Don Pino che andava incontro alla morte

Gli elementi probatori acquisiti nel corso di una lunga ed accurata istruzione dibattimentale, siano essi costituiti da attività di investigazione tradizionale che da convergenti, molteplici e significative propalazioni dei singoli collaboratori, consentono di confermare il giudizio relativo alla penale responsabilità dei tre imputati in ordine al reato associativo nelle forme e con le aggravanti di cui alla impugnata sentenza.
Non vi è dubbio alcuno, infatti, che, come già detto, entrambi i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, fossero, tradizionalmente e stabilmente inseriti nell’organizzazione criminale «Cosa Nostra», ed in particolare in quella articolazione locale operante nel famigerato quartiere di Brancaccio, con posizione preminente di organizzazione e di direzione di quell’assetto mafioso.
Dalle dichiarazioni convergenti dei collaboratori di giustizia, che hanno trovato pieno riscontro negli accertamenti investigativi, poi, risulta acclarata l’esistenza, in seno a detta organizzazione mafiosa, di una formazione militare costituita da un gruppo di uomini ferocissimi, con a disposizione armi potentissime, pronti a commettere qualsiasi tipo di crimine, e con una sede come base operativa per torture, scomparse ed assassini, la così detta «camera della morte».
Ebbene, i fratelli Graviano, in quanto dominatori incontrastati del quartiere, si avvalevano della forza di intimidazione insita nel vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere i più svariati reati connotati dal comune denominatore di procacciare entrate finanziarie e mantenere saldo il predominio nel quartiere; per acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici in genere; per realizzare profitti ingiusti; per impedire od ostacolare il libero esercizio del diritto di voto e per procurare voti a determinate persone in occasione di consultazioni elettorali.
Le molteplici attività delinquenziali svolte anche con uso delle armi nell’interesse del sodalizio dai membri e dagli affiliati, pur sotto la direzione ed il controllo dei sopra menzionati due congiunti, ampiamente e con dovizia di particolari descritte dai collaboratori di giustizia, danno contezza dei metodi propri di «Cosa Nostra», secondo la descrizione del reato associativo di stampo mafioso operata dall’articolo 416 bis del Codice Penale, usati dalla famiglia mafiosa di Brancaccio, disturbata dall’opera incessante di lotta verbale e attivamente fattiva di padre Puglisi, volta ad affrancare quel quartiere dallo stato di soggezione e di degrado.
In altra parte della presente sentenza è stata ricostruita la figura specifica dei due congiunti, specie con riguardo al loro paritario ruolo direttivo ed organizzativo all’interno della compagine mafiosa in cui sono stati inseriti, a prescindere dall’attribuzione di qualsiasi qualifica o carica formale di capo-mandamento o capo-famiglia.
