Spatuzza, il nuovo capomandamento

Sulla figura del collaborante Grigoli Salvatore e sulla sua attendibilità intrinseca ed estrinseca, si sono soffermati a lungo i primi giudici, sul rilievo che il fulcro dell’accusa ruota attorno alle sue dichiarazioni auto ed etero accusatorie.
Il Grigoli, soprannominato “il cacciatore” o “il ricciolino”, ha avuto un ruolo di spicco all’interno dell’organizzazione criminale denominata “Cosa Nostra”; in particolare in quella articolazione operante nella difficile realtà del quartiere Brancaccio, della quale è stato un feroce “super killer”.
“Membro stabile dell’apparato militare del mandamento, dedito all’attività di killer abituale, abilitato ed adibito all’uso consueto delle armi, in un ambiente che egli presenta come una fabbrica inarrestabile di violenza, il predetto imputato ha confessato i delitti commessi e si è professato affidabile professionista del crimine per qualità ed attitudini personali, responsabile di gravi misfatti, ciascuno dei quali tappa di un’escalation delinquenziale finalizzata all’organico inserimento, per speciali meriti criminali, nel tessuto organizzativo dell’ente mafioso, proteso nella scalata all’oligarchia elitaria del mandamento” di Brancaccio.
Egli, nonostante non fosse stato ritualmente affiliato, oltre che commettere omicidi ed altre azioni delittuose nell’interesse dell’organizzazione criminale, ha partecipato anche ad appuntamenti con vari esponenti di massimo livello dell’associazione mafiosa, quali Bagarella Leoluca, Messina Denaro Matteo, Virga Rodolfo, Nicolò Di Trapani, Guastella ed altri, con i quali è entrato altresì in contatto.
In effetti egli era un “riservato”: infatti – secondo il suo assunto – non veniva presentato ad alcuno ma accompagnava i maggiori esponenti del sodalizio mafioso locale e godeva della loro massima ed incondizionata fiducia.
Come detto, pur facendo parte, a tutti gli effetti, dell’organizzazione “Cosa Nostra”, non era stato mai formalmente affiliato, nonostante che questa fosse stata una sua non dissimulata aspirazione, ostandovi, tra l’altro, il fatto che era imparentato con un esponente delle forze dell’ordine (un suo cognato era un poliziotto in attività di servizio in territorio adeguatamente lontano).
Originario della via Giafar, nel cuore di Brancaccio, Grigoli Salvatore, prima di essere cooptato in “Cosa Nostra”, aveva esercitato l’attività di commerciante.
In precedenza aveva lavorato anche presso un’impresa, ma ben presto era stato licenziato per cessata attività.
In questo periodo, per sfamare la famiglia aveva cominciato a delinquere, frequentando Giacalone Luigi; altro malavitoso del quartiere.
Aveva partecipato ad una rapina in una gioielleria e dopo, nell’anno 1986 – sempre secondo quanto da lui stesso riferito – era stato avvicinato da Filippo Quartararo e da Mangano Antonino, soggetti appartenenti all’associazione mafiosa, i quali gli avevano commissionato vari delitti che egli aveva regolarmente commesso.
Aveva fatto anche da autista e guardaspalle a tale Giovanni Sucato da Villabate, soprannominato il “mago dei soldi”, in seguito trovato bruciato all’interno della sua autovettura Volkswagen Polo lungo la strada statale Palermo-Agrigento il 30 maggio 1996. Il Sucato, era stato l’organizzatore di una maxi-truffa: aveva, infatti, raccolto dagli scommettitori un’ingente quantità di denaro, che alla fine era stata incamerata da Mangano Antonino, da Quartararo Filippo e da Giovanni Torregrossa.
Grigoli Salvatore conosceva all’epoca il Mangano, il quale abitava nella sua stessa borgata, e tra loro era nata “una sorta di amicizia, anche perché lui (Mangano) si conosceva già da prima con Giacalone Luigi”.
