Tp24 su Paolo Borrometi e la sua ennesima trovata: quando il giornalismo antimafia arriva ad inventarsi un film

A seguire potete leggere una nostra riflessione sulle ultime presunte minacce di morte, con relativa levata di scudi, a livello mediatico e politico, a protezione del giornalista Paolo Borrometi.

Secondo una libera interpretazione dei soliti ‘professionisti dell’antimafia’, rispetto a quanto si legge in un’ordinanza di arresto di 23 componenti di una cosca mafiosa di Canicattì, se un boss di mafia si rivolge ad un avvocato, per querelare il Borrometi, vicedirettore dell’AGI, l’agenzia di stampa dell’ENI, quella denuncia penale diventa una minaccia. Se poi il boss ha pure paura e scappa, per sfuggire a quel giornalista che in un suo libro ha fatto il suo nome, se scappa per sfuggire alle sue attenzioni, ed allora vuol dire che stava elaborando un piano criminoso contro quel giornalista. Mah! Staremo a vedere. La cosa infatti è diventata così importante al punto tale da convocare, con somma urgenza, il Borrometi davanti alla Commissione Nazionale Antimafia. E non è la prima volta che il Borrometi denuncia questo genere di intimidazioni che poi, puntualmente, da parte delle Autorità Giudiziarie, non sono state suffragate da riscontri probatori. Ed in questo caso l’elenco sarebbe lungo. Ma anche l’elenco dei procedimenti penali per presunta calunnia e diffamazione a carico del Borrometi è altrettanto lungo. Il Borrometi è solito ormai gridare sempre ‘al lupo al lupo’. Egli ha fatto sempre notare che il suo nome è in cima ai pensieri della mafia. È condannato a rivestire i panni del giornalista super perseguitato. Spesso lo fa anche a sproposito e si becca non solo delle querele, ma anche dei rinvii a giudizio per essersi fatto, come è avvenuto in quest’ultimo caso, dei film che non esistono. Additando persone e fatti che poco o nulla c’entrano con le minacce di cui lui, sempre e comunque, parla. Pur di avere la ribalta mediatica, pur di apparire, a tutti i costi, a RAI 1, RAI 2, 3, 4 e 5 e così via, ed i tutti i TG ed i programmi di intrattenimento delle TV nazionali, non sa cosa tirare fuori, pur di dimostrare che la mafia ce l’ha a morte con lui. Anche quando la mafia lo querela e si nasconde. Anche quando è la mafia ad aver paura di lui, lui continua a sostenere che è in grave pericolo di vita. A noi ci dispiace tanto. Il Borrometi è costretto a vivere dentro un’ampolla super scortata, per delle sue ingiustificate manie di persecuzione. È sconvolto, è stravolto dai fantasmi della mafia. La sua vita si è trasformata in un eterno incubo, a causa dei psicodrammi che assalgono la sua mente notte e giorno. A questo punto ci rivolgiamo allo Stato, a chi gli garantisce, dal 2014 ad oggi, una scorta armata. Liberatelo per favore. Ditegli che nessuno ce l’ha con lui. Ditegli che anche la mafia, quella vera, come emerge dalle intercettazioni, non lo ho mai minacciato. Piuttosto preferisce querelarlo per diffamazione ed altro, semplicemente perché di lui non gliene frega niente e non ha nessun motivo per temerlo e tanto più per minacciarlo o, ancor peggio, per preparargli degli attentati, come è stato già peraltro dimostrato, con carte giudiziarie alla mano, dal Tribunale di Catania e da quello di Ragusa per altre bischerate analoghe.

Adesso leggiamo quanto riportato dal quotidiano online Tp24…

“In realtà si tratta di un’interpretazione fuorviante, che viene legittimata da giornali come il Corriere che neanche si prendono la briga, come abbiamo fatto noi, di leggere l’ordinanza”.

Il quotidiano online Tp24 di Trapani, a proposito delle presunte intimidazioni che avrebbe subito il giornalista Paolo Borrometi, in un puntiglioso servizio ricostruisce i fatti, chiarisce e chiosa in questo modo:

“E quindi si arriva a questo punto. Minacce inesistenti. ‘Film mentali’ che vengono trasformati, nel racconto distorto, in “notizie riservate di cui il boss era a conoscenza”. Un giornalista che manifesta ansie e paure immotivate ma che guadagna il solito coro di solidarietà acritica. Un boss che si consulta con un legale e … scappa, perché intimorito proprio dal giornalista, tanto da cambiare città. Ecco a cosa si è ridotto il giornalismo “antimafia”.

