Concorsi pubblici e competenze, tra inganno e opportunità

Concorsi pubblici e competenze, tra inganno e opportunità
di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile
osservatorio dati professioni e competenze Aidr

L’evidenza empirica dimostra che un cretino qualsiasi, col tempo, se
addestrato a dovere, riesce a svolgere i lavori più disparati. Può
imparare anche a uccidere, e a farsi uccidere, se viene convinto di
essere dalla parte dei “buoni”, e che la guerra sia indispensabile per
vivere in pace, e che la violenza, esercitata per difendere una patria
esistente soltanto nella testa di chi l’ha creata, sia in qualche modo
“a fin di bene”. Questo semplice parallelismo dovrebbe indurre a
pensare che le politiche di reclutamento, attraverso le quali vengono
privilegiate principalmente verifiche nozionistiche, hanno bisogno di
un aggiornamento radicale. La pubblica amministrazione è composta da
persone, non da nozioni, e il funzionamento della macchina pubblica
dipende più che altro da quei lavoratori che possiedono un insieme di
caratteristiche difficilmente rilevabili nel corso delle procedure
selettive. È necessario, anzi, indispensabile, definire un sistema di
misura in grado di rilevare anche caratteristiche diverse: il livello
di consapevolezza, di maturità, di responsabilità, la capacità di
autonomia e di adattamento dei candidati. E, ancora, il senso critico,
la capacità di risolvere i problemi, l’autocontrollo, la capacità di
usare la logica, l’intùito, l’intelligenza e la sicurezza emotiva…
Questo tipo di valutazione, che riguarda le cosiddette competenze
trasversali, è il centro del progetto attorno al quale un datore di
lavoro dovrebbe costruire il percorso di scelta del lavoratore. Oggi
più che mai nella PA serve una visione prospettica del lavoro
attraverso la quale reclutare consapevolmente il personale. Personale
che presumibilmente resterà all’interno dell’organizzazione per un
arco temporale molto ampio, di cui ancora si ignorano gli
sviluppi.Trovare un buon programmatore Java, non è poi così difficile;
trovare un programmatore Java che sappia lavorare in autonomia,
ridurre i conflitti, trovare nuove motivazioni, seguire le
trasformazioni della società e adattarsi ai cambiamenti, mantenendo un
buon livello di curiosità e di partecipazione alle attività
istituzionali, è più complesso. Il relativismo illusorio delle
competenze è molto pericoloso e rischia di generare false aspettative
nella pubblica amministrazione, nei cittadini e nei candidati. Ormai è
più o meno diffusa l’idea che la competenza corrisponda alla capacità,
o meglio all’abilità, di svolgere un determinato compito; molto meno
diffusa è la consapevolezza di quali siano gli elementi che concorrono
a formare una certa competenza. Nel mercato del lavoro statunitense,
la parola competenza è il tassello di un mosaico molto più esteso che
prende il nome di skill. La skill, la cui traduzione letteraria è
abilità, è formata da un insieme complesso di fattori: esperienza,
training, conoscenza, capacità, crescita personale, apprendimento
continuo, training ed esperienza. Per questo, non è mai opportuno
confondere la parola skill con la parola competenza, la cui
interpretazione italiana, ridotta ai minimi termini, è “saper fare
qualcosa più o meno bene”.

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Nel corso delle procedure selettive, poi, la competenza, già privata
all’origine dei suoi veri significati, viene confusa col nozionismo.
Il risultato di questa confusione si palesa in tutta la sua
pericolosità nel momento in cui i lavoratori esauriscono la spinta
produttiva dettata dall’entusiasmo iniziale e diventano un problema
anziché una risorsa. Problema a carico della società per almeno
quarant’anni. Il grande inganno delle competenze è frutto di un
malcostume italico che ha radici molto lontane. Si può dire che
l’annebbiamento del buon senso sia iniziato quando il titolo di
studio, a cui è associata la certificazione formale di qualcosa che
spesso non è neanche paragonabile ai reali bisogni della società, è
stato valorizzato oltre il suo valore reale e privilegiato al punto da
renderlo più rappresentativo degli individui che rappresenta. Le
università, d’altronde, si sono trasformate in strutture
autoreferenziali, lontane anni luce dal mondo reale, in cui
l’insegnamento è una passerella su cui far sfilare personaggi di ogni
tipo, a seguito di una qualche competizione grottesca, che ha come
premio una cattedra da professore ordinario. Sono pochissimi i docenti
che insegnano per vocazione e associano allo studio il significato
etimologico della parola, studium, passione, amore, dedizione. Di
conseguenza, il sistema che dovrebbe plasmare gli individui, modellare
le coscienze, alimentare la consapevolezza e favorire il senso
critico, si è trasformato in un sistema di pseudo formazione in cui
le competenze sono un patetico esercizio di addestramento al
nozionismo. Si potrebbe obiettare che l’istruzione italiana mira a
fornire ai discenti le cosiddette hard skill, le competenze tecniche,
mentre le soft skill vengono demandate ad altri canali. Quali,
esattamente? La famiglia? Gli amici? L’ambiente di lavoro? Questa
distinzione, considerato l’impoverimento culturale e l’analfabetismo
di ritorno in cui siamo immersi, è pericolosissima. Piuttosto, ci
sarebbe da mettere in discussioni l’intero sistema Paese e chiedersi
se le modalità con le quali vengono accertate le “competenze” dei
candidati, in un concorso o durante un esame universitario, siano
realmente efficaci, considerando che esiste una valida teoria
sull’oblio, formulata da Hermann Ebbinghaus, in cui vengono descritti
scientificamente i meccanismi cerebrali attraverso i quali si
dimenticano le informazioni apprese. Una prova selettiva, o un esame
di fisica, o di chimica, o di ingegneria delle costruzioni, viene
ancora svolta attraverso una prova scritta temporizzata (spesso
sufficientemente difficile rispetto al tempo concesso e
sufficientemente facile se si avessero a disposizione tempi più
lunghi) e un colloquio orale. Siamo sicuri che questo sistema permetta
di valutare e selezionare nel migliore dei modi? Francamente, io non
lo credo. Il lavoro è un’entità complessa, che evolve, si trasforma, e
obbliga i lavoratori ad adeguarsi. Molto spesso, ed è questo il vero
nodo cruciale della PA, il lavoro viene adeguato ai lavoratori,
ritoccato al ribasso, con tutto ciò che ne consegue…
Se prendessimo l’abitudine di sottoporre ai candidati prove molto
complesse, nelle quali poter esercitare realmente le “skill” nella
loro interezza, forse qualcosa cambierebbe. Un problema complesso che
costringa i candidati a far ricorso a tutte le capacità che hanno,
capacità relazionali, senso critico e autocontrollo inclusi. Coi tempi
adeguati, s’intende. Senza far affidamento sulla memoria e senza
l’ipocrisia del “vietato copiare”. Perché nella vita reale funziona
esattamente così: non si risolvono i problemi “a tempo”. Ho un
problema? Voglio risolverlo? Leggo, ragiono, chiedo, mi informo,
provo, sbaglio, rifletto, provo di nuovo, sbaglio meglio, chiedo
ancora, studio, mi fermo, faccio altro, faccio una battuta, sorrido,
riprendo, discuto, mi confronto con gli altri, imparo, disimparo,
miglioro, scrivo, risolvo. In queste poche righe credo ci sia
l’essenza di ciò che dovrebbe “saper essere” il lavoratore pubblico.
L’accertamento delle competenze, in fin dei conti, passa attraverso
un cambio di paradigma: “saper fare” o “saper essere”? Questo è il
problema.