dagli imputati ed inducono a ritenere, conseguentemente, che altra fu la ragione dell’omissione qui in esame.
Ma v’è di più.
Come si è visto nei paragrafi precedenti, per stessa ammissione degli imputati Mori e De Donno, la decisione di contattare Vito Ciancimino fu presa immediatamente dopo la strage di Capaci e, già durante il mese di giugno successivo, quanto meno il solo De Donno aveva, in effetti, già contattato il Ciancimino.
Non solo, ma è emerso che di tali contatti De Donno ebbe a riferire a Liliana Ferraro alla fine del mese di giugno 1992 e, in particolare, in un giorno compreso tra il 23 (trigesimo della strage di Capaci) ed il 28 (giorno in cui, poi, la Ferraro aveva incontrato il Dott. Borsellino).
Ed allora, se già quei contatti, quanto meno sotto il profilo programmatico, erano già attuali in quei giorni e lasciavano presagire importanti sviluppi tanto che De Donno ritenne di parlarne alla Ferraro, non si comprende perché analoga informazione non venne data anche al Dott. Borsellino, per il quale, di certo, per la sua storia e per la sua nota ed incontestabile dirittura morale, non potevano valere quelle remore addotte da Mori riguardo al Procuratore della Repubblica
dell’epoca (il Dott. Giammanco) od eventualmente anche riguardo ad altri magistrati di quell’Ufficio.
Eppure tanto Mori che De Donno incontrarono personalmente il Dott. Borsellino il 25 giugno 1992 in Palermo presso la Caserma Carini ed ebbero con lo stesso un lungo colloquio (v. sopra risultanze riportate nel capitolo 4) e, tuttavia, negli stessi giorni (o forse anche successivamente al giorno) in cui già avevano ritenuto di informare la Ferraro, per stessa ammissione dei predetti imputati, nulla dissero al Dott. Borsellino riguardo a Ciancimino.
Ed allora, non può che concludersi che la ragione della voluta omissione informativa qui in esame non può di certo ricondursi alla giustificazione addotta da Mori, perché di certo né quest’ultimo né altri avrebbero potuto diffidare del Dott. Borsellino, mentre ogni altra eventuale esigenza di riservatezza era già venuta meno con la informazione data alla Ferraro nonostante questa non
ricoprisse alcun ruolo che la giustificasse.
Se così è, ben altra deve essere stata la ragione dell’omessa informativa, non soltanto, in generale, all’autorità giudiziaria, ma persino alla persona del Dott. Borsellino.
E tale ragione, quindi, logicamente ed ineludibilmente non può che individuarsi nell’intendimento sottostante a quell’iniziativa di contattare Vito Ciancimino, che, come si ricava dalle risultanze già prima esaminate nei paragrafi precedenti, non era quello di instaurare un semplice rapporto confidenziale per carpire qualche notizia e che certamente ben avrebbe potuto essere comunicata, non soltanto, ovviamente, al Dott. Borsellino, ma anche a qualsiasi Ufficio Giudiziario per l’ordinarietà di quell’attività tutt’al più tacendo il nome del “confidente-informatore” (ma è significativo che tale esigenza di riservatezza non abbia animato sicuramente gli imputati se è vero che essi fecero il nome di Vito Ciancimino a più soggetti quali la Ferraro, la Contri e Violante), ma,
semmai, quella reale di instaurare, attraverso Vito Ciancimino, un dialogo con i vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.
Appare assolutamente evidente ed incontestabile, infatti, che un simile intendimento non avrebbe potuto essere rappresentato a magistrati di qualsiasi Ufficio giudiziario e, certamente, giammai, comunque, al Dott. Borsellino, che, insieme al Dott. Falcone, invertendo la linea che aveva caratterizzato sino al finire degli anni settanta il rapporto delle Istituzioni con l’associazione mafiosa, aveva sempre voluto, perseguito e mantenuto piuttosto una linea di assoluta intransigenza nell’azione di contrasto al fenomeno mafioso del tutto incompatibile con un’ipotesi di dialogo con i vertici mafiosi, quand’anche questo fosse stato finalizzato alla cessazione delle stragi, perché ciò, soprattutto dopo la positiva conclusione della lunga vicenda del “maxi processo”, avrebbe inevitabilmente rilegittimato e, conseguentemente, perpetuato il potere di “cosa nostra”.