I fatti contestati non riguardano in alcun modo Borrometi che, tuttavia, viene tirato in ballo da Simone Castello nel corso delle intercettazioni. Rivolgendosi a Giancarlo Buggea, altro mafioso arrestato, il 2 maggio 2019, Castello manifestava l’esigenza di recarsi a Licata o comunque di allontanarsi da Marzamemi a causa delle pressanti attenzioni rivoltegli dalle attività giornalistiche di Paolo Borrometi.

«Ma ce ne sono articoli, minchia…», riferiva Simone Castello a Giancarlo Buggea. «Questo qui, Borrometi, questo che è scortato… Questo, a parte il libro che ha fatto, lui ha fatto un post, pubblicato e riportato da La Sicilia di Catania».

Effettivamente, nel suo libro ‘Un morto ogni tanto’, Borrometi dedica un ampio paragrafo a Castello, quasi lo pedinasse: “La mattina, nelle belle giornate di sole a Marzamemi – scriveva Borrometi – Simone Castello esce di casa e passeggia con il proprio cane. Fra le sue soste frequenti quelle da Adelfio, ma anche all’esclusivo Yatch Club srl, un’attività che rientra fra gli interessi imprenditoriali di diverse famiglie molto note”, riportando poi la ricostruzione di intrecci societari e familiari, nonché presunte amicizie.

Il post a cui si riferisce Castello è invece del 20 marzo 2019. Paolo Borrometi, per promuovere il suo libro, raccontava ai suoi follower la mafia di Marzamemi e Pachino. “A Marzamemi, meravigliosa frazione balneare di Pachino in Sicilia, c’è la mafia che conta, ed è arrivato il momento di dirlo. […] Lì a Marzamemi […] ci sono i boss più importanti di cosa nostra. A pochi passi, a Pachino, il macello: sparatorie, tentati omicidi, attentati mafiosi ed uno dei clan più spietati che resistano in Sicilia”.

E continua: “A Marzamemi si è stipulato il “patto” della mafia che conta. Come scrivo da tempo, il clan Giuliano, violenta appendice del clan Cappello di Catania, è ciò che serve alla mafia palermitana e trapanese per coprire i propri affari. È qui che trovano riparo, tutti insieme, i più violenti capimafia della storia corleonese e trapanese. È qui che gli affari mafiosi diventano imprenditoria. […] La mafia qui è diventata invisibile per chi vuol far finta di non vederla. Eppure passeggia con i propri cani con le movenze sicure. Fa affari, tanti. […] E fra i nomi che cito, boss storici che hanno scelto queste latitudini per ritrovare la propria pace: da Leonardo Greco a Simone Castello (il postino di Bernardo Provenzano), fino alle tracce del fantasma Matteo Messina Denaro. Tutti qui a svernare. Tutti in pace. Tutti insieme. Ed a pochi chilometri si spara, tanto, tantissimo. E quegli spari servono ai boss che comandano (quelli veri) per distrarre l’attenzione dei cittadini, di noi giornalisti e degli inquirenti. Ma i boss che contano sono lì. Organizzano summit, cene in barca con i più importanti imprenditori nazionali e internazionali, decidono le sorti di molti politici, per poi scaricarli quando non servono più”.

Torniamo a noi. Borrometi «si mette e si fa i film…», continua Castello intercettato con Buggea. Attenzione, perché l’espressione, letta da un siciliano (che vive in Sicilia e capisce le cose di Sicilia …) ha un solo significato. Infatti “fare i film” significa farsi i  ‘film mentali’, come declinazione gergale popolare a indicare ‘fantasie cinematografiche’. Continua il mafioso, sempre su Borrometi: «Questo vuole fare un film e lo vuole fare sopra di me a quanto pare… E poi io che passeggio il cane, cose, cene nelle barche con imprenditori più grossi d’Europa, di tutto il mondo… Uno che lo legge dice: “Ma questo, ma che sta facendo? Di che cosa sta parlando? Un film… […] Siccome ha fatto prima il libro ora mira a fare il film, tipo Saviano…». Il riferimento a Roberto Saviano fa il paio con la carriera che Castello ipotizza si prospetti pure per Borrometi. Castello appare però rassegnato: «Io sono stato pure dall’avvocato», riferisce a Buggea. «Dice: “Che dobbiamo fare?”. “Che dobbiamo fare? – ho detto – .. niente, che dobbiamo fare? Però teniamo presente…”». Insomma, Castelllo appare rassegnato – altro che minacce – perché contro Borrometi non può nulla, glielo dice anche il suo avvocato.