Entrambi i fratelli, infatti, sono stati univocamente indicati, quali dominatori incontrastati dell’aggregato criminale di Brancaccio, non soltanto da parte di tutti i collaboranti ascoltati ma anche da parte degli investigatori che hanno condotto in quello scacchiere mafioso accurate ed approfondite indagini all’indomani dell’uccisione di don Pino Puglisi.
Giuseppe Graviano, libero e non ancora latitante, capeggiava il «gruppo di fuoco», composto da ferocissimi killer e creato per la commissione dei più svariati reati finalizzati a procacciare entrate finanziarie e mantenere saldo il predominio nel quartiere.
Filippo Graviano aveva anch’egli un ruolo preminente nel sodalizio mafioso, pur svolgendo prevalentemente, ma non esclusivamente, mansioni più strettamente inerenti alla gestione finanziaria delle varie attività delinquenziali della famiglia.
Il suo ruolo dirigenziale è tanto importante al punto che gli affiliati non sono in grado di distinguere la posizione dell’uno e dell’altro ed enunciano una sorta di comunanza indistinta di ruoli, sia in virtù del rapporto di fratellanza che lega i due, sia soprattutto a causa della consapevolezza che la volontà dell’uno possa non coincidere con quella dell’altro.
Per cui, è la volontà indistinta dei «picciotti» che ogni volta viene manifestata esteriormente per la realizzazione degli intenti criminosi dei due fratelli.
Da tutti gli elementi di prova versati in atti, poi, risulta, in maniera incontrovertibile, che i due congiunti più volte sopra menzionati, pur durante la loro detenzione e pur sottoposti al regime carcerario di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, non hanno per nulla reciso i collegamenti con l’organizzazione criminale «Cosa Nostra», e, in particolare, con quella articolazione locale operante nel quartiere di Brancaccio da loro reso famigerato.
Anche dopo la loro cattura, infatti, i due fratelli continuavano a trasmettere ordini dal carcere e ad impartire precise disposizioni relative alla gestione familiare delle azioni criminose, che venivano puntualmente eseguiti dal loro «alter ego» e luogotenente sul campo Mangano Antonino.
Ed invero, come già detto in altra parte della sentenza, a seguito della cattura di Bagarella Leoluca, è stata rinvenuta nell’abitazione del Mangano una copiosa corrispondenza epistolare tra quest’ultimo e Graviano Giuseppe, nella quale si parla, tra l’altro, di attività illecite compiute nell’interesse e per le esigenze dell’organizzazione criminale del mandamento di Brancaccio, con espliciti riferimenti anche a nomi e pseudomini di soggetti inseriti o vicini alla organizzazione medesima.
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte, adunque, l’assunto difensivo, sostenuto nei motivi dedotti a sostegno del proposto gravame, secondo cui Graviano Filippo, relativamente al reato associativo, dovrebbe essere «mandato esente da responsabilità», quanto meno in ordine alle circostanze aggravanti contestatigli al riguardo, va disatteso perché del tutto privo di fondamento logico giuridico.
L’appello concernente il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, pertanto, va disatteso e l’impugnata sentenza confermata sul punto.