 

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Nello stesso solco si colloca, altresì, l’omissione di Subranni, Mori e De Donno in ordine alla documentazione, anche soltanto per uso interno del R.O.S., dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino e delle attività, in conseguenza di questi, poste in essere dai Militari.
Ed invero, a seguito di ordine di esibizione dei P.M. di Palermo e Caltanissetta, notificato il 16 novembre 2009 al Comandante del R.O.S., diretto ad acquisire “relazioni di servizio, annotazioni, appunti riservati o documentazione comunque afferente rapporti di qualsivoglia genere eventualmente intrattenuti da appartenenti al ROS” con alcuni soggetti, tra i quali Ciancimino Vito
Calogero e Ciancimino Massimo, oltre che la documentazione a qualsiasi titolo relativa a questi ultimi, sono stati consegnati dal R.O.S., in data 19 novembre 2009, i fascicoli relativi a Vito Ciancimino ed alle stragi di Capaci e via D’Amelio esistenti presso quel Raggruppamento.
Tra i documenti allora acquisiti (prodotti in copia dal P.M. all’udienza del 22 settembre 2017), v’è ne soltanto uno attinente ai fatti in esame, quello costituito dalla copia, senza intestazione e senza firma, del memoriale consegnato da Mori alla Procura di Firenze l’ l agosto 1997 ed alla Procura di Caltanissetta il 23 settembre 1997 (per il contenuto v. sopra).
Dunque, fino al 1997, né Mori, né De Donno hanno mai redatto alcuna relazione di servizio sui contatti con Vito Ciancimino e sulle informazioni ottenute (sul punto, si veda anche la testimonianza resa all’udienza del 31 marzo 2017 dal Gen. Giampiero Ganzer, già in servizio al R.O.S. dal febbraio 1993, vice comandante del detto Reparto dal mese di luglio 1997 e, infine, Comandante del R.O.S. dal 26 gennaio 2002 al 6 luglio 2012 […]”), né, d’altra parte, Subranni, allora comandante del R.O.S. e, quindi, superiore dei predetti, sia se informato sin dall’inizio, sia se
informato soltanto nel mese di agosto come sostenuto da Mori, ha mai sollecitato ai suoi sottoposti la redazione di apposite relazioni di servizio in ogni caso utili, per qualsiasi eventualità, a trasmettere le conoscenze acquisite da uomini del suo Raggruppamento anche ad altri investigatori se la finalità di quei contatti fosse stata effettivamente, come asserito dagli imputati, di tipo
esclusivamente investigativo.
Nessun Corpo investigativo d’elite, qual era ed è il R.O.S., può consentire che le conoscenze acquisite da un suo investigatore, soprattutto se, come nel caso in esame, sin dall’inizio ritenute di estrema importanza tanto da dame informale notizia al più alto livello politico (v. sopra), rimangano racchiuse esclusivamente nella mente e nella memoria dello stesso.
Persino lo stesso Gen. Giampiero Ganzer, teste della difesa sentito all’udienza del 31 marzo 2017, smentendo la contraria tesi della difesa dell’imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all’udienza dei 5 aprile 2018 a proposito di asserite e presunte ragioni di sicurezza) ha dichiarato che, per norma e prassi interna al R.O.S., dovevano essere annotati gli incontri e I rapporti con i confidenti […].
