MORTI E NEONATI MALFORMATI A CAUSA DELL’ETERNO INQUINAMENTO PROVOCATO DALLE INDUSTRIE DEL PETROLCHIMICO DI AUGUSTA, PRIOLO E MELILLI…

”Cosa ci azzecca una super indagine che porta agli arresti dei vertici del petrolchimico di siracusa con ordinanze di CAMPISI ROBERTO E MUSCO…e LA SUCCESSIVA RETE DI STRETTI RAPPORTI DI AMICIZIA DEI DUE PROCURATORI CON L’AVVOCATO PIERO AMARA legale di ENI,CON VIAGGI IN COMUNE E ANCHE RELAZIONI D’AMORE CON LA SORELLA DELLA MOGLIE DI AMARA,E LA CESSIONE DELLA RAFFINERIA A GRUPPI STRANIERI.”

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Storia. la Procura di Siracusa e quell’operazione chiamata “Mare Rosso”

Inviato da: Redazione in Ambiente, Cronaca, In evidenza 19 aprile 2017

Una delle inchieste giudiziarie contro l’inquinamento selvaggio delle industrie più dirompenti in Italia è stata “Mare Rosso”; fu un impegno davvero notevole per gli inquirenti della Procura della Repubblica di Siracusa e gli investigatori della guardia di finanza. E tutto questo, come dirà a caldo nella conferenza stampa il procuratore capo di allora, Roberto Campisi: “…con grande disprezzo della vita umana nello smaltimento dei rifiuti con tanta arroganza e un’inaccettabile logica”.

Nel mese di gennaio dell’anno 2003 scattò un’operazione, definita una delle più clamorose di mezza Europa, nel triangolo industriale di Priolo, Augusta, Melilli, denominata “Mare Rosso”, portata a termine dalla Guardia di finanza al comando dell’allora il colonello Giovanni Monterosso, coordinata dal procuratore capo della Repubblica di Siracusa del tempo Roberto Campisi e condotta dal pm Maurizio Musco. Furono arrestate diciassette persone tra dirigenti e dipendenti dello stabilimento ex Enichem, ora Syndial, tra i quali il precedente e l’allora direttore, l’ex vicedirettore e i responsabili di numerosi settori aziendali, insieme a un funzionario della Provincia regionale di Siracusa preposto al controllo della gestione dei rifiuti speciali prodotti nell’area industriale.

Il principale capo d’imputazione contestato agli accusati dalla Procura della Repubblica di Siracusa è stato il delitto ambientale previsto dall’articolo 53 bis del Decreto Ronchi, oggi art. 260 del Codice ambientale, per aver costituito una “associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito d’ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio”. Secondo l’accusa il mercurio era scaricato nei tombini delle condotte di raccolta delle acque piovane e da lì finiva in mare. Un’altra via per liberarsi illegalmente dei rifiuti, secondo gli inquirenti, era quella della falsa classificazione e dei falsi certificati di analisi: in questo caso lo smaltimento avveniva in discariche autorizzate, ma non idonee a raccogliere quel genere di rifiuti. L’indagine è stata resa possibile grazie anche alle intercettazioni telefoniche e ambientali compiute anche nei locali all’interno del petrolchimico. Dopo il sequestro giudiziario e un lungo fermo l’impianto Cloro Soda ripartì con una sola delle tre linee per essere poi fermato definitivamente nel novembre 2005: troppo inquinante.

Nel frattempo era partito un altro filone d’indagini a carico della Montedison, proprietaria dell’impianto di Cloro Soda che, a leggere alcuni documenti segreti ritrovati all’interno degli archivi della stessa società, dal 1958 al 1980 avrebbe scaricato in mare oltre 500 tonnellate di mercurio. La scoperta bastò a far decadere buona parte delle accuse all’Enichem dell’indagine denominata “Mare Rosso”, in particolare l’associazione per delinquere, l’avvelenamento doloso del mare e del pesce, le lesioni personali per le malformazioni neonatali. Restava solo il traffico illecito dei rifiuti. Ma i vertici dell’Enichem sotto la pressione giudiziaria, nonostante fosse caduta l’accusa delle lesioni per le malformazioni, decise di corrispondere alle famiglie dei bambini malformati, e alle donne che avevano preferito abortire prima della nascita di un figlio destinato a nascere malformato, un rimborso variabile in base alla gravità della malformazione, tra i quindici mila e un milione di euro. Un caso unico, dove una società gravemente accusata, poi prosciolta, decide di risarcire le vittime di un inquinamento. Ma secondo qualcuno nelle tematiche legate al caso Enichem-mercurio si troverebbero i primi semi di alcuni fatti sfociati nel Palazzo di Giustizia di Siracusa e che portarono alla fine al filone “Veleni in Procura”.

