Le indagini dell’esplosivo

23La valutazione della attendibilità del Brusca in ordine alla carica esplosiva, con particolare riguardo al quantitativo utilizzato in relazione alla capacità dei contenitori, ha richiesto una verifica dibattimentale in ordine alla possibilità di alloggiamento di una bombola di gas nel cofano anteriore di una Fiat 126.
Prima di passare alla specifica disamina delle risultanze processuali, appare opportuno preliminarmente riassumere sinteticamente le dichiarazioni rese dal Brusca sul punto.
Come già sopra esposto nella parte relativa alle dichiarazioni rese dal Brusca, il collaboratore ha riferito che la quantità di esplosivo fornita (“due mezzi sacchetti”) si aggirava intorno ai “cinquanta, sessanta chili, quaranta chili”, e di avere riempito una bombola di gas per usi domestici con un piccolo imbuto, svitandone il rubinetto.
Il quantitativo residuo era stato inserito, per dissimularne la reale natura, all’interno di due scatole di “aspor”, prodotto chimico che viene impiegato per irrorare il vigneto, ciascuna delle quali poteva contenere “venticinque chili o quindici chili di materiale”.
Il contenitore predisposto dal Di Maggio, costituito da una cassetta di ferro, “da trenta o quaranta centimetri, alta quindici-venti”, era stato successivamente riempito a Palermo, sicchè l’ordigno esplosivo, nel suo definitivo confezionamento, era risultato costituito dalla bombola e dalla scatola di ferro.
Per completezza espositiva va rilevato che a specifica domanda il Brusca ha dichiarato che la bombola era del tipo “da venticinque chili, la più grossa” (f.142, ud.3/3) e che nel corso del controesame gli è stato contestato che nel verbale in data 11/8/1996 aveva dichiarato che “l’esplosivo era per quantità tra i settanta ed i novanta chili”, senza far cenno della bombola come contenitore usato durante il trasferimento a bordo della Golf (cfr.f.31,ud.cit.).
Va tuttavia osservato che nel corso di altro verbale in data 24/10/1997 il Brusca spontaneamente aveva fatto menzione della bombola anche con riferimento alla fase del trasporto e che in dibattimento (f.33) il collaboratore ha fornito le seguenti giustificazioni in ordine all’iniziale omissione :
“ Signor Presidente, debbo chiarire alla Corte che non lo sa. Io inizialmente ho avuto una… una fase di collaborazione molto travagliata, sia per problemi interni sia per problemi di tensione. E onestamente non me lo ricordavo, avevo dei ricordi un pò… un pò offuscati. Man mano, con il tempo, sia per problemi miei sia man mano che mi andavo ricordando, avevo la… la coscienza di avvertire chi di competenza: “Guarda, ho sbagliato su questo, ma la situazione è così”. E man mano che andava affiorando io li andavo dicendo i fatti, Signor Presidente. Eh, se questa è una colpa, mi dispiace, ho sbagliato, però nel tempo io ho avuto la possibilità di chiarire e verificare i fatti”.
Tanto premesso, osserva la Corte che le incertezze mnemoniche del Brusca appaiono ampiamente giustificate sia dal lungo lasso di tempo trascorso dai fatti che dalla specificità dei dati oggetto della narrazione, non essendo agevole ricordare e indicare con precisione le dimensioni di un contenitore e la quantità di una sostanza, soprattutto quando, come nel caso di specie, l’incertezza rimanga comunque compresa tra misure di una certa consistenza ed il dubbio non investa grandezze diametralmente opposte e pertanto tale da rendere non plausibile il dubbio tra le alternative prospettate.
La fondatezza del superiore assunto risulta peraltro suffragata dal rilievo che un calcolo, sia pur approssimativo, della probabile capacità dei contenitori utilizzati per il confezionamento dell’ordigno rende del tutto verosimili i dati forniti e la compatibilità degli stessi con alcune emergenze processuali.
