Processo Montante, il racconto dell’interrogatorio: la teoria del complotto e la sfida ai nemici

Il “petting” è durato quasi per quattro udienze. Una ventina d’ore di interrogatorio, qualche centinaio di pagine di verbali, qualche (meritato) titolo a effetto sui giornali. Eppure, per arrivare al “dunque”, bisogna aspettare l’ultima parte dell’interrogatorio di ieri. «Entriamo sui capi d’imputazione», ripete più volte Andreina Occhipinti, la presidente del collegio chiamato a giudicare Antonello Montante nell’appello a Caltanissetta. Quasi a voler dire, senza dirlo: il tempo sta scadendo, quando vuole cominciare a difendersi dalle accuse per cui è stato già condannato a 14 anni in primo grado?

Soltanto a questo punto, ieri pomeriggio, nell’aula-bunker del carcere Malaspina, comincia il vero esame dell’imputato eccellente. Durata effettiva: poco più di un’ora e mezza. Giusto il tempo di negare, a conclusione dell’esame-fiume dei suoi avvocati, tutti gli episodi e gli addebiti da capo dell’associazione a delinquere con cui l’ex paladino antimafia avrebbe commesso i reati di corruzione e di accesso abusivo ai sistemi informatici. «No, assolutamente no»: una sfilza di negazioni, senza quasi mai entrare nel merito. Se non per scrollarsi le responsabilità. Montante «ha fatto presente che tutti i presidenti di Confindustria facevano richieste di informazioni a Diego Di Simone (ex capo della Security di Confindustria nazionale, coimputato al processo, ndr) e poi lui faceva un resoconto sulla base di quello che aveva trovato ma la sua fonte di informazioni non la diceva a nessuno», rivela  l’avvocato Carlo Taormina a fine udienza.

Per misurare il peso processuale, basta cronometrare il controesame dell’accusa: poche decine di minuti, in cui il pg Giuseppe Lombardo (avendo già in cassaforte quintali di atti, non smentiti nell’appello di un rito abbreviato) vola tre metri sopra la coltre di fango disseminata in quattro udienze.«Visto che non s’è entrato sui capi d’imputazione – gongola il pg – mi limito a un paio di domande». Una riguarda il RiVisual, il sistema informatico camerale che la difesa di Montante ha sbandierato come strumento assimilabile allo Sdi usato dalla rete di “spioni” per depistare indagini e costruire dossier.

Ma che cos’è questo RiVisual? L’imputato balbetta. Deve intervenire il fido De Simone, con una dichiarazione spontanea, per spiegare il come e il perché. Lo “sbirro” assoldato in Confindustria, dopo che, secondo Montante, era stato segnalato dai magistrati Alfredo Morvillo e Giuseppe Pignatone, dal capo della polizia Antonio Manganelli e dal prefetto Giuseppe Caruso. De Simone era «il migliore, perché da noi garantiva la sicurezza anche di Gheddafi e Shultz». E poi, al di là della hall of fame della legalità e di qualche nome altisonante, poco altro ancora.

Il resto è tutto nel processo “virtuale”. Un panta rei in cui la corte, come succede nei processoni di mafia, dà l’impressione di voler far sfogare l’imputato. Parole, parole, parole. Le accuse ai nemici giurati (l’onnipresente Alfonso Cicero, l’ex assessore regionale Marco Venturi, il giornalista Attilio Bolzoni con fratello Pietro) e la matrice confindustiale, alias Pietro Di Vincenzo, di un «complotto» anti-Montante, per «fermare l’azione legalitaria». Un “sistema anti-Montante”, in cui il salto di qualità è rappresentato dalla presenza di «un magistrato e di qualcuno della squadra mobile».  Infine, l’ennesimo avvertimento: «Spero che le querele arrivino in tempi brevi così potrò smentire, documenti alla mano e non a chiacchiere, tutte le falsità dichiarate contro di me», afferma in aula riferendosi a politici e magistrati citati. Ma quanto può servire tutto ciò per ribaltare il verdetto di primo grado?

E allora è molto più antropologicamente rilevante, come ai tempi di Aldo Biscardi, il processo al processo. Il dopo partita. Con Montante che all’uscita si concede per qualche minuto ai cronisti. «Mi sono difeso affermando la verità. Basta dire la verità e uno è tranquillo. Credo ancora e sempre nella giustizia per cui io dico la verità poi per il resto che me ne frega».

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