Del pari confermata va la sentenza emessa dalla Corte di Assise di primo grado in ordine alla ritenuta responsabilità di Graviano Giuseppe per il delitto di violenza privata aggravata, mentre nei confronti di Filippo Graviano va affermata la pena responsabilità anche relativamente a detto delitto.
Ed invero, tra le molteplici gravissime attività delinquenziali poste in essere dagli affiliati alla cosca mafiosa capeggiata incontrastatamente dai due congiunti sopra menzionati, sempre sotto la direzione ed il controllo degli stessi, bisogna pur annoverare le violenze e le minacce, esercitate anche attraverso l’uso di attentati incendiari, per costringere i componenti del Comitato Intercondominiale di Via Azolino Hazon, nelle persone di Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario, a desistere dalla loro attività di impegno politico e sociale, portata avanti instancabilmente con l’aiuto, non soltanto spirituale ma anche economico, del povero parroco della chiesa di San Gaetano.
Anche tali attentati, infatti, secondo quanto riferito soprattutto dal Grigoli, rientravano nella strategia volta a scoraggiare padre Puglisi ed i suoi più stretti collaboratori dall’intraprendere iniziative ritenute pregiudizievoli per la famiglia di Brancaccio secondo la perversa logica mafiosa.

Per quanto concerne il delitto di omicidio in danno del povero padre Puglisi ed il connesso reato in armi, l’impugnata sentenza va parzialmente riformata nella parte concernente l’assoluzione da detti reati dell’imputato Graviano Filippo, ferma restando la penale responsabilità al riguardo affermata dai giudici del primo grado di giudizio sia nei confronti del Graviano Giuseppe che nei riguardi di Grigoli Salvatore.
Ed invero, come già ampiamente detto prima, da una attenta ed accurata disamina di tutte le emergenze processuali, siano esse costituite da propalazioni dei singoli collaboratori – primo fra tutti Grigoli Salvatore, autoaccusatosi di avere personalmente ucciso il sacerdote – che da attività di investigazione tradizionale, è dato affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’omicidio di padre Giuseppe Puglisi rispondeva ad una concreta esigenza, dal punto di vista criminale, della famiglia mafiosa di Brancaccio, capeggiata, all’epoca dei fatti, dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, indiscussi dominatori del quartiere, i quali hanno ideato e deciso insieme il crimine, trasmettendo il relativo «comando di uccidere» a Mangano Antonino, loro stretto collaboratore e luogotenente, che dirigeva sul campo l’attività operativa del sodalizio.
Non vi è dubbio alcuno, infatti, che, come già pure detto, la posizione preminente in seno al sodalizio criminoso operante nel quartiere di Brancaccio, pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere , era di entrambi i fratelli, Giuseppe e Filippo Graviano, i quali di fatto svolgevano insieme, in posizione paritaria ed in maniera incontrastata, funzioni di organizzazione e di direzione di quell’assetto mafioso.
Pertanto, l’interesse alla eliminazione di quel prete tanto scomodo quanto coraggioso e battagliero coinvolgeva tutti e due i fratelli e non soltanto Giuseppe, come inopinatamente ritenuto dai primi giudici, stante la evidente utilità per entrambi a far tacere un esponente del clero siciliano, impegnato da anni nel sociale, pronto a combattere ogni forma di sopruso e di prevaricazione, e, conseguentemente, l’utilità al consolidamento del sistema di potere criminale e di terrore in un quartiere degradato ed emarginato, fortemente intessuto di complicità, silenzi ed omertà.
Ed invero, padre Giuseppe Puglisi era considerato un esponente di punta del clero locale, in quanto aveva trasformato la sua parrocchia in una prima linea nella lotta al potere mafioso imperante nel quartiere di Brancaccio, educando i giovani e le famiglie ad un quotidiano impegno sul territorio, valorizzando gli spazi di aggregazione e moltiplicando le occasioni d’incontro con la gente della borgata.
Per questo era un uomo pericoloso, perché capovolgeva le regole atavicamente accertate e indiscusse ed insidiava il controllo delle persone e del territorio su cui si basa il potere mafioso.
Per tale ragione i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, incontrastati capi di quell’assetto criminale – ed il loro luogotenente Mangano Antonino, che dopo l’arresto dei due congiunti aveva preso il loro posto – avevano tutto l’interesse, manifestato in più occasioni, di mettere a tacere per sempre una persona giudicata «scomoda», secondo la perversa logica mafiosa, in quanto con il suo attivismo contrastava il perseguimento dei loro sporchi scopi delittuosi per approdare ad una comunità civile la quale si facesse artefice di un processo di liberazione spirituale e sociale.
Alla luce di tali considerazioni è da escludere l’idea che il Filippo potesse avere rispetto al fratello una diversa opinione sul modo di arginare l’attività antimafia del sacerdote. Tanto basta, sicuramente, in ossequio ai principi inderogabili vigenti nell’organizzazione criminale «Cosa Nostra», per affermare, con assoluta certezza, il coinvolgimento, quali mandanti, di tutti e due i mafiosi più volte sopra citati in ordine all’uccisione di Padre Puglisi, come reclamato a viva voce dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore Generale, sul rilievo fondamentale che l’eliminazione del sacerdote rispondeva all’esigenza di sopravvivenza della stabilità criminale della famiglia di Brancaccio, i cui capi, all’epoca, erano, di fatto, appunto Giuseppe e Filippo Graviano, indiscussi dominatori di quello scacchiere mafioso.