E Castello continua: «…dice: “Perché, vede, se ci fai una querela e il Pubblico Ministero l’archivia non ce lo leviamo più di sopra…”. “No – gli ho detto – io non devo fare niente… lasciamo stare, vediamo gli eventi come vanno”. […] Ora ci stanno dando questa possibilità perché c’è qualcuno che (a Borrometi, n.d.a.) gli dà qualche dritta da lì … perché il fatto che questo sa che io passeggio il mio cane, cose… gliele possono solo dire… e c’è qualcuno, che secondo me per antipatia… ma siccome va associata… fa discorsi di associazione… tutti questi che hanno arrestato là… insomma, li mette come se avessimo fatto un patto loro con me… […] persone che io neanche conosco… e allora io mi sto spostando… Ho detto: “Me ne vado a Licata”, ho detto … ma invece, siccome… non può essere…». Non essendo riuscito a trovare una casa in affitto, Castello pianificherà il suo rientro a Villabate.

E’ interessante. Castello si sente troppo “attenzionato” dal giornalista Borrometi, perchè qualcuno gli passa, magari solo “per antipatia”, informazioni sulla sua vita privata, tanto da costringerlo ad andarsene via. Se un reato c’è, è la diffusione di notizie di indagine riservate, coperte pertanto da segreto istruttorio, che Castello ipotizza ai suoi danni. 

Questa è la narrazione chiara riportata agli atti. Non c’è nessuna intimidazione, nessuna minaccia. E film magari ce ne sono troppi, come abbiamo raccontato in altri casi analoghi e recenti, su Tp24, come il caso di Salvatore e Gabriele Giuliano.

Eppure, due giorni fa, Borrometi ha messo le mani avanti, in Commissione Nazionale Antimafia: «È un momento difficile in cui all’angoscia si aggiunge la preoccupazione per una violenta campagna di delegittimazione nei miei confronti. Un tentativo che spaventa, perché le minacce accanto a certa delegittimazione portano solo ad una direzione». Le ‘delegittimazioni’ a cui fa riferimento Borrometi saranno forse quelle del Presidente della Commissione Regionale Claudio Fava e dei colleghi che vorrebbero vederci chiaro sulla costruzione di questo ‘paladino dell’antimafia’? Borrometi ha precisato: «Nelle intercettazioni, Castello sa che mi avevano proposto di fare un film sul mio libro, una notizia riservatissima. Come faceva a sapere? Quel ‘noi teniamo presente…’ mi inquieta».

A inquietare sono invece le posizioni in suo favore dal Segretario Generale e del Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, dall’on. Walter Verini (PD), coordinatore del “Comitato per la tutela dei giornalisti minacciati”. Attestati di stima e di solidarietà arrivano anche dalla Fondazione Antonino Caponnetto (di cui Paolo Borrometi fa parte del Gruppo Stampa) e dall’OMCOM (Osservatorio Mediterraneo Criminalità Organizzata e Mafia) che tra i rappresentanti registra il nome dell’ex senatore Beppe Lumia, l’amico di Antonello Montante e Silvana Saguto. Riesumata dopo un anno sabbatico l’on. Giulia Sarti (M5S).

Su una vicenda inesistente si ricostruisce l’ennesima narrazione fuorviante. Ecco come Borrometi la racconta intervistato ieri dal Corriere della Sera:

«Castello nelle intercettazioni parla anche di un film che mi avevano offerto di realizzare che si basava su un mio libro».

Da quale suo libro avrebbe ispirato un film?

«Si volevano ispirare a “Un morto ogni tanto” ma io ho rifiutato la proposta e non ne ho parlato né a mio padre né ai miei migliori amici. Sono basito».

Come facevano allora gli arrestati a sapere del progetto?

«Spero che nel corso degli interrogatori, gli inquirenti troveranno modo di farsi spiegare come e da chi Castello era stato informato di questo progetto di pellicola».

 

In realtà si tratta di un’intepretazione fuorviante, che viene legittimata da giornali come il Corriere che neanche si prendono la briga, come abbiamo fatto noi, di leggere l’ordinanza.

E quindi si arriva a questo punto.  Minacce inesistenti. ‘Film mentali’ che vengono trasfrormati, nel racconto distorto, in “notizie riservate di cui il boss era a conoscenza”. Un giornalista che manifesta ansie e paure immotivate ma che guadagna il solito coro di solidarietà acritica. Un boss che si consulta con un legale e … scappa, perché intimorito proprio dal giornalista, tanto da cambiare città. Ecco a cosa si è ridotto il giornalismo “antimafia”. “

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