Le verifiche dibattimentali hanno consentito di accertare innanzitutto che l’unica bombola collocabile nel cofano anteriore di una 126 è quella da 10 kg. e più precisamente quelle ritratte nelle fotografie nn.1, 2, 3, 6,7, 9 e 10 allegate al verbale di udienza del 29/3/2000 e contraddistinta dalle sigle “A” ed “A1”.
Un rapido ed agevole calcolo consente di affermare che una bombola di quella dimensioni, pari a cm. 65 di altezza e cm. 25 di diametro (cfr. dep. teste Catalano, f.32, ud.29/3/2000) può contenere circa 32 Kg. di esplosivo costituito da quel tipo di miscela composta da pallini aventi le dimensioni sopra ricordate.
Una cassetta delle dimensioni di 10x10x30 ne può contenere circa 3 Kg., mentre una avente le dimensioni 20x20x40 ne può contenere all’incirca Kg.16.
Orbene, se si considera che il Brusca ha fatto riferimento ad una cassetta “da trenta o quaranta centimetri, alta quindici-venti” e che nel cofano di una Fiat 126, dopo avere collocato la bombola nel modo raffigurato nelle foto nn.9 e 10 in atti, residua una profondità di cm.20 ed un’altezza di cm.30, appare evidente che nello spazio citato può essere inserita una cassetta avente dimensioni molto prossime a quelle indicate dal collaboratore e, quindi, con una capacità di circa 16 kg.
Ne deriva che la quantità complessiva di sostanza esplodente utilizzata per l’attentato dovette essere di circa 48 Kg, quantità che non discosta di molto da quella che, con una certa plausibile approssimazione, il Brusca ha indicato in “cinquanta, sessanta chili, quaranta chili”.
L’assunto del Brusca ha inoltre trovato riscontro nelle risultanze degli
accertamenti tecnici eseguiti nel corso delle indagini preliminari.
È appena il caso di ricordare che le analisi peritali consentirono di accertare che l’esplosivo adoperato per l’attentato era del tipo “tritolo” che, come ha precisato in dibattimento il cap Di Matteo, “è la versione civile dell’esplosivo di cava” aggiungendo che in campo civile il tritolo è miscelato con un sale inorganico, il nitrato di ammonio, in percentuali diverse che dipendono dal produttore, in quanto questa sostanza aumenta il potere deflagrante del tritolo”.
A specifica domanda il C.T. ha precisato che in ogni caso le analisi non avrebbero potuto evidenziare l’eventuale presenza di “nitrato di ammonio” trattandosi di un composto dell’ammoniaca che alle elevate temperature si volatilizza.
Quanto alle caratteristiche fisiche del tritolo, i consulenti hanno precisato che trattasi di esplosivo polverulento che, tuttavia, allorchè miscelato con il nitrato di ammonio, assume una aspetto granuloso e la struttura di tipo salino (che si apprezza al contatto); se il nitrato di ammonio, al quale il tritolo viene miscelato, è in condizioni di buona purezza, la colorazione della miscela è bianca, viceversa assume un colore giallino.
In ordine alla quantità di esplosivo adoperato per determinare gli effetti di quella esplosione, i consulenti hanno spiegato che la valutazione di 10 – 20 chilogrammi, in relazione allo stato dei luoghi e anche allo spazio all’interno del quale l’esplosivo era stato occultato, era relativa alla quantità minima necessaria per determinare quell’effetto, precisando che si trattava di un dato di orientamento, che doveva essere tenuto presente anche il sistema di intasamento e che la valutazione era stata effettuata in maniera estremamente approssimata. Hanno, infine, rilevato che per ampliare l’effetto deflagrante, sarebbe stato consigliabile riempire completamente il contenitore metallico, senza lasciare spazi, atteso che l’ossigeno viene fornito dal nitrato di ammonio, e che non era necessario chiudere ermeticamente il contenitore.
Una più precisa determinazione quantitativa avrebbe richiesto l’esecuzione di prove da scoppio che non erano state espletate.