Trattandosi di episodio maturato in un contesto mafioso, invero, vige la rigorosa regola comportamentale che nessun omicidio può essere commesso nella zona di influenza di una determinata famiglia senza la decisione o, quanto meno, senza il consenso del vertice della famiglia stessa.
A tale principio, che, si badi bene, nel sistema dell’organizzazione mafiosa ha un valore assoluto ed inderogabile, specie se trattasi di un
«omicidio eccellente», nel caso di specie, si aggiungono le precise ed articolate dichiarazioni del collaborante Grigoli Salvatore – il carnefice di don Pino, colui che ha premuto il grilletto dell’arma che ha ucciso un uomo giusto – le quali indicano, in maniera puntuale, nei «picciotti», sicuramente individuati nei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, le persone dalle quali è partito l’ordine scellerato di uccidere il coraggioso sacerdote, trasmesso all’intermediario che si è incaricato dell’organizzazione e della coordinazione della squadra esecutiva.
E, si è visto come dette propalazioni siano assistite da elevata attendibilità intrinseca ed estrinseca secondo i criteri direttivi di disamina affermati dalla Suprema Corte: sotto il profilo «intrinseco», per la coerenza e la costanza del racconto, sotto il profilo «estrinseco», perché riscontrate da numerosi elementi esterni, quali le modalità del fatto, gli accertamenti di polizia giudiziaria e le dichiarazioni convergenti di molti altri collaboranti.
Le volontà dei due fratelli nella ideazione e decisione dell’efferato crimine, come pure già detto prima, non possono essere state che
«convergenti» sino al punto di unificarsi: ed invero, l’uccisione di un esponente di punta del clero isolano, divenuto ormai un «personaggio» per il suo instancabile, quotidiano ed incisivo impegno antimafia sul territorio, nel tentativo di attuare un processo di rigenerazione del tessuto sociale, per troppo tempo assoggettato alla signoria mafiosa, era un fatto così eclatante e di tale gravità da richiedere un accordo decisionale tra i vertici di quella famiglia mafiosa della periferia della città di Palermo, che, all’epoca, incontestabilmente ed incontrastatamente, si identificavano appunto nei due fratelli Graviano.

La determinazione di uccidere un esponente di punta del clero siciliano, invero, era un fatto così eclatante ed inaudito che non si poteva esaurire nel singolo, ma che richiedeva necessariamente l’assenso di entrambi i fratelli stante la loro incontrastata «leadership».

Don Giuseppe Puglisi sapeva di andare incontro alla morte, ma trovò il coraggio di andare avanti nella sua missione, tra minacce e intimidazioni, ed era disposto anche al sacrificio della vita pur di raggiungere il suo scopo: lo rivelano i suoi discorsi e le sue omelie domenicali, lo ricordano i suoi amici più fidati ed i suoi più stretti collaboratori.
La consapevolezza del suo martirio si coglie nelle parole del suo killer, reo confesso. Grigoli Salvatore, infatti, racconta di essere rimasto colpito, quella sera del 15 settembre 1993, dal sorriso sul volto della sua vittima, che accolse quel proiettile nella nuca con un inequivocabile «me l’aspettavo».
I suoi collaboratori ricordano di averlo avvertito più volte di fare attenzione, di non «pestare troppo i piedi» alla temibile e famigerata cosca mafiosa di quella borgata. Ma lui, spirito indomito e caparbio, rispondeva sempre: «il massimo che possono fare è ammazzarmi. E allora? Io non posso tacere.»
Come se la morte non gli facesse paura, neppure quando gli attentati intimidatori si ripeterono a catena contro di lui e contro i suoi amici e sostenitori: porte di casa bruciate ai volontari, aggressioni per strada e minacce varie.
Don Puglisi stesso si trovò le ruote dell’auto tagliate e un labbro spaccato: ma lui sdrammatizzava sempre e continuava a fare il proprio dovere, mettendo sempre al primo posto evangelizzazione e promozione sociale.
Negli ultimi tempi, però, questo prete che quotidianamente stava con gli ultimi anche «al di fuori dell’ombra del campanile» della sua parrocchia e che chiamava Cristo «Paparino», questo sacerdote che si opponeva sempre ad ogni forma di intimidazione e di sopruso, tant’è che veniva definito dalla stampa «prete antimafia», impediva agli amici e ai suoi collaboratori di andarlo a trovare nelle ore serali e sovente soffermava le sue riflessioni spirituali sul tema della morte, nella consapevolezza, forse, del suo martirio annunciato.
Tanti episodi fanno pensare, infatti, a un don Pino consapevole di andare incontro a morte violenta, dalla battuta al medico che si occupava di autopsie («quando toccherà a me stammi vicino»), alla fretta che gli faceva per battezzare il figlio («non ci rimane più molto tempo»), alla risposta data alle preoccupazioni della suora che lo assisteva «non ho paura di morire, se quel che dico è la verità». E fu ucciso dai mafiosi la sera del 15 settembre 1993. Il riconoscimento del martirio da parte della Chiesa, quindi, non potrebbe essere altro che un suggellare ciò che di fatto già viene riconosciuto.

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