Allo stesso modo aveva conosciuto Quartararo Filippo, uomo d’onore della famiglia di Brancaccio.
Per loro tramite aveva conosciuto altri uomini d’onore, iniziando a commettere, per conto dell’organizzazione, dapprima piccoli reati, (come attentati incendiari di macchine e negozi) dando poi la scalata al vertice criminale, divenendo killer del gruppo di fuoco del mandamento di Brancaccio, i cui capi erano i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo.
Aveva commesso il suo primo omicidio nell’anno 1989, quando aveva l’età di ventiquattro anni e ne erano seguiti molti altri.
Secondo il suo assunto, a capo del gruppo di fuoco, quando Graviano Giuseppe era stato arrestato, era succeduto Antonino Mangano, il quale lo aveva aggregato ad una formazione specializzata nel commettere omicidi all’interno del mandamento di Brancaccio.
Già allora facevano parte di tale formazione Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, Vittorio Tutino; dopo l’avvento del Mangano si sono aggiunti Pietro Romeo e Pasquale Di Filippo.
Secondo Grigoli, Mangano Antonino, che è stato a capo del “gruppo di fuoco”, organizzava i singoli omicidi, impartendo ordini e specificandone le modalità esecutive, pur se trattavasi di azioni delittuose commissionate direttamente dai Graviano. Il gruppo di fuoco disponeva di diverse basi operative nonché di una nutrita dotazione di armi e munizioni, la maggior parte delle quali, allorchè detto gruppo operava sotto le direttive dei Graviano, era custodita dal mandamento di Brancaccio-Ciaculli, mentre il resto era nella disponibilità di quella di Corso dei Mille.
La composizione del medesimo gruppo nelle varie imprese criminali era variabile in quanto “l’unico esecutore materiale” era stato per lo più egli soltanto, mentre gli altri si erano alternati con ruoli diversi: o guidavano le macchine, o le moto, ovvero davano la “battuta”.
Dopo l’inizio della collaborazione dei fratelli Di Filippo e la cattura di Bagarella e dopo un periodo di semiclandestinità, il Grigoli aveva trascorso la latitanza nella provincia di Trapani per circa un anno, in località Alcamo e Marausa sotto la protezione di Antonino Melodia.
Dopo che si era sospettato che anche Vincenzo Ferro, uomo d’onore componente della famiglia di Alcamo, avesse cominciato a collaborare con la giustizia, il Grigoli aveva fatto ritorno a Palermo, fidando nella protezione di Gaspare Spatuzza, assurto nel frattempo alla più alta carica mafiosa nel mandamento di Brancaccio.
Come hanno ben sottolineato i giudici del primo grado di giudizio, “i suoi fitti e pregressi rapporti di frequentazione con esponenti di vertice di “Cosa Nostra” (in epoca coeva all’uccisione di Padre Puglisi) evidenziano l’evolversi ed il consolidarsi della sua figura delinquenziale, adusa alle imprese sanguinose più eclatanti che accrescevano di volta in volta il suo prestigio criminale; ben inserita nella compagine locale del sodalizio mafioso, al seguito del più noto Leoluca Bagarella, che aveva frequentato quando aveva intrapreso a tutelare la latitanza di Matteo Messina Denaro, facendo da autista a quest’ultimo ed accompagnandolo nei suoi assidui appuntamenti con i rappresentanti della varie famiglie”. Il Grigoli, colpito da ordinanza di custodia cautelare in carcere del 18 luglio 1995 perché coinvolto in una lunga serie di omicidi, veniva arrestato, dopo una lunga latitanza, il 19 giugno del 1997. Era stato a lungo ricercato; per molto tempo era stato inafferrabile ed aveva costituito una delle braccia armate più spietate a disposizione di “Cosa Nostra” ed uno dei sicari più pericolosi e killer di fiducia del Mangano Antonino.