Eppure è ciò che è avvenuto nella fattispecie, laddove non v’è alcuna traccia all’interno del R.O.S. dei contatti intrapresi da due dei suoi più importanti investigatori con un personaggio altrettanto importante (ovviamente sotto un diverso profilo, quello criminale) qual era Vito Ciancimino, né della disponibilità da quest’ultimo manifestata, né, ancora, di quel cenno dello stesso Ciancimino ai contatti avuti, quanto meno, con un intermediario dei vertici mafiosi, né, infine, più in generale, di tutte le notizie, comunque, raccolte durante i colloqui con Vito Ciancimino e sulle modalità ed i tempi di tali colloqui.
Di tutta questa attività nulla si sarebbe saputo se Vito Ciancimino, dopo l’arresto, non avesse deciso, sia pure con molte reticenze ed in termini alquanto generici, di informare i magistrati che si erano recati ad interrogarlo.
Può trovare giustificazione una simile omissione se Vito Ciancimino fosse stato un semplice confidente-informatore? Certamente no, perché persino i Servizi di Sicurezza lasciano traccia scritta dei contatti con le proprie fonti ancorché senza rivelarne l’identità (v. deposizione del teste Giraudo di cui si dirà esaminando in conclusione la posizione individuale dell’imputato Mori), né è utile richiamare, come ha fatto la difesa dell’imputato De Donno (v. trascrizione della discussione
all’udienza del 5 aprile 2018) gli esempi dei rapporti confidenziali Riccio-Ilardo e Ravidà-Sturiale, dal momento che in entrambi i casi, in realtà, tali rapporti vennero documentati (per il primo, a prescindere dalle dichiarazioni di Riccio sull’invito proprio di Mori ad omettere le relazioni di servizio e dalle relazioni di servizio che, comunque, poi, furono riportate all’interno del rapporto “Grande Oriente” sottoscritto, non da Riccio, ma dal Col. Mauro Obinu, v’è quanto meno l’informativa ad uso interno del R.O.S. dell’ Il marzo 1996 come meglio si vedrà in seguito esaminando la relativa vicenda nel successivo Capitolo 35; per il secondo, risulta che Ravidà relazionava regolarmente, ovviamente, ciò che Sturiale gli riferiva e non viceversa, come si ricava anche dalla testimonianza di Nicolò Marino, di cui pure si dirà meglio più avanti).
V’è, poi, il caso eclatante dei contatti con Bellini, che pure sarà meglio e più approfonditamente esaminato più avanti, nel quale soltanto Mori ebbe ad omettere di lasciare traccia di tali contatti, mentre il suo omologo della D.LA. Dott. Messina, pure contattato da Bellini con modalità sostanzialmente analoghe, ebbe a redigere apposita relazione di servizio per lasciare traccia dell’accadimento (v. deposizione Messina che sarà riportata nel successivo Capitolo Il, paragrafo Il .10).
Ed allora, se così è, quella totale omissione, da parte di Mori e De Donno con l’avallo del Comandante Subranni, trova adeguata giustificazione soltanto se i contatti dei predetti col Ciancimino furono diretti ad instaurare, attraverso quest’ultimo, un dialogo con i vertici di “cosa nostra”, trattandosi, in questo caso, di un’attività evidentemente non esternabile, ed, infatti, ancora negata con decisione dagli imputati per gli effetti controproducenti, che, come si vedrà nel
prosieguo, essa ha, poi, determinato.
Altrettanto eclatante e tale da contraddire la tesi difensiva degli imputati sulla finalità meramente investigativa dei contatti con Ciancimino appare, infine, l’omissione di qualsiasi attività investigativa da parte di coloro che, via Via, appresero degli sviluppi di quei contatti sul versante di “cosa nostra”.
Qui, a prescindere dai tempi di acquisizione della notizia (se sin dall’inizio dei contatti ovvero, come sostenuto da Mori, soltanto dal mese di ottobre 1992), rileva la circostanza, ammessa dagli stessi imputati, che ad un certo momento essi ebbero la certezza che Vito Ciancimino aveva effettivamente interloquito, attraverso un intermediario dallo stesso non indicato (lo avrebbe poi fatto soltanto successivamente in alcuni scritti ed in occasione degli interrogatori dopo l’arresto), con i vertici di “cosa nostra” […].
