Quella strana «manomissione» del Sisde in via D’Amelio per depistare le indagini sulla strage

PAOLO BORSELLINO, I GIORNI DEL TRADIMENTO

Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me. (P. Borsellino)

Borsellino aveva fretta, sentiva di fare una corsa contro il tempo. Lo disse ad Antonio Ingroia, lo disse al collega Renato Guarnotta, lo confessò a sua moglie Agnese.

Borsellino in pericolo, il Sisde sapeva

A comunicare l’informazione agli uffici romani con una nota (protocollo 1495/z. 3068) è il centro Sisde di Palermo, ma  il responsabile dell’ufficio non ha mai  ricordato neppure se la notizia venne trasmessa all’autorità giudiziaria. Di certo, nessuno da quel momento muove un dito per rafforzare le misure di protezione attorno al procuratore aggiunto di Palermo e difatti, meno di due mesi dopo, Borsellino viene massacrato in via D’Amelio con un’autobomba che una semplice “zona rimozione” avrebbe reso inoffensiva.

I pm nisseni si sono chiesti come mai, già a quella data, gli 007 conoscessero quegli elementi, ufficialmente emersi nei mesi successivi; a nulla sono valsi gli interrogatori all’autore della nota, il generale Andrea Ruggeri. Anche alla luce di una singolare coincidenza: il questore Arnaldo La Barbera, regista delle prime investigazioni sulle stragi e promotore della pista Scarantino, era (dall’87 all’89) una fonte del Sisde con il nome in codice “Rutilius”. Pochi mesi dopo, il 19 ottobre del’92, il centro Sisde di Palermo informa Roma e la questura di Caltanissetta delle parentele mafiose “importanti” di Scarantino. Un’altra nota farlocca per sostenere la pista di La Barbera e finita in una richiesta di revisione del processo Borsellino.

La Commissione Antimafia regionale della Sicilia ha  raccontato un’altra storia sulla morte di Paolo Borsellino. Depistaggi, Sisde e pezzi dello Stato. il ruolo di Bruno Contrada. Nella relazione spunta il nome di Giorgio Napolitano

I servizi segreti ebbero un ruolo nel depistaggio dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli uomini della scorta il 19 luglio 1992. Secondo la relazione presentata dalla Commissione antimafia regionale siciliana, presieduta da Claudio Fava, e di cui poco si parla, quello che finora era un sospetto diventa una certezza: «È certo il ruolo che il Sisde (l’allora servizio segreto civile, ndr) ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta».

Una relazione esplosiva

Istituita nel 1991, la Commissione antimafia siciliana è composta da 15 membri dell’Ars, l’assemblea regionale, e oggi è presieduta da Claudio Fava, figlio di Giuseppe, ucciso dalla mafia nel 1984. Nella relazione viene attaccata anche una parte della magistratura: «Certo è il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali».

Stragi e depistaggi, orchestrati nell’ombra da «menti raffinatissime» che «si affiancarono alla manovalanza di Cosa Nostra sia nell’organizzazione della strage, sia contribuendo al successivo depistaggio».
Conclusioni che non sono certo definitive come può esserlo una condanna in Cassazione, ma che mettono nero su bianco alcuni punti su cui si discute da anni, anche nelle aule giudiziarie.

Le «attenzioni» per Contrada

La Commissione esamina anche l’interesse dell’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano per l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada condannato definitivamente nel 2007 per concorso esterno in associazione mafiosa, condanna poi ritenuta «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» perché quando il fatto è stato commesso non era ancora reato.

Intorno a Natale 2007, l’allora presidente del tribunale di Sorveglianza di Napoli Angelica Di Giovanni doveva pronunciarsi sull’istanza di differimento pena che aveva presentato Contrada, al tempo in carcere. Secondo quanto la Di Giovanni racconta alla Commissione antimafia siciliana, il magistrato il 24 dicembre riceve una nota dall’allora consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio: «Angelica, ti scrivo su incarico del Presidente della Repubblica se puoi anticipare l’udienza».
Le richieste proseguono il 31 dicembre: la Di Giovanni – racconta – viene chiamata da Carlo Visconti, al tempo segretario del Csm, presieduto da Nicola Mancino e le dice «Angelica, tu hai Contrada». Lei risponde: «Vabbe’, questa storia sta diventando… già mi ha chiamato Loris». E Visconti: «Sì ma io ho sentito Loris, perciò ti sto chiamando».