Inoltre, è stato coinvolto nel processo sulle stragi del 1993, nel fallito attentato a Maurizio Costanzo, nel fallito attentato a Formello ideato contro il collaborante Salvatore Contorno, nel sequestro del piccolo Di Matteo, il figlio del collaboratore, segregato per circa due anni e poi strangolato e disciolto nell’acido.
Dopo la cattura, il Grigoli ha scelto subito la via della collaborazione. Ha parlato ad investigatori e magistrati delle decine di omicidi commessi per conto della famiglia mafiosa di Brancaccio, delle varie scomparse e delle numerose intimidazioni ai commercianti del quartiere.
Ha spiegato le ragioni che lo avevano indotto ad imboccare la strada della dissociazione, da individuarsi, in primo luogo, in impellenti necessità di sopravvivenza materiale, essendo egli braccato, privo di risorse finanziarie e non sostenuto economicamente nella latitanza dal capocosca, il quale non aveva ritenuto di adempiere al relativo compito.
Infatti, lo Spatuzza, divenuto, dopo l’arresto del Mangano, capo del mandamento di Brancaccio, ed a cui competeva farsi carico del sostentamento delle famiglie dei latitanti, non gli aveva riconosciuto il dovuto merito di essere stato un superkiller, uno dei migliori sicari del gruppo di fuoco.
Di fronte al comportamento omissivo dello Spatuzza, il Grigoli aveva allora cominciato a riflettere “se fosse stato giusto tutto quello che aveva fatto per l’organizzazione criminale “Cosa Nostra” e, pensando a tutti I crimini commessi, si era reso conto che tutto ciò che aveva fatto era stata una cosa errata”. Ha altresì contribuito alla maturazione di questa scelta di vita, a tenore
delle dichiarazioni del Grigoli, il fatto che egli fosse rimasto particolarmente scosso dalla fine che era stata riservata al piccolo Giuseppe Di Matteo, che egli aveva sequestrato assieme ad altri componenti del gruppo di fuoco, nonché dalla sorte toccata a padre Giuseppe Puglisi e dalla barbara uccisione di una ragazza estranea ai conflitti mafiosi durante un omicidio commesso ad Alcamo: tutto questo lo aveva indotto a meditare sul suo passato criminale e ad iniziare la collaborazione con le autorità dello Stato.
Come risulta dalle sue stesse confessioni e dichiarazioni, Grigoli Salvatore era diventato killer perché questo era l’unico modo per affermarsi nella triste realtà del quartiere di Brancaccio, perché ciò gli garantiva denaro, donne, autovetture, motociclette e soprattutto uno “status”.
Grigoli ha confessato di avere commesso un numero incredibile di omicidi perché attraverso il crimine, sempre più orrendo, affermava se stesso e otteneva la considerazione degli “uomini d’onore” che contavano e il rispetto degli umili, di quelli che avevano abdicato alla propria dignità di uomini liberi.
Non appena è stato arrestato, tuttavia, si sarà reso conto che il suo sistema di valori perversi era crollato per sempre e che la sua “onnipotenza” era ormai finita, da quando era stato identificato come un pericolo killer al soldo della famiglia mafiosa di Brancaccio e da quando non era più utile e funzionale agli interessi della sua cosca.
Egli, a quel punto, solo e misero, decise di confessare tutti i crimini commessi e di collaborare con la giustizia, scegliendo la via della legalità. Ma, se don Pino Puglisi è l’esempio dell’affermazione della dignità umana, dell’uomo che non si fa soggiogare dal (pre)potente di turno, Grigoli, il suo carnefice, è l’esempio tipico della dignità negata. Per quel che interessa il procedimento in esame, va rilevato che Grigoli Salvatore, il quale, come già detto, immediatamente dopo il suo arresto, messo nelle condizioni di comprendere il sistema di valori perversi in cui fino ad allora era vissuto, aveva cominciato a collaborare fattivamente con la giustizia, ha ammesso di essere stato egli stesso l’esecutore materiale dell’omicidio di Padre Puglisi, indicando causale, mandanti e complici.
