Ecco cos’è la mafia “trasparente”

La fattispecie più controversa, oggetto di turbolenze in fase cautelare, è stata quella dell’associazione a delinquere (capo A), di cui sono accusati, oltre a ROMANO, D’AGATA, ORFANELLO, SANFILIPPO, ESPOSITO e GRACEFFA, per cui si procedere separatamente, gli odierni imputati MONTANTE, ARDIZZONE e DI SIMONE PERRICONE.
Inoltre, al capo B) della rubrica è contestato ad Andrea GRASSI (come ad Andrea CAVACECE, Renato SCHIFANI ed Angelo CUVA, giudicati anche loro in separato giudizio) il “concorso esterno” nel reato associativo, ipotesi sulla quale appare ridondante soffermarsi, atteso che, come già spiegato nella parte in fatto, non solo non sono emersi elementi di collegamento tra GRASSI e gli altri imputati, con la sola eccezione di CAVACECE, ma, per converso, sono affiorati elementi di segno contrario che impediscono ab imis fundamentis la configurabilità di qualsivoglia ipotesi associativa, interna o esterna, che leghi GRASSI ai soggetti accusati di comporre il sodalizio.
Limitando, dunque, ogni discettazione alla sola ipotesi di cui all’art. 416 c.p., è d’uopo illustrare i contorni della fattispecie, al fine di verificarne la sussumibilità della condotta degli odierni imputati.
Ciò posto, deve ricordarsi come, per giurisprudenza consolidata, costituiscono gli elementi strutturali del reato in questione la formazione e la permanenza di un vincolo associativo continuativo fra almeno tre persone, allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, con la predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte dell’illecito sodalizio e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma criminoso (v. per tutte Cass. Sez. I sent. n. 6693 del 1979, ric. Pino; Cass. Sez. I sent. n. 3402 del 1992, ric. Niccolai ed altri).
[…]
Tanto premesso sul perimetro applicativo dell’art. 416 c.p., occorre verificare se le condotte degli imputati, come accertate nella parte in fatto, si prestano ad essere inquadrate in tale fattispecie criminosa.
Abbiamo visto come MONTANTE avesse elaborato un progetto di occupazione egemonica dei posti di potere, ciò che, di per sé, non costituisce reato (così come non costituisce reato l’accumulazione della ricchezza in quanto tale).
Il progetto, certamente ambizioso, era stato condiviso da tutti coloro che traevano beneficio dalla progressiva attuazione di esso, compresi CICERO e VENTURI, i quali, del resto, non avevano alcun motivo per rifiutare le varie proposte di carriera, politica, amministrativa o industriale-associativa che via via, grazie alla innegabile abilità relazionale di MONTANTE, si presentavano.
Ed era un progetto condiviso anche da chi sapeva che MONTANTE era la chiave di accesso a ministeri, enti pubblici e imprese private per ottenere posti di lavoro, trasferimento o incarichi di prestigio: MONTANTE non gestiva potere, ma lo creava.
Fin qui nessuna censura è possibile muovere agli imputati, ai quali non può essere imposta la pratica dell’ascetismo solitario per liberarsi dai peccaminosi desideri di natura materiale, altrimenti cadendosi in un grave equivoco fondamentalistico, espressione di una trasfigurazione moralistica del diritto.
Tuttavia, se associarsi è una pratica legittima, che gode anche di copertura costituzionale, senza scadere nella illeicità in ragione della sola finalità egemonica nelle istituzioni politiche, associarsi per commettere reati, necessari per l’occupazione di posti di potere, integra il delitto di cui all’art. 416 c.p.
Orbene, nel caso che ci occupa, gli imputati hanno commesso, in forma concorsuale, diversi delitti: gli accessi abusivi ai sistemi informatici della polizia, le rivelazioni dei segreti d’ufficio, le corruzioni, la simulazione di reato.
Avuto riguardo, per esempio, agli accessi abusivi al sistema informatico, essi risultano commessi almeno dal 2011 fino al 2016, sempre dai medesimi protagonisti (MONTANTE, DI SIMONE e DE ANGELIS, limitando l’analisi dei fatti agli odierni imputati, ma anche da GRACEFFA, giudicato separatamente) e con identiche modalità: la richiesta originaria partiva da MONTANTE, raggiungeva DI SIMONE, che la girava a DE ANGELIS, il quale, per lo più, la girava ulteriormente a GRACEFFA, terminale ultimo della catena.