Eppure, nonostante tale certezza, nulla Subranni, Mori o De Donno fecero per tentare di sfruttare investigativamente quella notizia acquisita da Cianci mino: non fecero alcun accertamento sui pregressi eventuali spostamenti di quest’ultimo per verificare in quale momento e con quali modalità lo stesso avesse potuto instaurare quel contatto; non predisposero e non attuarono alcun
successivo monitoraggio degli ulteriori contatti di Vito Ciancimino e dei movimenti dei familiari che in quel momento convivevano con lui; non richiesero alcuna attività di intercettazione e ascolto delle utenze in uso a Vito Ciancimino ed ai suoi familiari oltre che ambientale nei luoghi ove i predetti dimoravano; non disposero alcuna perquisizione (ovviamente, per non allarmare il Ciancimino, facendola eseguire ad altro reparto territoriale dei Carabinieri o altra forza di polizia e con motivazioni di comodo) per ricercare eventuali scritti in possesso di Vito Ciancimino relativi a quel contatto con l’intermediario dei vertici mafiosi.
Potevano esperti investigatori, qual erano i predetti imputati, ritenere che tali attività investigative non fossero di alcuna utilità, anzi, assolutamente ineludibili per l’acquisizione di spunti investigativi di estrema importanza per qualsiasi indagine sull’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e per l’individuazione anche di soggetti ad essa appartenenti e, in ultimo, anche per la stessa individuazione e cattura dei soggetti di vertice latitanti che essi, dichiaratamente, intendevano arrestare? Certamente no, e di ciò si rende conto lo stesso Mori, il quale, pur dopo avere respinto le critiche in più occasioni ricevute per i suoi metodi operativi (v. ancora le citate dichiarazioni spontanee: “in questa e in altre vicenda, a seconda di quali sono gli specifici interessi di chi le tratta, io e De Donno veniamo considerati alternativamente o dei fuori classe dell’investigazione, ovvero dei minus habens che procedevano nelle indagini senza la parvenza del discernimento”), già in occasione della sua prima deposizione a Firenze ebbe a preoccuparsi di giustificare l’inerzia investigativa che accompagnò i primi contatti con Ciancimino con la ristrettezza dei tempi […].
Perché, ovviamente, non sfuggiva al Mori che una parallela attività di investigazione finalizzata al monitoraggio delle reazioni di Vito Ciancimino sarebbe stata giudicata da qualsiasi investigatore indispensabile già nel momento in cui il medesimo Ciancimino, con i primi approcci da parte di De Donno, veniva “provocato” e, pertanto, il predetto ha tentato di giustificare la sua omissione con la ristrettezza dei tempi.
Sennonché è agevole rilevare che i primi approcci con Vito Ciancimino risalgono addirittura ai primi di giugno del 1992 e, comunque, – per stessa ammissione degli imputati – quanto meno al mese di luglio ancor prima della strage di via D’Amelio e sono stati poi seguiti da ulteriori incontri, anche personali con il Col. Mori, nel mese di agosto e poi ancora ad ottobre.
Eppure, dal mese di giugno o, quanto meno, luglio 1992 sino al 18 ottobre 1992, quando, secondo Mori, ebbero la certezza dei contatti avuti da Vito Ciancimino con i vertici dell’associazione mafiosa o almeno con un intermediario di questi, nulla fu fatto per monitorare le reazioni di Vito Ciancimino rispetto ai numerosi precedenti incontri, omettendo sia di effettuare quei pedinamenti di cui lo stesso Mori ha parlato […], sia, cosa certamente ancor più utile, qualsiasi attività di intercettazione ambientale e telefonica (quale quella, ad esempio, già svolta dal ROS nel mese di marzo 1992 ed inopinatamente interrotta nonostante da quelle intercettazioni fosse emersa l’esistenza, nella abitazione romana di Vito Ciancimino, di un’utenza riservata e diversa da quella già sottoposta ad intercettazione).