Egli, all’udienza del 7 luglio del 1993, e cioè pochi giorni dopo il suo arresto, davanti alla Corte di Assise di Palermo rendeva spontanee dichiarazioni che appare opportuno anche qui riportare testualmente, sia pure nei passi più salienti, costituendo la sua collaborazione una svolta importante del processo, in quanto ha fornito la chiave di lettura dell’uccisione di padre Puglisi, indicando, come già detto, causale, mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio, primo fra tutti egli stesso.
Anche se le predette dichiarazioni, rese dal Grigoli nel corso del procedimento del quale ci occupiamo, cronologicamente non siano le prime sull’omicidio del sacerdote — avendo egli fatto abbondanti dichiarazioni al riguardo — a giudizio della Corte, tuttavia, è da queste che bisogna prendere l’esame sia, appunto, per la loro spontaneità, sia perché in nessun modo influenzate dall’intervento di terzi, accusa o difesa, legittimamente mosse da interessi contrapposti.
Ebbene, il Grigoli Salvatore ha così liberamente esordito: “Io vorrei collaborare, …..con la giustizia, quindi definendomi collaboratore. Però per quanto riguardo questo processo vorrei definirmi io più che altro un pentito, perché mi sono pentito realmente di aver commesso questo omicidio”. “Riguardo. io cominciai già a pensare qualcosa del genere all’incirca, riguardo sul pentirmi, un sei mesi addietro a questa parte…E mi ha dato modo di pensare questo il fatto che da un anno a questa parte io non ero più sostenuto da nessuno, né economicamente né….cioè in poche parole io non ero più in condizione di campare, come si suol dire, la famiglia. Mi sono dovuto persino impegnarmi dell’oro che avevo io per potere mandare dei soldi a casa…e fare….altre cose; addirittura farmi prestare dei soldi per potere tirare avanti i miei figli, e questa cosa mi ha cominciato a fare pensare io con chi…per tutta…per gran parte della mia vita, con chi ho avuto a che fare, se è stato giusto le cose che ho commesso, i delitti…cioè questa cosa mi cominciò a far pensare se era stato giusto quello che avevo fatto io per conto di questa organizzazione”.
“E da questo ecco che io ho deciso anche di collaborare con la giustizia…”
“Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità riguardo il delitto di padre Puglisi”.
“Vorrei premettere un’altra cosa, che io… tengo a precisare che non è assolutamente vero il fatto che io mi sia vantato, dopo aver commesso questo omicidio, perché non ne trovavo le ragioni; non me ne vantavo per altri omicidi….figuriamoci di questo che già…anche perché, dopo averlo commesso, ci pensavo spesso a questo omicidio e non vedevo la ragione per cui è stato fatto…anche se i motivi ne sono a conoscenza, ma non mi sembravano motivi validi per uccidere un prete”.
“Prima…volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a questo omicidio. Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido Federico di bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile di via Azzolino Hazon, nei dintorni di questa via…perché queste persone erano vicine a padre Puglisi”. “I fatti che io conosco, le responsabilità dell’omicidio sono quelli che un giorno…non ricordo se fu lo Spatuzza o Nino Mangano, che un giorno mi disse che dovevamo commettere questo omicidio, che deve essere stato lo Spatuzza anche perché la persona che conosceva il padre. Già aveva parlato con Giuseppe Graviano e si doveva commettere questo omicidio; sicuramente ne parlai anche con Nino Mangano, perché io non facevo niente se non ne parlassi con lui”.