Le relative comunicazioni telefoniche, con cui veniva richiesta l’interrogazione della banca dati e restituito l’esito, avvenivano o mediante l’uso di chiamate cellulari, con linguaggio criptico, oppure, ove possibile, mediante le più sicure utenze fisse dei rispettivi uffici, o ancora tramite whatsapp.
In sostanza, si era in presenza di una catena di montaggio, con ruoli prestabiliti, assolutamente collaudata e che ha funzionato per diversi anni, per l’esecuzione di un numero elevato di accessi abusivi (quelli singolarmente attenzionati dagli inquirenti, infatti, sono il frutto di un’analisi a campione dei reperti documentali rinvenuti nella c.d “stanza segreta” di MONTANTE).
Circoscrivendo la discettazione agli odierni imputati, ciascuno era consapevole del ruolo altrui: DI SIMONE, infatti, era il braccio destro di MONTANTE e, in qualche occasione, aveva organizzato anche l’incontro diretto tra DE ANGELIS e MONTANTE (uno di tali incontri, si ricorderà, era stato persino registrato da quest’ultimo).
DE ANGELIS, peraltro, ha ammesso espressamente di conoscere la provenienza da MONTANTE di ciascuna richiesta di interrogazione, negando tuttavia di sapere le reali finalità di dossieraggio. DI SIMONE, infatti, a dire di DE ANGELIS, era solito giustificare le richieste di accesso alle banche dati con l’esigenza di “bonificare” il campo relazionale di MONTANTE da possibili incontri con soggetti controindicati, ciò che, però, è clamorosamente smentito dalla interrogazione sui movimenti carcerari e sui permessi premio di uno degli accusatori di MONTANTE, ossia il collaboratore Dario DI FRANCESCO.
Pertanto, occorre ritenere che DE ANGELIS fosse perfettamente consapevole di appartenere ad un ingranaggio plurisoggettivo, con perfetto riparto dei ruoli operativi, collaudato e stabile nel tempo (almeno dal 2011 al 2016).
Del resto, i vantaggi che egli ne ricavò, dalla nomina della moglie quale segretaria di CICERO, con benefici retributivi, nell’anno 2013, alla promessa di trasferimento che egli accettò nell’anno 2016, costituivano la remunerazione della sua indefessa disponibilità ad assecondare le esigenze dei gruppo dei quale era entrato a far parte.
In sostanza, ciascuno degli anelli della catena di trasmissione – MONTANTE, DI SIMONE, DE ANGELIS – era perfettamente consapevole di partecipare ad un’alleanza stabile, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di accessi abusivi ai sistema informatico, e perseguiva l’obiettivo di assicurare la longevità operativa del sodalizio, in quanto ciò appariva funzionale al mantenimento di un sistema di potere da cui tutti i federati traevano vantaggio.
Peraltro, alla luce di quanto ricostruito nella parte in fatto, ciascun accesso aveva una ragione storica ben precisa, generalmente riconducibile alla insorgenza di varie occasioni di conflitto tra MONTANTE e i soggetti bersaglio dell’accesso abusivo (MARINO, ARMAO, CASAGNI, BOLZONI, PETROTTO, etc), responsabili di ostacolarne le mire espansionistiche (es. l’avv. CUSUMANO, presidente reggente deli’AST s.p.a., che si era opposto alla fusione per incorporazione di tale società a vantaggio dei socio privato Jonica TRASPORTI, cui era interessato MONTANTE) o di criticarne l’operato (come il giornalista CASAGNI), con la conseguenza che non può ritenersi che tutte le interrogazioni allo S.D.I. fossero nate da una matrice ideativa comune
ed estemporanea, destinata a dissolversi ai termine dell’esecuzione.
E’ evidente, ex adverso, come MONTANTE, DI SIMONE e DE ANGELIS fossero legati da un foedus, da cui nasceva una organizzazione stabile, destinata ad operare per un lungo lasso di tempo, il cui oggetto sociale consisteva nella commissione di un numero indeterminato di accessi abusivi ai sistema informatico.