[…]
Un altro specifico punto di contrasto è rilevabile in ordine alla sostituzione delle targhe della Fiat 126, atteso che il Ganci ha dichiarato di avervi provveduto personalmente (“ci cambiai le targhe” – ff.128,129 e 143, ud.15/3), mentre il Brusca ha riferito di avere rubato delle targhe insieme al Madonia la stessa notte dell’attentato asportandole da altra Fiat 126 posteggiata in una traversa della via Sampolo, di proprietà di Santonocito. Il contrasto, invero, potrebbe essere soltanto apparente, atteso che il Ganci, il quale ha fornito una dettagliata descrizione della tecnica utilizzata per la sostituzione delle targhe delle numerose autovetture rubate per l’esecuzione di innumerevoli reati, potrebbe avere confuso uno dei molteplici interventi eseguiti nel corso della sua carriera criminale.
Ma non può affatto escludersi che, dopo una prima sostituzione, la notte dell’attentato sia stato deciso di eseguire il furto di altre targhe, sia per evitare il ricorso alle modalità di assemblaggio con l’impiego di una tavoletta di legno e di mastice “bostick”, descritte dal Ganci, e quindi ogni rischio di riconoscibilità in relazione alla delicatezza del progetto criminoso che consigliava l’applicazione di targhe integrali, sia per l’esigenza di un furto che per essere stato perpetrato nelle prime ore del mattino ed a poche ore di distanza dal reato-fine dava sufficienti garanzie che quelle targhe non avrebbero potuto essere ricercate di lì a poco né inserite in un terminale.
Sotto tale profilo appare significativo il fatto che il furto sia stato casualmente scoperto qualche ora dopo solo perché il figlio del proprietario doveva partire con il pulman per raggiungere la sede (Trapani) dove stava espletando il servizio militare.
L’attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori esaminati, protagonisti della fase esecutiva della strage, sia pur con ruoli diversi in relazione ad autonomi segmenti attuativi del progetto criminoso, risulta suffragata non solo dal reciproco riscontro che deriva dalla sostanziale convergenza delle rispettive chiamate in correità nei loro nuclei fondamentali, coincidenza che ne rafforza sinergicamente l’attendibilità estrinseca, ma altresì da una serie di idonei elementi oggettivi di riscontro estrinseco.
Meritano in particolare di essere segnalate le seguenti emergenze processuali.
Ribaudo Andrea, proprietario della FIAT 126 oggetto del furto e titolare dell’omonima autoscuola, ha riferito che la mattina del 27 luglio 1983, quindi due giorni prima della strage, nel momento della asportazione, l’autovettura si trovava posteggiata in doppia fila dinanzi all’autoscuola, con gli sportelli aperti e le chiavi – come era loro abitudine – nel porta oggetti o nella tasca laterale, o inserite nel quadro di accensione e, comunque, all’interno dell’abitacolo, precisando che tale prassi traeva origine dal fatto che tra una lezione e l’altra di scuola guida intercorrevano pochi minuti.
L’auto era di colore verde bottiglia, aveva i doppi comandi ed era munita di tabelle applicate sul paraurti che indicavano l’uso cui era destinata; non è stato in grado di precisare se le insegne dell’epoca recanti l’indicazione “scuola guida” fossero adesive o apposte con ganci e facilmente staccabili.
Ha riferito, inoltre, di avere presentato regolare denuncia ai carabinieri della Stazione Palermo-Uditore nell’immediatezza del fatto oralmente ed il giorno dopo il furto aveva formalizzato la denuncia (cfr.ud.13/1/1999)
L’indicazione temporale fornita dal teste in ordine alla data del furto riscontra le dichiarazioni rese sul punto dall’Anzelmo, mentre consente di attribuire a cattivo ricordo l’assunto del Ganci che ha collocato il furto ad una settimana prima.
Longo Gaetana (ud. cit.) all’epoca impiegata presso l’autoscuola Ribaudo, ha confermato che l’auto era posteggiata in doppia fila ed aperta con le chiavi collocate lateralmente o nel portaoggetti, precisando che anche in altre occasioni era accaduto che le chiavi fossero state lasciate inserite nel quadro di accensione.
Ha inoltre riferito che il giorno del furto vi era stata già una lezione di guida e dopo pochi minuti se ne sarebbe dovuta tenere un’altra; di essersi accorta del furto quasi subito dopo e di avere avvisato il titolare il quale l’indomani mattina aveva presentato la denuncia.