“Quindi una sera…cercammo di vedere i movimenti, gli spostamenti del padre e lo incontrammo a Brancaccio, in un telefono pubblico. Non mi ricordo se già ero armato o dopo averlo visto….ci recammo per armarci, anche se poi l’unico ad essere armato ero io, e lo attendemmo nei pressi di casa. Così fu, eravamo io, lo Spatuzza, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo. Eravamo comunque…non avevamo né macchine rubate, né motociclette, niente di tutto questo, eravamo con le macchine…una era di disponibilità del Giacalone, un BMW, e una Renault 5 di proprietà del Cosimo Lo Nigro. Scese Spatuzza dalla macchina del Lo Nigro, perché Spatuzza era con Lo Nigro ed io ero con Giacalone. Il primo ad arrivare fu lo Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il portone di casa, lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre, questa è una rapina…il padre neanche si era accorto di me…, fu una cosa questa qui che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise sorrise e gli disse allo
Spatuzza “me l’aspettavo”. Allorchè io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene di essere stato ucciso”. “Dopo di ciò chiaramente il borsello fu portato via dallo Spatuzza.…
Dopo di ciò ci recammo in uno stabilimento della zona industriale, cosiddetto Valtras, uno stabilimento di export-import…una specie di spedizionieri erano e lì fu controllato il borsello. Ricordo bene che c’era una patente, lo ricordo bene perché lo Spatuzza aveva la mania, perché lui all’epoca già era latitante, di togliere le marche da bollo che potevano servire per eventuali documenti falsi e tutti i documenti e tolse le marche da bollo”.

“Tra le altre cose ricordo che c’era una lettera…non ricordo se è stata inviata al padre o…c’era una busta con un foglio, una lettera di una persona che gli aveva scritto che, se non ricordo male, gli facesse gli auguri non so di cosa, all’incirca trecentomila lire e poi altri pezzettini di carta…”
“Vorrei premettere che il borsello fu portato via, perché si voleva far credere che l’omicidio….cioè l’omicidio dovevano pensare gli inquirenti che era stato fatto da qualche tossicodipendente o da qualche rapinatore, ecco perché fu utilizzata la 7 e 65, che non è un’arma consueta agli omicidi di mafia”. “…Questo è quello che io sono a conoscenza…”.
Al termine di dette dichiarazioni spontanee il Pubblico Ministero ne chiedeva l’esame che la Corte del primo grado di giudizio ammetteva e che veniva espletato all’udienza del 28 ottobre 1997. Nel corso di detto esame sono stati approfonditi i temi già spontaneamente enunciati dal Grigoli, il quale ha ribadito di aver fatto parte di “Cosa Nostra” ed ha spiegato testualmente: “Vede io non avevo mai commesso reati di nessun genere…fino all’incirca undici, dodici anni fa. Dal momento in cui poi io sono stato licenziato perché il lavoro era finito, avevo già un bambino piccolino, nove mesi, cominciai a delinquere”.
“All’epoca io feci una rapina in una gioielleria per fare soldi e poter dare da mangiare al mio bambino. Ecco, da lì poi continuai a delinquere, perché purtroppo poi essendo che uno comincia poi a conoscere i soldi, poi viene ancora più difficile tornare indietro. E quindi nella borgata lo stesso Quartararo Filippo, Nino Mangano, loro mi osservavano sotto questo aspetto che ero uno, non so, uno in gamba, qualcosa del genere. E quindi ci fu questa sorta di avvicinamento. Da lì poi cominciai a far parte di questa…Perché poi cominciai a delinquere per loro, cominciai a bruciare autovetture, negozi”.
“Poi mi fu presentato Giuseppe Graviano e quindi poi io dipendevo da lui. Mi disse un giorno Nino Mangano: Senti, c’è un appuntamento, ci sono persone che ti vogliono conoscere. E lì trovai Giuseppe Graviano. Lui si presentò dicendomi: Io sono Giuseppe Graviano, credo che tu hai sentito parlare di me come io ho già sentito parlare di te”. “E quindi da allora io ho capito che dipendevo da lui”.
“Ma già anche da prima, anche…perché io lo conoscevo, perché da piccolino….ci conoscevamo da bambini con Giuseppe Graviano perché eravamo della stessa borgata. Poi non ci siamo più visti. E quindi già diciamo che lo conoscevo. Anche quando io operavo per Mangano e Filippo Quartararo era sottinteso che era già all’epoca Giuseppe Graviano il capo mandamento di Brancaccio. Io addirittura cominciai insieme solo io e Giacalone Luigi a commettere i primi omicidi. Poi successivamente proprio il Giuseppe Graviano ci affiancò lo Spatuzza Gaspare e poi tutti gli altri”.