E’ altrettanto evidente come MONTANTE fosse legato da analogo rapporto associativo, oltre che con Massimo ROMANO, anche con il Coi. ARDIZZONE, il Magg. ORFANELLO e il Lgt. SANFILIPPO, responsabili, a vario titolo, di avere orientato l’attività istituzionale – tra verifiche fiscali ed indagini penali – verso il soddisfacimento dell’interesse personale di MONTANTE, ricavandone apprezzabili e significative utilità (posti di lavoro e trasferimenti).
E’ innegabile, infatti, come la deviazione dell’attività istituzionale della Guardia di Finanza fosse di carattere sistematico, riguardando tutte le ipotesi in cui ad entrare in gioco fosse l’interesse di MONTANTE, interesse che poteva variamente atteggiarsi come esigenza di salvaguardia ed esonero da responsabili fiscali o penali o finalità persecutoria nei confronti di terzi.
Peraltro, la sistematicità della condotta illecita – una lunga serie di abusi d’ufficio assorbiti nella corruzione per asservimento della funzione mediante atti contrari ai doveri d’ufficio – costituisce soltanto uno degli elementi da cui inferire l’esistenza di uno stabile rapporto solidaristico tra MONTANTE, ROMANO, ARDIZZONE, ORFANELLO e SANFILIPPO.
Infatti, non può trascurarsi l’ulteriore dato per cui le diverse indagini penali e verifiche fiscali avevano sovente scaturigini autonome.
Infatti, accanto alle indagini penali, come quella scaturita dal fallimento delle società di POLIZZI, si possono annoverare svariate verifiche fiscali, tra le quali quelle che venivano artatamente inserite nella programmazione annuale, per esempio per finalità di “condono tombale”, come aveva spiegato MONTANTE a VENTURI, quelle straordinarie, dettate da esigenze contingenti e non prevedibili (es. punire il Dott. BUONO, che, quale consulente del P.M., aveva osato ipotizzare il coinvolgimento di un’impresa di MONTANTE, oltre che di VENTURI, in attività di emissione di fatture per operazioni inesistenti nei rapporti con le imprese di POLIZZI), e ancora quelle stimoiate da omologhi uffici della Guardia di Finanza di altri territori, nell’ambito di indagini penali (ad es., il controllo incrociato richiesto dalla Guardia di Finanza di Biella nei confronti della M.S.A. s.p.a. in relazione ad un acquisto di beni effettuato dalla società GRANDI MARCHE, oppure la verifica fiscale alla C.D.S. s.p.a. di ROMANO, che scaturiva da una segnalazione da parte del comando provinciale della Guardia di Finanza di Milano per possibili “frodi carosello”).
Proprio la eterogeneità delle attività istituzionali manipolate, sul piano della loro natura (indagini penali o verifiche fiscali), delle rispettive scaturigini, dei tempo dei loro compimento e delle finalità perseguite, dimostra che non è configurabile, già sotto il profilo logico, l’esistenza di un accordo singolo, volto a comprendere la commissione concorsuale dei diversi fatti illeciti, deponendo, piuttosto, per l’esistenza di un unico programma criminoso volto alla commissione di un numero indeterminato di illeciti penali, che giungevano a maturazione man mano che se ne presentava l’occasione.
Inoltre, vi sono degli elementi che avvalorano la tesi dell’esistenza di una struttura organizzativa stabile tra gli imputati:
1) il sodalizio si reggeva sull’assolvimento di compiti specifici da parte degli imputati: il Magg. ORFANELLO pianificava le verifiche fiscali e ne dirigeva l’esecuzione, sovrintendendo, altresì, all’esecuzione delle deleghe di indagine che interessavano MONTANTE o i soggetti gravitanti nei suo sistema (ossia, i soggetti che, anche estranei ai sodalizio, erano comunque legati all’imprenditore di Serradifalco); il Lgt. SANFILIPPO era l’organo esecutore; il Col. ARDIZZONE
avallava l’operato di ORFANELLO, per gli atti di sua competenza;
2) i soggetti istituzionalmente deputati all’assolvimento di compiti afferenti allo svolgimento delle verifiche fiscali (il Cap. COSTA, in virtù dei suo specifico collocamento nell’organigramma dei nucleo P.T., avrebbe dovuto esercitare la funzione di direttore di verifica) venivano sistematicamente esautorati dal Magg. ORFANELLO, con il beneplacito del Coi. ARDIZZONE, che non solo non impediva tale esautorazione, ma addirittura la corroborava (vd. l’episodio della iniziativa, abnorme ed ingiustificata, di ARDIZZONE volta a provocare il trasferimento del Cap.