L’autovettura recava le insegne della scuola guida che erano apposte con ganci al paraurti, ciò che consente di ritenere giustificato l’intervento del Di Napoli che non doveva limitarsi a rimuovere le insegne, ma anche a togliere i ganci con l’ausilio di una pinza o altro utensile.

Come già sopra anticipato, anche il furto delle targhe apposte alla Fiat 126 ha trovato riscontro nelle dichiarazioni del teste Santonocito Salvatore, titolare nel 1983 di un panifico ubicato in Via Imperatore Federico, nr. 65, il quale ha riferito che l’autovettura Fiat 126 tg PA 426847 era intestata a lui ma era nella disponibilità del figlio che l’aveva posteggiata sotto la propria abitazione sita in via Vincenzo Fuches dopo la mezzanotte.
Il furto era stato eseguito sicuramente dopo tale ora e prima delle ore quattro della stessa notte quando l’altro figlio, che stava espletando il servizio militare a Trapani e ogni mattina alle sei prendeva il pullman  per recarsi in quella città, era sceso da casa e si era accorto della sottrazione; lo stesso figlio si era recato al Commissariato rappresentando verbalmente l’accaduto ma non aveva potuto presentare la denuncia subito perché gli era stato riferito che a quell’ora gli uffici erano chiuse al pubblico.
Lo stratagemma riferito dall’Anzelmo per indurre il proprietario del camioncino semiscoperto di una ditta di trasporti, sul quale figurava scritto un numero di telefono, a spostare il mezzo posteggiato proprio davanti l’ingresso dello stabile del dr. Chinnici ha trovato riscontro nella significativa deposizione di Maceo Francesco.
Secondo quanto riferito dal collaboratore avevano pensato di telefonare a quel numero ed alla interlocutrice che aveva risposto lo stesso Anzelmo si era qualificato come potenziale cliente, richiedendo l’invio del furgone per trasportare una lavatrice che assumeva di avere comprato presso la ditta Migliore, sita nei pressi del cinema ”Jolly” e della stazione Notarbartolo.
Avendo la ditta aderito alla richiesta, non appena il furgone lasciò il posto fu possibile al Ganci piazzarvi un’autovettura “proprio davanti l’androne….di dove scendeva il Consigliere Istruttore Chinnici”.
Il teste Maceo, all’epoca dei fatti titolare di una ditta per il trasporto di cose, sentito all’udienza dell’1/4/1999, pur essendo visibilmente impaurito e piuttosto restio ad ammettere i fatti, non ha potuto fare a meno di ammettere che era solito posteggiare il proprio furgone Fiat 241 di colore grigio, a poca distanza dal civico 59 della via Pipitone Federico.
La circostanza è stata confermata anche dal figlio del consigliere Chinnici, Giovanni, il quale ha ricordato di avere notato il mezzo generalmente posteggiato nella via Pipitone Federico, all’angolo con la via Prati proprio dinanzi alla portineria, ma di non potere escludere che il furgone qualche volta abbia stazionato dinanzi al portone di ingresso della sua abitazione.
Il teste Maceo ha tuttavia ammesso che sul furgone era apposta una targa in plastica indicante il recapito telefonico della ditta, coincidente con quello della propria abitazione, riscontrando peraltro la circostanza della voce femminile cui ha fatto riferimento l’Anzelmo, atteso che il teste ha dichiarato che effettivamente le telefonate venivano ricevute dalla propria moglie alla quale egli telefonava per sapere se ci fosse qualche trasporto da effettuare.
È appena il caso di osservare che le telefonate dovessero essere effettuate più volte durante l’arco della giornata, non essendo credibile che il titolare – come dallo stesso sostenuto – conoscesse delle richieste pervenutegli soltanto la sera quando rincasava, potendo pervenire anche richieste aventi carattere di urgenza che non avrebbero potuto essere soddisfatte con conseguente perdita di occasioni di lavoro e danno economico.