“Nino Mangano ci comunicava: “I picciotti vogliono che si fa questo omicidio”.
“Perché sono fratelli. Erano tutti e due in sostanza a reggerlo, anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai “picciotti”.
“Ma io ebbi ordine anche direttamente da Graviano…Giuseppe”. “Quando ci comunicò il fatto di sequestrare il piccolo Di Matteo”. “Ma vede, lui all’epoca, non è che io adesso voglio difenderlo,
perché…però lui fece una specie di…per entrare in questo discorso girò talmente tanto, perché tipo che era quasi dispiaciuto di dovere fare questa cosa. Quindi come dire…”Voi potete pensare che io sono….insomma mi ha fatto tutto un raggiro per dirci poi: “Dobbiamo sequestrare….siccome già a Napoli è stata effettuata una cosa del genere con esiti positivi” dice: “Dobbiamo sequestrare il figlio di un pentito per tenerlo alcuni giorni, quindi fare in modo che il padre ritrattasse o perlomeno si impiccasse”.
A precisa domanda del Pubblico Ministero che gli chiedeva: “Senta chi le disse di uccidere don Pino Puglisi?” il Grigoli ha risposto: “Mangano Antonino mi disse che i picciotti gli avevano parlato di questa cosa che si doveva fare questo tipo di delitto”.
“Perché si diceva che siccome lì a Brancaccio, nei pressi della parrocchia di Brancaccio, c’era un …un non so come definire, c’erano delle suore, una congregazione, non so come dire, dove operavano delle suore in sostanza, non so cosa facessero, e si pensava che in questo locale si erano infiltrati i poliziotti e anche in chiesa. Cioè si pensava che padre Puglisi era un confidente, uno che si stava anche interessando per la cattura di Giuseppe Graviano”.
Ancora. A domanda del Pubblico Ministero che gli chiedeva:
“Senta, prima di questo atto omicidiario, lei partecipò a qualche attività delittuosa di intimidazione nei confronti di persone vicine a don Pino Puglisi?”, il Grigoli ha così risposto: “Sì…Questa se non ricordo male me la comunicò Gaspare Spatuzza che si era visto…disse: “Sai, mi sono visto con “madre natura” e dobbiamo fare questa cosa qui”; però, tutto quello che io… erano poche le cose che mi comunicavano gli altri, ma quelle poche cose prima ne parlavo con Nino Mangano. Dico, per dire: “di questa storia qui tu ne sei a conoscenza” e lui mi diceva: “Sì, a posto, ci puoi andare”. “Questa…me la comunicò lo Spatuzza, questa cosa qui. Dovevamo bruciare tre porte di tre abitazioni nello stesso palazzo…nello stesso complesso, erano tre scale ed in ogni scala c’era una porta da incendiare. Una, se non erro, è al decimo piano, una al settimo e una al quinto, se non erro. C’era un certo Martinez e gli altri non li ricordo. E andammo io e lo Spatuzza, insieme anche a Vito Federico, e salimmo tutti e tre contemporaneamente le scale; abbiamo dato tempo a colui che doveva arrivare al decimo piano di arrivare prima e abbiamo dato fuoco a queste porte e poi scendemmo tutti e tre contemporaneamente e poi andammo via”.

Ed, alla ulteriore domanda del Pubblico Ministero:
“Senta lei sa, è a conoscenza di un altro attentato incendiario che fu fatto proprio contro la chiesa di San Gaetano, nel senso, a una attività di impresa che all’interno della chiesa si svolgeva?”, Grigoli Salvatore ha risposto: “Si, si bruciò credo un furgone, adesso non mi ricordo bene, di questo appaltatore che stava facendo i lavori in chiesa ”
“So che a farlo sicuramente era stata gente di Brancaccio, ma non so chi specificamente ci andò”.