COSTA);
3) le verifiche fiscali “sensibili” venivano eseguite da pattuglie composte ad hoc, in modo che a governare la procedura, a parte la direzione esercitata da ORFANELLO, fosse sempre SANFILIPPO, e ciò anche dopo il suo trasferimento ad una sezione diversa da quella competente, che, come si ricorderà, era la sezione Tutela Finanza Pubblica (assolutamente emblematico deve considerarsi il caso della verifica eseguita presso la C.D.S. s.p.a. di Massimo ROMANO, che fu quella più significativa in relazione alle dimensioni deli’impresa controllata, ove la pattuglia era stata composta soltanto da personale estraneo alla sezione competente, lasciato alla mercé delle decisioni del più navigato SANFILIPPO, il quale, per la sua pregressa appartenenza alla sezione preposta alle verifiche, aveva acquisito una vasta conoscenza della materia).
Pertanto, si è assistito alla costituzione di un gruppo stabile di finanzieri “dedicato”, formato in spregio delle competenze fissate da regolamenti interni e circolari, con il compito specifico di indirizzare l’attività istituzionale verso il perseguimento dell’interesse personale di MONTANTE e, in generale, del sodalizio, dalla cui persistente operatività tutti – ORFANELLO, ARDIZZONE, SANFILIPPO – traevano giovamento.
ROMANO solo apparentemente è estraneo a questo meccanismo.
Egli, infatti, oltre ad avere personalmente beneficiato di tale utilizzo privatistico e strumentale delle attività istituzionali della Guardia di Finanza (si veda, sopra, il caso della verifica alla C.D.S. s.p.a, che si atteggiò ad autentica pièce teatrale), era l’ordinario ufficio di collocamento di MONTANTE, laddove avevano trovato posto, in momenti diversi, la sorella (anno 2008) e il figlio di SANFILIPPO (2016; esattamente, presso uno studio commercialistico di un soggetto vicinissimo allo stesso ROMANO), la figlia di ARDIZZONE, la compagna di ORFANELLO e lo stesso ORFANELLO dopo la sua sospensione dal servizio (in questo caso, l’assunzione era avvenuta “in nero” presso la società, riconducibile a Natale SCRIMA, con la quale ROMANO aveva stretti rapporti contrattuali e nella quale, anche in altre occasioni, si era assicurato adeguato sfogo alle richieste inoltrate da MONTANTE), entrando, così, in rapporto sinallagmatico con la triade ARDIZZONE-ORFANELLO-SANFILIPPO.
La commissione, da parte di ROMANO, di più fatti corruttivi in concorso con gli altri imputati – ARDIZZONE e MONTANTE in un caso; ORFANELLO e MONTANTE in un altro; SANFILIPPO in un altro caso ancora – dimostra come lo stesso fosse legato da rapporti organizzativi stabili con gli stessi, rapporti rimasti intatti anche dopo la discovery dell’indagine su MONTANTE.
Giova ricordare, a titolo esemplificativo, il contenuto dell’incontro, appartato, avvenuto tra ROMANO ed ORFANELLO il 10 maggio 2015, quando, ormai verificatasi la discovery giornalistica dell’indagine sul conto di MONTANTE, ORFANELLO invitava esplicitamente ROMANO a chiamarlo e a non considerarlo “morto” perché egli aveva “ancora le orecchie […] buone” a Caltanissetta, facendo, poi, un esplicito riferimento “a Mario”, da intendersi SANFILIPPO, quale soggetto certamente e costantemente a sua disposizione, mentre ROMANO raccomandava ai suo interlocutore di tenere “le orecchie aperte” e di stare attento “ai telefoni”.
Inoltre, senza pretesa di esaustività, può rievocarsi il contenuto dell’intercettazione nella quale ORFANELLO, apprese di alcune dichiarazioni di ROMANO contro MONTANTE (che in verità appaiono uno sterile tentativo di simularne una improbabile presa di distanza) riportate dalla stampa, aveva considerato il predetto ROMANO un traditore, definizione che non si spiega in assenza di un rapporto di collegamento stabile tra MONTANTE, ORFANELLO e ROMANO (oltre che ARDIZZONE e SANFILIPPO, a tacere degli altri sodali, la cui identità poteva anche non essere
nota ad ORFANELLO) e di un comune pactum sceleris: […].