Ulteriori riscontri sono stati acquisiti in ordine al concorde assunto di Ganci ed Anzelmo di avere partecipato ad una manifestazione canora la sera precedente alla strage, essendo stato accertato l’effettivo svolgimento della nota manifestazione “Cantamare, nei giorni 28 e 29 luglio 1983 in località Mondello, presso il campo sportivo “Castellucci”.
È stato altresì individuato il locale denominato “Brasil” che effettivamente, nel luglio 1983 era in esercizio nella via Pietro Bonanno di Palermo.
Il titolare, Orestano Fausto, ha riferito che il locale, negli anni ‘82 – ‘83 era aperto nei mesi estivi e certamente nelle sere del venerdì, precisando che l’accesso al pubblico, che secondo i  programmi gestionali avrebbe dovuto essere selezionato, in realtà non lo era a causa dell’elevato numero di presenze soprattutto nei giorni di venerdì e sabato e della sostanziale assenza di controlli quando egli stesso non era presente, trattandosi di attività demandata a dipendenti che potevano decidere con ampi margini di discrezionalità.
Dato il tempo trascorso, non è stato possibile reperire presso la SIAE la documentazione fiscale riguardante l’apertura del locale nella notte tra il 28 ed il 29 luglio; tuttavia risultano regolarmente corrisposti i diritti d’autore per l’intero arco del mese di luglio 1983, circostanza questa che conferma che il locale era regolarmente aperto al pubblico.

In relazione agli itinerari descritti dai collaboratori, è stato accertato che nell’anno 1983 la via Pipitone Federico era percorribile a senso unico con direzione via Libertà – via Nunzio Morello.
Risulta, inoltre, positivamente riscontrato che dai gradini della chiesa di San Michele è ben visibile il luogo in cui si verificò la deflagrazione e che all’epoca la chiesa era già munita di recinzione con un cancello di ingresso che già dalle ore 7,00 dei periodi estivi era regolarmente aperto per consentire l’accesso ai fedeli, come confermato in dibattimento dal parroco.
È stato accertato che nel luogo indicato dal Ferrante come quello in cui egli trovò l’autocarro da lui stesso portato in via Pipitone Federico, si trova effettivamente un parcheggio per autovetture e mezzi pesanti che dal 1981 è condotto in locazione da una società di pertinenza di tale Ganci Antonino, primo cugino dell’imputato Ganci Raffaele.
Quanto alle dichiarazioni di Brusca Giovanni, va rilevato che l’istruzione dibattimentale ha consentito di riscontrare numerose circostanze dallo stesso riferite.
Innanzitutto, con riferimento all’attività di osservazione degli spostamenti del consigliere istruttore Chinnici nell’estate del 1982, la certificazione del Presidente del Tribunale di Palermo del 3.6.1999 ha confermato che il magistrato nell’agosto di quell’anno aveva fruito di un periodo di ferie; tale periodo, come ha riferito il figlio  Giovanni, lo aveva trascorso nella villa di Salemi, come era solito fare ogni anno.
Dalla deposizione del teste si rileva che la descrizione dell’immobile dallo stesso fornita coincide con quella del Brusca, con particolare riferimento all’ubicazione ed alla visibilità della casa sia dalla strada statale sia dalla stradella interpoderale asfaltata privata, ma priva di recinzioni e quindi con accesso libero a chiunque.
Anche nel corso di quell’estate effettivamente erano state predisposte misure di protezione a tutela del magistrato, affidate ai carabinieri del luogo che si alternavano con turni nell’arco dell’intera giornata.
Il servizio veniva espletato prevalentemente da militari dell’Arma in abiti civili che stazionavano con automezzi posteggiati lateralmente alla villa, ubicata nella stessa contrada in cui i cugini Salvo possedevano un villino.
Il teste Giovanni Chinnici ha riferito che effettivamente, all’epoca della strage, dinanzi al portone di ingresso erano stati appena posti a dimora due alberi con due piccole aiuole.