Infine, in ordine all’organigramma della famiglia mafiosa di Brancaccio, ha precisato: “Il capo mandamento era Giuseppe Graviano, poi c’era Nino Mangano, uomo d’onore, e poi c’eravamo tutti noi del gruppo di fuoco”.
Nell’interrogatorio reso il 26 giugno del 1997 al Procuratore della Repubblica di Palermo che gli chiedeva chi avesse dato l’ordine di ammazzare Don Pino Puglisi, il Grigoli ha risposto: “L’ordine me lo comunicò il Gaspare Spatuzza che mi disse…dice…”madre natura”, che lo chiamavamo proprio come Madre Natura a Giuseppe Graviano, diciamo fece sapere che si deve fare questo omicidio di Padre Puglisi”.
“Il motivo fu, perché si diceva che il padre fosse un confidente o perlomeno qualcuno che desse una mano alla Polizia di effettuare indagini anche su loro stessi che erano latitanti, addirittura c’erano le suore, una comunità di suore che potevano esserci poliziotti infiltrati là dentro…, per questo motivo. Una 7,65 fu usata anche perché doveva sembrare un omicidio non fatto da “Cosa Nostra”, ma un omicidio di un tossicodipendente, o di un ladruncolo, qualche cosa del genere. Infatti noi portammo via al prete il suo borsello per sembrare che fosse una rapina”.
“….Nella famiglia di Brancaccio,….fino alla cattura Giuseppe Graviano prendeva le decisioni….Giuseppe Graviano e Filippo Graviano, sicuramente le prendevano assieme…le decisioni”.
“Magari non avevano. cioè sono due tipi diversi, uno si occupava del
gruppo di fuoco, Giuseppe Graviano, e magari Filippo Graviano si occupava di altre cose ”.
“Giuseppe Graviano, secondo me, aveva….i compiti di ordinare i vari….i vari incendi, i vari…Poi si occupava di costruttori….era Filippo Graviano ad occuparsene di gli ordini li impartiva a Tutino Vittorio”.
Dello stesso tenore sono le dichiarazioni rese nell’esame effettuato davanti alla Corte di Assise nella sua nuova composizione in data 20 ottobre 1998.
Ed infatti, al Pubblico Ministero che gli chiedeva:.
“Lei ha detto che il mandamento era retto da Giuseppe Graviano; però, prima, quando ha parlato degli omicidi, ha parlato dei “picciotti”, cioè di Giuseppe e Filippo, e allora, dico, perché questa differenza, ce lo sa spiegare?”, il Grigoli ha risposto: “quello che è a conoscenza mia è che il mandamento di Brancaccio lo gestiva Giuseppe Graviano, però, come risulta a me, ogni qualvolta o talvolta, perché l’ho detto pure che alcune volte si diceva “madre natura” come talvolta si diceva i “picciotti”, mi veniva dato questa indicazione, poi io non lo so spiegarglielo perchè i picciotti e reggeva solo Giuseppe Graviano”.
“Ho sparato a padre Puglisi….Perché mi è stato ordinato. Da Nino Mangano, che diceva che gliel’aveva fatto sapere madre natura Madre Natura è Giuseppe Graviano”.
E, a seguito di insistenza del Pubblico Ministero, il collaborante ha precisato: “Mangano ha detto “i picciotti” o “madre natura”….Non so spiegarmi il motivo per cui Nino Mangano diceva talvolta i picciotti. I picciotti mandano a dire questo, mandano a dire quell’altro”.
Ciò posto va subito detto che le dichiarazioni di Grigoli Salvatore, autoaccusatosi di avere personalmente ucciso il sacerdote e chiamante in causa dei mandanti e dei partecipi all’esecuzione del crimine, risultano assistite da elevata attendibilità intrinseca ed estrinseca secondo i criteri direttivi di disamina affrontati dalla Suprema Corte di Cassazione e riportati in altra parte della presente sentenza.

 

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