Con ciò non si intende affermare in questa sede la responsabilità penale di ROMANO, espropriando le prerogative giudicanti proprie dei tribunale collegiale innanzi al quale lo stesso è tratto a giudizio, ma offrire una ricognizione generale di tutti gli elementi che avallano la tesi accusatoria sull’esistenza dell’impresa societaria con finalità delittuose.
Da ultimo, deve respingersi il rilievo difensivo, teso a confutare la tesi della sussistenza della fattispecie associativa, basato sull’assenza di qualsiasi forma di conoscenza, contatto o relazione di alcuni imputati (ARDIZZONE) con altri (DE ANGELIS, DI SIMONE), in quanto, come già spiegato, la consapevolezza e la volontà di partecipare, assieme ad almeno altre due persone aventi la stessa consapevolezza e volontà, ad una società criminosa strutturata e finalizzata secondo lo schema legale, non presuppone la conoscenza reciproca di tutti gli associati né l’identità o omogeneità degli scopi perseguiti dai singoli sodali, che integrano soltanto i motivi dell’azione criminosa.
Peraltro, non può non esprimersi un giudizio assai severo sul particolare allarme sociale provocato dal sodalizio, e ciò in ragione della finalità delittuosa ad ampio spettro perseguita: eliminare il dissenso con il ricorso all’uso obliquo dei poteri accertativi e repressivi statuali; sabotare le indagini che riguardavano gli associati; praticare la raccolta abusiva di dati personali riservati; corrompere in maniera sistematica i pubblici ufficiali.
L’associazione, infatti, era un autentico potere occulto, estremamente pericoloso, non già parallelo a quello statuale o regionale, ma ad esso perpendicolare, in quanto intersecava le più diverse istituzioni, ai diversi livelli, finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle.

§ 6. L’aggravante della direzione, promozione ed organizzazione dell’associazione

Ad assumere il ruolo verticistico all’interno della descritta associazione, con compiti di direzione, promozione ed organizzazione, era, secondo l’accusa, Antonio Calogero MONTANTE. In effetti, è emerso dagli atti che lo stesso era l’associato che conosceva tutti i sodali, mentre è possibile che, tra alcuni di questi, non vi fosse una conoscenza reciproca.
MONTANTE era anche colui che ordinava gli accessi abusivi ai sistema informatico, che riusciva ad ottenere, mediante sistematiche azioni di corruzione, notizie segrete afferenti alle indagini o notizie riservate contenute nelle banche dati della polizia; che disponeva le bonifiche contro possibili microspie dei luoghi di propria pertinenza, anche associativi (Confindustria), ma era anche colui che utilizzava il potere conquistato all’interno degli enti pubblici e privati quale bacino ove
collocare i clientes e, dunque, quale moneta di pagamento rispetto ai favori illeciti che questi gli rendevano.
La sistemazione lavorativa o il trasferimento del pubblico ufficiale di turno, o di parenti o amici di questi, era la valuta spesa da MONTANTE per remunerare i sodali: una sorta di ripartizione degli utili prodotti da un’impresa che, con modalità illecite, creava e gestiva il potere.
Infine, MONTANTE era colui al quale va doverosamente riconosciuto il diritto d’autore sulla nascita dell’ “Antimafia confindustriale” quale forma di business utile a garantire un posto ai tavoli che contano.
Tanto può essere descritto mediante il discorso fatto da SACCIA nei corso di una conversazione telefonica (progr. 2679 delle ore 10.14 del 5 febbraio 2016) con ORFANELLO e con l’approvazione di quest’ultimo, che il sistema MONTANTE conosceva perfettamente per esserne un intraneo. Tale discorso, infatti, che ha la pregevolezza di una prolusione sul tema dell’antimafia di facciata, benché vada idealmente depurata dai commenti iicenziosi espressi nei riguardi dei singoli personaggi che in esso sono menzionati, nei complesso offre la riproduzione plastica del fenomeno trattato e, dunque, della causa societatis: […].