Ed allora, la giustificazione di Mori sulla ristrettezza dei tempi e sulla imprevedibilità della reazione di Ciancimino appare, anche in questo caso, risibile, non essendo plausibile che nel lasso di oltre quattro mesi o anche soltanto di oltre un mese (se si volesse restringere il periodo a quello compreso
tra l’incontro del 29 agosto e quello del 18 ottobre 1992) non ci sia stato il tempo di organizzare l’attività di monitoraggio dei movimenti e dei contatti del Ciancimino a fronte della estrema importanza che gli stessi Mori e De Donno attribuivano a quella indagine, tanto da averne dato già notizia specifica ai più alti livelli politici sin dai precedenti mesi di giugno (incontro con la Ferraro) e
luglio (incontro con la Contri).
Ma, in ogni caso, seppure si volesse prendere per buona la giustificazione addotta da Mori, non si comprenderebbe perché, dopo avere avuto la certezza (in data 18 ottobre 1992 secondo lo stesso Mori) che Ciancimino aveva effettivamente contattato un intermediario dei vertici mafiosi, ciò nonostante ancora nulla è stato fatto per monitorare il Ciancimino sino al 19 dicembre 1992 quando il predetto venne arrestato, e ciò neppure in prossimità di tale arresto quando, nei giorni immediatamente precedenti, il 17 dicembre 1992, Vito Ciancimino si recò a Palermo per contattare ancora l’intermediario […].
Né, in proposito, può valere la diversa giustificazione, invece, addotta da De Donno riguardo all’omissione qui in esame.
De Donno, infatti, anche lui evidentemente consapevole dell’anomalia della detta omissione investigativa, ha addotto a giustificazione il rischio di essere scoperti e di far venire meno, conseguentemente, il rapporto di fiducia con Vito Ciancimino […].
Sennonché, non soltanto tale giustificazione è smentita da quella diversa fornita da Mori prima ricordata, poiché quest’ultimo, che ovviamente ha avuto sin dall’inizio la direzione delle operazioni a fronte del ruolo meramente esecutivo del De Donno, ha dichiarato che aveva in animo di far effettuare il pedinamento di Ciancimino (v. dichiarazioni Mori: ” .. Ma io ero anche orientato
eventualmente, se lui, come ritenevo, avesse portato a lungo la trattativa, di fare dei servizi di pedinamento su Ciancimino .. “) e che ciò non fu fatto, non già per il rischio di essere scoperti che, dunque, egli riteneva superabile, ma soltanto per mancanza di tempo (v. ancora dichiarazioni Mori: “Questo, poi, non è avvenuto perché ha bruciato i tempi, Ciancimino”); ma, in ogni caso, si tratta di una giustificazione che non appare credibile, essendo ben nota l’elevatissima professionalità del R.O.S. nell’effettuare indagini tecniche e di pedinamento nonostante le difficoltà degli obiettivi, mentre, d’altra parte, cosi come è accaduto per moltissime altre investigazioni del R.O.S. e di altre Forze impegnate contro la criminalità organizzata, il rischio di essere scoperti non può costituire una valida remora soprattutto a fronte dell’enorme importanza dei risultati investigativi che quell’attività di monitoraggio avrebbe potuto produrre (basti qui pensare alla conferma del ruolo di Vito Ciancimino, in quel momento ancora imputato in un processo in corso per il reato di associazione mafiosa, o ancora alla individuazione di soggetti facenti parte di tale associazione dal
predetto eventualmente contattati, sino alla individuazione, in ipotesi, persino di taluno degli esponenti di vertice dell’associazione mafiosa in quel momento latitanti, quali Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, che, in virtù della comune provenienza da Corleone, certamente Ciancimino aveva avuto modo di conoscere).