Oltre a quanto sopra evidenziato in ordine ai significativi riscontri acquisiti in esito agli accertamenti esperiti dai consulenti tecnici, appare estremamente significativa l’indicazione dagli stessi fornita sulla possibile provenienza del frammento metallico repertato, che, per le caratteristiche strutturali e morfologiche, ben può essere riconducibile  ad una bombola di gas adoperata per contenere l’esplosivo.
Infine, con riferimento ai doppi comandi della Fiat 126 sottratta all’autoscuola, occorre evidenziare come nessuno dei collaboratori, ad eccezione del Ganci, abbia avuto un ricordo preciso della circostanza.
Tuttavia può fondatamente presumersi che il Brusca non abbia avuto contezza dell’esistenza dei doppi comandi in quanto tutti i lavori erano concentrati nel vano anteriore portabagagli e per la collocazione dell’antenna e della ricevente erano stati effettuati esclusivamente nella parte anteriore sinistra dell’abitacolo.
Alla stregua delle considerazioni che precedono può conclusivamente ritenersi ampiamente provata la complessiva attendibilità dei collaboratori esaminati, avendo le discrasie su alcuni punti, sopra rilevate, trovato plausibili giustificazioni, sicchè esse appaiono addirittura attestative della reciproca autonomia delle varie propalazioni in quanto “fisiologicamente assorbibili in quel margine di disarmonia normalmente presente nel raccordo tra più elementi rappresentativi” (cfr. Cass.n.80/92)
Ed invero, ad avviso della Corte, le divergenze sono state analizzate criticamente e spiegate sia in relazione alle ragioni che alla natura di esse, alla stregua di criteri logici e dei principi di coerenza interna e di ragionevolezza, ed in esito alla analitica disamina sopra esposta può ritenersi che le singole propalazioni non solo non siano in contraddizione ma sostanzialmente coincidenti nel nucleo centrale del racconto e presentano altresì elementi specifici che, potendo essere conosciuti soltanto da persone che sono state protagoniste dei fatti narrati, dimostrano una conoscenza non relativa a notizie di dominio pubblico.
Non può non ribadirsi come per una corretta valutazione inferenziale delle divergenze assuma un particolare rilievo la circostanza che il racconto abbia per oggetto fatti accaduti nel 1983 e, quindi, ben 13 anni prima dell’inizio della loro collaborazione risalente al 1996.
Non disconosce la Corte che la partecipazione alla fase preparatoria ed esecutiva di un gravissimo attentato, peraltro eseguito con particolari modalità di tipo terroristico in danno di un magistrato, con conseguenze devastanti, non può non lasciare nella memoria tracce precise e difficilmente cancellabili.
È altrettanto vero però gli odierni imputati-collaboratori, che di quell’efferato delitto sono stati diretti protagonisti, hanno un vissuto criminale contrassegnato da una lunga militanza in “cosa nostra”, nel corso della quale hanno perpetrato una incredibile serie di delitti rientranti ormai in un sistema di vita abituale, connotata anche dalla ripetitività di molte condotte, sostanzialmente simili, quale ad esempio quella del furto delle autovetture, le quali, per essere di volta in volta comunque correlate teleologicamente alla realizzazione di più ampi ed articolati disegni criminosi, in cui si inseriscono come tasselli operativi secondo una precisa distribuzione di compiti, ben possono dar luogo a fisiologici fenomeni di incontrollabile ed inconsapevole confusione o sovrapposizione di ricordi.
Di ciò la Corte ha dato contezza, di volta in volta, alla stregua di criteri di ragionevolezza e verosimiglianza, soprattutto quando la versione che appariva meno immune dal sospetto di essere  stata fuorviata inconsapevolmente da imprecisione mnemonica, risultava smentita da argomenti di ordine logico ovvero da un terzo soggetto che, direttamente o indirettamente, forniva riscontro a quella insanabilmente divergente dalla prima: così si è ritenuto, ad esempio, di relegare nell’ambito della fisiologia dei meccanismi mnemonici l’asserito temporaneo rientro al fondo Pipitone, riferito dall’Anzelmo e non anche dal Ganci che secondo il primo ne era stato contestuale protagonista; e così pure per l’identità dell’autore della materiale sottrazione della 126 dell’autoscuola ed inoltre per la sostituzione delle targhe di detta autovettura.