L’antimafia confindustriale, dunque, grazie alla complicità o la connivenza di soggetti appartenenti ad ambienti istituzionali diversi, era stata eretta quale laboratorio nel quale creare e distribuire posti di potere, in cambio del totale pronismo dei pubblici ufficiali, lesti ad agire con fermezza squadristica al servizio di MONTANTE, con complessivi esiti di adorazione messianica collettiva di
quest’ultimo.
La presunta attività di contrasto alla criminalità organizzata, tanto agitata dalla difesa di MONTANTE, si limitava all’azione di denuncia condotta da pochi elementi (tra i quali CICERO) che, con una sorta di involontario naif comportamentale e senza raffinati filtri critici, si immergeva in azioni di contrasto contro soggetti, alcuni dei quali, successivamente, si scoprirà essere stati oggetto di attenzione dossieristica da parte di MONTANTE.
A limitati fini esemplificativi e senza volere indulgere in inopportune crasi tra esposizione in fatto ed esposizioni in diritto, giova evidenziare come gli strali lanciati da CICERO nell’audizione in commissione parlamentare antimafia il 10 luglio 2014 (vd. resoconto consegnato da CICERO agli inquirenti in occasione delle sommarie informazioni testimoniali da lui rese il 17 settembre 2015) contro Umberto CORTESE e Salvatore IACUZZO, per la vicenda dell’assegnazione di lotti in
comodato d’uso a soggetti vicini alla mafia, aveva un retroscena, successivamente disvelato, costituito dal rapporto acriminioso intercorrente tra MONTANTE e questi ultimi, calati nel calderone degli accessi abusivi ai sistemi informatici della polizia (vd. anche le dichiarazioni di DI FRANCESCO sulla volontà di MQNTANTE di finanziare la sua collaborazione per attaccare IACUZZO).
La tesi, dunque, per cui MONTANTE, lungi dall’essere il vertice del sodalizio criminale, era il paladino dell’Antimafia, non regge affatto.
Può essere interessante, in tal senso, ripercorre, sia pure per stralci, il contenuto dell’audizione di MONTANTE in commissione antimafia in data 6 luglio 2005, anno dell’esordio della presunta “primavera degli industriali”, dalla quale emerge come l’odierno imputato si sforzasse di paventare scenari di estrema perigliosità cui sembravano esposti i protagonisti di tale rivoluzione legalitaria, senza tuttavia riuscire ad indicare precise matrici del presunto pericolo corso (cfr. resoconto allegato dalla difesa in sede di riesame contro il provvedimento di sequestro del 22 gennaio 2016):

“MONTANTE: […] L’Associazione (degli industriali, n.d.r.) […] ha anche sposato, premiato e
incoraggia tutte le associazioni antiracket che possono sorgere […]. L’Associazione in questo momento si sente molto sovraesposta […]. Mi auguro che questa concertazione non venga bloccata da istituzioni 0 da potere, che non riusciamo ad individuare perché non abbiamo né l’esperienza né il ruolo per farlo. Quindi, pregherei la Commissione di farsi carico e di vigilare, ma vigilare bene, perché – questo lo dico in maniera… – ci sentiamo troppo sovraesposti.
[…]
MONTANTE: Noi non siamo gli specialisti dell’antimafia o delle organizzazioni criminali. Non sappiamo dove inizia e finisce la mafia, sappiamo solo che chi uccide è mafioso. Ci rendiamo conto che c’è una cappa che ci schiaccia, ma non sta a noi individuare qual è la cappa che ci schiaccia. Ci sentiamo molte volte braccati: lei mi chiede da che cosa, non lo so. Ho un’azienda al Nord […]; ebbene, quando esco dallo Stretto mi sento più libero, non so perché. Non abbiamo pressioni dirette, subiamo azioni trasversali. […]”

Alla fine MONTANTE, dopo varie peregrinazioni argomentative, riferiva di un presunto episodio intimidatorie (rinvenimento di un proiettile innanzi all’abitazione), di cui, come si è visto, nessuno dei collaboratori di giustizia ha saputo riferire e che, comunque, non pare potersi configurare come un’azione “trasversale,” tale da lasciare presagire l’opposizione di “istituzioni” e “poteri”, non meglio precisati, alla rivoluzione legalitaria.
MONTANTE, dunque, parlava di “cappa”, di “azioni trasversali”, di possibili ostruzionismi da parte di “istituzioni” e “poteri” deviati, senza alcun dato oggettivo a suffragio delle sue elucubrazioni, nonostante le ripetute sollecitazioni, da parte dei componenti della commissione, ad inverare il suo discorso con elementi concreti tali da emanciparlo dalla libera esposizione di semplici impressioni.