La giustizia penale non fu la sola a occuparsi del triangolo petrolchimico Priolo, Melilli, Augusta. Già la legge 426/98, prima delle varie inchieste aveva dichiarato la rada di Augusta e il territorio del Petrolchimico siracusano “Sito d’interesse nazionale ai fini di bonifica” (SIN Priolo). Restava da capire, però, a chi spettava sborsare i costi necessari per bonificare il territorio e il mare di tutta quell’enorme quantità di veleni. Malformazioni a parte; infatti, l’inquinamento rimane e tutte le società del petrolchimico siracusano vi hanno contribuito in mezzo secolo d’industrializzazione selvaggia. Lo Stato voleva fargli pagare il conto salato, ma ha trovato un’opposizione dura e basata sul principio: poiché non è chiaro quanto ogni società ha inquinato, non si può stabilire in che modo spartire gli oneri della bonifica e buonanotte ai suonatori. L’allora Ministro per l’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, aveva trovato un’altra soluzione pur di fare le bonifiche. Siccome hanno inquinato tutti, paghino tutti i danni. Cioè una buona parte lo Stato e la rimanente somma le industrie, mettendo a disposizione nell’ottobre 2008, la somma 770 milioni di euro di denaro pubblico. La richiesta di pronunciamento della Corte di Giustizia europea, fatta dal Tar Sicilia in merito ai ricorsi di Erg Raffinerie Mediterranee, Eni/Polimeri Europa ed Eni/Syndial, analoghi a quelli fatti prima di Dow e Sasol, è precedente alla decisione del Ministero di far pagare la spesa sia alle industrie, sia ala collettività, quindi non fu presa in considerazione e ancora una volta buonanotte ai suonatori.

C’è da chiedersi se mai le bonifiche si faranno visto che c’è un nuovo problema. Chi tira fuori i soldi; quindi non è detto che si possano fare anche con i finanziamenti aperti da parte dell’Europa. Il dubbio sarebbe stato insinuato dalle stesse società che in origine avrebbero dovuto pagare per ripulire il fondale della Rada di Augusta. La risposta, con questi lustri di luna, è simile a quella scritta nelle cartelle dei condannati all’ergastolo alla voce fine pena: mai.

Il problema, dicono i giudici amministrativi, è che sul fondo c’è tanto di quel mercurio che se si prova a rimuoverlo, si rischia di rimetterlo in circolo e spargerlo ancora di più a causa delle correnti. Fu questa la motivazione tecnica giuridica dei magistrati del Tar chiamati in causa. La soluzione, secondo questa teoria, sarebbe più deleteria del male stesso. La cosa molto interessante, che si creda oppure no, l’ipotesi del rimescolamento, è che il Tar ci ha creduto davvero; nella sentenza 1254 del 20 luglio 2007 si legge che la tipologia e le modalità degli interventi come imposti dal Ministero, sarebbero affidate a tecniche non efficienti, non efficaci e/o comunque irrealizzabili e come tali anche pericolosi per l’ambiente e per la salute umana. Ma non è proprio così. Peccato che il progetto del Rigassificatore nell’ambito della rada di Augusta non sia andato in porto; sarebbe stato un modo per scoprire, durante il necessario dragaggio per realizzarlo, in quella parte della Rada di Augusta dove sono ancora depositati i veleni nei fondali marini di quello specchio di mare dall’apparenza pulita, dove giace invece una montagna di veleni che sarebbero venuti a galla, e far capire così a tutti la vera portata del danno che hanno provocato le industrie in più di mezzo secolo d’inquinamento selvaggio, di traccheggi politici e di giochetti giudiziari in danno alla vita umana, alla flora, alla fauna e all’Ambiente in generale.

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