Altro decisivo rilievo causale nel meccanismo di sovrapposizione dei ricordi deve essere riconosciuto alla particolare ricchezza dei contenuti descrittivi delle singole propalazioni, sovente connotate da dovizia di particolari, ovvero dall’articolato sviluppo delle condotta o delle singole azioni che la compongono – snodantesi attraverso itinerari, tappe intermedie, molteplicità di personaggi, mutevolezza di coautori in relazione ad autonomi e sovente ripetitivi segmenti di una medesima azione criminosa – ed, infine, come nel caso di specie, da un ampio contesto temporale nel quale gli episodi narrati si inseriscono in rapida successione a lungo protrattasi nel corso delle varie fasi del progetto criminoso.
In un contesto narrativo così articolato e variegato non può prescindersi, inoltre, dalla autonomia e dalla sia pur parziale diversità dei ruoli svolti nelle singole fasi, sicchè il patrimonio conoscitivo appare ragionevolmente differenziato sia in relazione alla rilevanza del ruolo rivestito in seno all’organizzazione, sia in relazione all’eventuale maggiore o minore tasso di coinvolgimento nel fatto criminoso, mentre la sostanziale coincidenza nel nucleo centrale dei rispettivi racconti in ordine ai momenti di contestuale coinvolgimento e le pur presenti discrasie depongono per l’assenza di fenomeni di contaminatio e di pedissequa ripetitività.
Sotto altro profilo va rilevato che il coinvolgimento dei quattro collaboratori nella strage per cui è processo, sia pur con ruoli diversi, ma tutti di primaria importanza, appare perfettamente plausibile e compatibile con la particolare rilevanza operativa che ha tradizionalmente connotato i rispettivi mandamenti di appartenenza.
La specifica disamina svolta nel corso della esposizione del racconto di ciascuno dei collaboratori sopra esaminati in ordine alla reciproca autonomia ha tenuto conto delle opportunità di incontro tra il Ganci e l’Anzelmo nella stessa cella fino a poco tempo prima dell’inizio della collaborazione del primo (ma comunque non dopo l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria di Trapani, Montalto), delle ammissioni del Ganci in ordine al reciproco sfogo con il cugino in un periodo di disagio esistenziale per avere rovinato la loro vita e dell’incontro con il fratello Domenico ed il cugino Francesco Paolo per tentare di convincerli a collaborare, svoltosi in una caserma dei Carabinieri di Caltanissetta in presenza di militari dell’Arma e della Polizia Penitenziaria. Tutto ciò non può certamente averne compromesso l’autonomia del patrimonio conoscitivo e la rilevanza del rispettivo contributo probatorio fornito nel presente processo, come si desume dall’ampiezza della collaborazione su un rilevante numero di fatti criminosi ed in particolare dalla circostanza che, ad esempio, lo Anzelmo nulla ha riferito in ordine alla preparazione delle stragi del 1992: ciò che depone univocamente per l’assenza di compiacente e pedissequa ripetitività rispetto al racconto di altri collaboratori.
Dalla documentazione prodotta dal P.M. ed acquisita ex art.507 c.p.p. è emerso che effettivamente il Ganci e l’Anzelmo furono condetenuti per alcuni giorni dell’anno 1996 nella stessa sezione del carcere dell’Ucciardone (sez.IX), negli stessi piani ma in celle diverse, se si eccettua l’unica volta dall’8 al 10/3/1996 in cui i due trascorsero due giorni assieme nella cella n. 11 (cfr. nota della Direzione Casa Circondariale di Palermo in data 2/6/1999; doc. n. 14 – richieste ex art. 507 c.p.p.).
Non può peraltro essere sottaciuta la sostanziale convergenza in  ordine al coinvolgimento di altri soggetti chiamati in correità dai predetti collaboratori, con particolare riferimento al ruolo svolto da Gambino Giacomo Giuseppe, Ganci Raffaele, Madonia Antonino, Galatolo Vincenzo e Ganci Stefano.

Fonte mafie blog autore repubblica