Orbene, le invocazioni di aiuto di MONTANTE contro vaghi spettri, ora collocati all’interno delle istituzioni, non altrimenti identificate, ora dentro presunte organizzazioni criminali, presentano spiccati profili di affinità tematico-stilistica rispetto al teatro dell’assurdo, ove i personaggi beckettiani attendono Godot senza sapere chi sia Godot e perché lo attendono. E quando la scena si chiude, Godot non è ancora arrivato.
MONTANTE è il demiurgo non già del linguaggio dell’antimafia, ma dell’antimafia del linguaggio, che non oltrepassa la soglia delle parole, dei convegni, della vulgata mediatica, dei protocolli e delle iniziative dallo scarso risultato pratico, nonostante il capo centro DIA di Caltanissetta, SCILLIA, che tanti favori aveva richiesto a MONTANTE (ciò che è stato ampiamente e documentalmente dimostrato), avesse ritenuto, nell’ottobre del 2013, di vantare i meriti di quest’ultimo nella lotta alla
criminalità organizzata in importanti sedi istituzionali.
In realtà, ripercorrendo idealmente le intercettazioni testualmente riprodotte nella parte in fatto, si evince chiaramente come MONTANTE, autoinsignitosi paladino dell’antimafia, avesse esteso tale etichetta ai suoi amici e sodali, dichiarando mafiosi i suoi avversari, in difetto di qualsivoglia prova di mafiosità.
Si è assistito, dunque, ad un golpe linguistico, con sovvertimento del significato convenzionale delle parole, nel quale “mafia” ed “antimafia” non indicavano più, rispettivamente, un’associazione rispondente al requisiti di cui all’art. 416-bis c.p. E l’insieme delle iniziative, più o meno strutturate, di reale contrasto alla predetta associazione, ma “mafia” era diventato il luogo nominale nel quale confinare tutti gli eretici alla religione di MONTANTE, volta alla costruzione di un sistema di potere formalmente corale ma sostanzialmente egocratico (Marco VENTURI, Alfonso CICERO, ma anche M. Grazia BRANDARA, Mariella LO BELLO, Linda VANCHERI appaiono poco più che pallidi ritratti del potere nella galleria dell’antimafia allestita dall’imprenditore di Serradifalco), mentre “antimafia” era diventato il santuario degli osservanti morigerati del pensiero di MQNTANTE, che utilizzavano le audizioni in commissione antimafia, i convegni sulla legalità e la sottoscrizione di codici etici quali pratiche liturgiche, dirette ad assicurare, più che l’ascesi, l’ascesa sociale e l’occupazione di posti di potere.
Ovviamente, non è intendimento di questo giudice compiere un’operazione, a sfondo etico, di demistificazione dell’oleografico moralismo di MONTANTE o evidenziare l’abuso della credulità collettiva confezionato, con strumenti apocrifi e decipienti, dallo stesso, quanto confutare la tesi difensiva di un abbaglio giudiziario che, sanzionando MONTANTE e i suoi sodali, agevoli inconsapevolemente le associazioni criminali da quest’ultimo oppugnate in battaglie senza quartiere.
Invero, i fatti, come contestati, sono stati puntualmente dimostrati sulla base di dati oggettivi, che rendono davvero impervia un’ipotesi esegetica alternativa.

[…] In secondo luogo, deve riconoscersi l’esistenza di un comune disegno criminoso che avvince tutti i reati contestati: edificare un sistema di potere inespugnabile mediante il ricorso sistematico a pratiche corruttive e di spionaggio illecito.
Sul piano dosimetrico, in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p., si è ritenuto, innanzitutto, di dovere differenziare la posizione di MONTANTE, autentica mano invisibile di memoria smithiana che manovrava le istituzioni deviate, da quella degli altri imputati.
MONTANTE, infatti, è stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere, che, sotto le insegne di un’antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di “dossieraggio”, molte delle istituzioni pubbliche, sia regionali che nazionali, dando vita ad un fenomeno che può definirsi plasticamente non già quale mafia bianca, ma mafia trasparente, apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e, perciò, in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle comuni misure anticorpali.

 

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