Ed allora, l’omissione delle investigazioni conforta ulteriormente e definitivamente la conclusione che in quel momento l’intendimento di Subranni, Mori e De Donno non fosse quello minimale della raccolta di informazioni dal “confidente” Vito Ciancimino, ma, come più volte rilevato, anche in questo caso, soltanto quello di instaurare un dialogo con i vertici dell’associazione mafiosa (v. parole testuali di Mario Mori nella testimonianza resa a Firenze: “Ma non si può parlare con questa gente?”).
Mentre, infatti, nel primo caso, le investigazioni avrebbero costituito il conseguente corollario della provocazione lanciata al Ciancimino per sfruttarne la reazione ed ottenere i possibili risultati investigativi prima ipotizzati, nel secondo caso l’omissione delle investigazioni, nella consapevolezza che anche l’individuazione di tal uno degli esponenti mafiosi, anche se eventualmente di vertice, non avrebbe di certo posto termine alla strategia mafiosa stragista in corso, era, invece, strumentale alla instaurazione di quel dialogo tra parti contrapposte necessario per far cessare il “muro contro muro”.
E per raggiungere tale obiettivo era necessario lasciare a Vito Ciancimino i più ampi margini di libera manovra.
Come si è visto, dunque, l’analisi delle condotte, sia quelle attive, sia soprattutto quelle omissive, poste in essere dagli imputati Subranni, Mori e De Donno conduce univocamente ad una sola e certa conclusione: al di là dei singoli apporti e delle ragioni che più avanti saranno esaminati, essi volevano instaurare una “trattativa” con Vito Ciancimino ed, attraverso questi, con i vertici di “cosa
nostra”.
Ed il termine “trattativa”, infatti, è stato correttamente ed appropriatamente usato sia da Mori che De Donno (oltre che, sin dali ‘inizio, dal loro interlocutore primario Vito Ciancimino) sino a quando, a seguito di altre acquisizioni conoscitive (soprattutto conseguenti alla collaborazione con la Giustizia di alcuni esponenti mafiosi), essi non hanno preso consapevolezza delle conseguenze nefaste di quell’improvvida iniziativa.
Essi intendevano, cioè, in quel momento, capire se vi fossero spazi di interlocuzione che potessero indurre i vertici mafiosi a recedere da quell’attacco e da quella contrapposizione frontale che era già culminata nella strage di Capaci e che tante preoccupazioni suscitava – oltre che in soggetti che per ruolo istituzionale erano stati sempre possibile bersaglio della vendetta mafiosa – ora anche in alcuni esponenti politici che temevano di dovere subire, per mano mafiosa, la stessa infausta sorte di Salvo Lima, tra i quali Calogero Mannino, che, come si è già visto sopra, si rivolse per tale ragione proprio al Gen. Subranni.
Ed intendevano conoscere – o almeno ciò prospettarono a Vito Ciancimino e, di conseguenza, ciò questi comunicò ai vertici mafiosi quand’anche non fosse stata quella la reale volontà di Subranni, Mori e De Donno, ma soltanto un “bluff’ per far venire allo scoperto i mafiosi responsabili della strage di Capaci prima e di via D’Amelio dopo – a quali condizioni “cosa nostra” avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione frontale “muro contro muro” (v. ancora parole testuali di Mario Mori a Firenze).
In sostanza, essi, quali, si ripete, che fossero le loro intenzioni, di fatto ed in modo testualmente inequivoco (“Ma non si può parlare con questa gente?”) sollecitarono espressamente a Vito Cianci mino un’interlocuzione con i vertici mafiosi per conoscere a quali condizioni si sarebbe potuto porre termine al “muro contro muro” tra lo Stato e “cosa nostra” e, quindi, inevitabilmente, nel
momento in cui tale sollecitazione fosse giunta ai vertici mafiosi, l’apertura, non si vede come potrebbe diversamente definirsi, di una “trattativa”.
Ma una importante conferma, anche in questo caso riconducibile alle stesse parole di Mario Mori (oltre che, come si vedrà, questa volta anche di Subranni) si ricava anche da una molto più recente acquisizione probatoria di questo dibattimento di cui si dirà nel Capitolo che segue.