I servizi nel Borsellino quater

Del ruolo degli 007 in via D’Amelio si parla anche nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, attraverso varie testimonianze. Il pentito Antonino Giuffrè spiega: «La forza della mafia derivava dai suoi rapporti, imperniati su interessi comuni, con ambienti della politica, dell’economia, delle professioni, della magistratura e dei servizi deviati». Il sovrintendente di Polizia Francesco Paolo Maggi, subito presente sul luogo della strage, racconta a processo: «Uscii da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa». Era «gente di Roma», dei servizi, «senza una goccia di sudore» nonostante il caos e la concitazione nel caldo di luglio. Maggi a quel punto si chiede: «Ma questi come hanno fatto a sapere già».
La testimonianza del sovrintendente viene confermata da quella del suo vice, Giuseppe Garofalo. E la sentenza conclude: «Già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai servizi segreti».

Contrada, tra l’Addaura e il «Corvo 2»

Giugno 1992, in mezzo tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, una lettera anonima di otto pagine arriva sulle scrivanie delle più alte cariche dello Stato, dei direttori dei maggiori tg e quotidiani e di alcuni procuratori, cioè di coloro che – secondo la stessa lettera – possono «svolgere un’azione positiva per scoprire finalmente tante tristi verità, per fare giustizia e per salvare infine questo paese dalla barbarie verso cui sprofonda ormai precipitosamente».

La lettera, successivamente chiamata «Corvo 2» (dopo il «Corvo» del 1989), racconta con dovizia di particolari e con uno stile quasi romanzato il clima all’interno della Dc in vista delle elezioni politiche del 5 aprile precedente e alcuni retroscena sulla strage di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta.
Il «Corvo 2» muove accuse pesantissime e mai dimostrate contro le più alte cariche dello Stato e contro i servizi segreti. Sull’anonimo, negli anni, si è indagato molto e si è arrivati ad attribuirlo a vari soggetti.

Uno degli accusati è proprio Bruno Contrada, arrestato la vigilia di Natale del 1992. Nella sua testimonianza nel processo contro l’ex numero tre del Sisde, il tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, uno dei più stretti collaboratori di Borsellino, racconta che – probabilmente nel gennaio 1992 – Falcone con «gli occhi di fuori» spiegava all’amico magistrato che il responsabile del fallito attentato dell’Addaura nel 1989 (al quale Falcone sopravvisse probabilmente per un malfunzionamento del detonatore) era proprio Contrada. Canale continua: «Vidi Borsellino bianco, Falcone agitatissimo che diceva che se fosse riuscito a diventare superprocuratore nazionale gli avrebbe messo i ferri (a Contrada, ndr)».

Nel luglio 1992, il tenente accompagna Borsellino, di ritorno dalla Germania, a Roma a colloquio con l’Alto commissario per la lotta alla mafia Angelo Finocchiaro per discutere del trattamento dei collaboratori di giustizia. Canale rimane fuori dalla porta ma riesce a sentire che i due parlano anche del «Corvo 2», che – sempre secondo la testimonianza di Canale al processo contro Contrada – era un anonimo arrivato al Sisde che il numero tre dei servizi avrebbe rielaborato e mandato a procure e giornali. La prima versione del testo sarebbe stata opera di un «avvocato fratello di sette avvocati». Alla luce di questo, confrontandosi poco dopo con Borsellino, Canale si ritiene convinto che si tratti di un vero e proprio depistaggio.
Diciamolo chiaramente, però, le due testimonianze di Canale non hanno avuto conseguenze penali.

Fonte: Reportenuovo