I LAVORATORI DELLE MINIERE DI ZOLFO A GIRGENTI E PROVINCIA NELL’OTTOCENTO E NEL NOVECENTO: CHE SOFFERENZE!

La solfara o zolfara, in lingua siciliana pirrera, è una miniera di zolfo che può essere intesa sia come una vera e propria miniera, ma anche come un semplice scavo superficiale e più o meno esteso (cava), non va confusa con la solfatara. Il termine pirrera viene dal francese perrière.

Booker T. Washington, uno studioso americano disse: “Io non posso adesso sapere fino a che punto esista un inferno fisico nell’altro mondo, ma una miniera di zolfo in Sicilia è la cosa più vicina all’inferno che mi aspetto di vedere in questa vita”.

Un decreto dell’8 ottobre 1808 emanato da Ferdinando di Borbone eliminò il diritto di esclusiva da parte dello stato sul sottosuolo, eliminando l’obbligo della decima a fronte del pagamento una tantum di Lire 127,50 in cambio di nessuna contropartita da parte del proprietario del suolo. Questo decreto diede un impulso notevole allo sviluppo dell’industria mineraria siciliana, ma comportò una serie di conseguenze sociali ed economiche che caratterizzarono in modo marcato ed esclusivo lo sviluppo del territorio.

Con lo sviluppo dell’industria chimica in Francia e in Inghilterra, vi fu una grande richiesta di acido solforico per la produzione della soda ottenuta con il Processo Leblanc (1787), cosa questa che fece aumentare le richieste di zolfo.

Lo zolfo inizialmente era un materiale esportato secondario, esso era un riempitivo nel carico delle navi dopo il grano, il vino, le mandorle ed altro. Divenne poi a partire dal 1830 con l’aumentare della richiesta internazionali, il materiale di esportazione prevalente della Sicilia. Inizialmente vennero preferiti, per la vicinanza con i siti di produzione, i porti meridionali di Sciacca e Terranova oggi (Gela), successivamente quello di Porto Empedocle e quindi dopo qualche decennio diventò importante il porto di Catania a nord del quale sorsero varie fabbriche di raffinazione e lavorazione dello zolfo.

La scala gerarchica della miniera era la seguente:

– Proprietario della solfara

– Ingegnere

– Direttore

– Gabelloto

– Commissionario o capitalista sborsante

– Capomastro

– Pirriatura

– Spisalora

– Acqualora

– Scarcaratura

– Arditura

– Carrittera

Ed infine i “carusi”, addetti al trasporto del materiale solfifero dalla profondità delle miniera, dove veniva estratto dai picconieri (pirriatura), fino alla superficie della miniera all’esterno trasportando a spalla, su semplici canestri, pesi di alcune decine di kg. Di età compresa tra i 7 e i 18 anni, venivano arruolati con il metodo del soccorso morto dalle povere famiglie di origine. Lavoravano dall’alba al tramonto in piccoli gruppi alle dipendenze del picconiere che li aveva “arruolati”, senza alcun rispetto per la loro integrità e salute fisica.

LA MAFIA NACQUE NELLE MINIERE

Nel 2013 ricercatori dell’Università di Bergamo e Bologna hanno studiato in modo scientifico l’emersione del fenomeno mafioso in relazione alla grave mancanza del controllo del diritto di proprietà da parte dello stato. Lo studio sostiene che la forte domanda internazionale di zolfo favorì la domanda di protezione da parte dei privati proprietari, ma anche l’opportunità di appropriazione attraverso l’estorsione degli affitti, ciò avrebbe favorito in ultima analisi l’emergere delle organizzazioni mafiose che erano specializzate in tali attività estorsive. Il dato viene confermato con l’osservazione che i comuni con più alta disponibilità di zolfo furono i primi a mostrare attività mafiose.

Scriveva il poeta di Cianciana Alessio Di Giovanni a proposito dei minatori:

*** E vennu a la matina… Li viditi?

Pàrinu di la morti accompagnati!

Vistuti scuru, ca li cunfunniti

’Mmenzu lu scuru di li vaddunati… ***

Il buio, “lu scuru”, avvolge ineluttabilmente la vita dei minatori, così comeper il caruso Ciàula, il commosso protagonista della novella pirandelliana Ciàula.

Fino al 1901 non era prevista alcuna previdenza per i solfatari, nonostante i

vincoli della legge del 17 marzo 1898 n. 80 e il susseguirsi delle ordinanze deiPrefetti. Erano pochissime le miniere fornite di materiale di medicazioni e provviste di qualche pacchetto di cotone o di qualche fascia, la cui applicazione in caso di necessità era per lo più affidata a un fabbro o a un falegname.

Il lavoro nelle zolfare non era per niente ambìto perché notoriamente duro ed esposto a gravi pericoli. Molti fuggivano per l’empia reputazione morale che caratterizzava l’ambiente minerario dove confluivano frequentemente, anche se non

esclusivamente, i non accolti in altri settori lavorativi per carenti qualità morali o

intellettive. La società identificava il solfataro siciliano come figlio di un dio minore e, pur utilizzando i suoi servizi, il contributo che gli riconosceva in termini di considerazione sociale e personale era minimo e marginale.

Napoleone Colajanni tratteggiava così la figura del solfataro:

«Ha un misto singolare di buone e di cattive qualità: queste ultime sono conseguenza dell’abbandono in cui è stato lasciato, dell’assoluta mancanza di educazione morale e intellettuale, talchè il solfataro è spesso un uomo primitivo, amorale, che, offendendo gli altri e violando la legge, crede di poter eser-

citare dei diritti suoi. Ma, per sua natura, è generoso, non mai vile; si mostra pieno di coraggio e abnegazione nei frequenti casi di infortunio e compiemirabili atti di eroismo. […] si ribella e si vendica se viene trattato male e

con disprezzo. Generalmente è scettico, quasi misantropo e poco sensibile aiconforti e ai dolori della famiglia, per l’abitudine di viverci lontano».

Negli operai la percezione del rischio incombente era ben presente e temuta,

tanto che Mario Zurli testimonia che il lavoratore, quando al mattino si apprestava a scomparire nelle discenderie, gli indirizzava un saluto raccomandando di«volersi benevolmente prendere cura dei propri familiari nel caso in cui non fosse riemerso alla luce sano e salvo»; da direttore di miniera in quella quotidiana ritualità assumeva la veste affidabile e responsabile del riferimento affettivo: a lui anche il triste compito di comunicare alla famiglia l’eventuale disgrazia.

Come in questo breve resoconto:

«Non c’è più Calidduzzu di appena otto anni che insieme agli altri carusi impanottava gli sterri di zolfo per poi fonderli nei forni Gill e nei calcaroni. Non c’è più Menicu u carusu che dopo aver percorso trecento metri, dai fondali della miniera con il sacco pieno di zolfo sulle spalle,arrivava all’esterno sfinito dalla fatica, scaricava il pesante fardello e,ricurvo e ingobbito, riscendeva ancora una volta nel sotterraneo».

IN GERMANIA I MINATORI ERANO RISPETTATI

La Germania era ammirata e invidiata per la cura costante che dedicava nell’attenuare i disagi di quell’immenso proletariato sia con gli strumenti del lavoro stesso che con altre organizzazioni sociali che rendevano la vita più gradevole. Oltre alla comodità degli alloggi, i gestori delle miniere tedesche erano atten-

ti a garantire l’alimentazione più idonea e ad offrire sollievo e ristoro al lavoratore a conclusione della faticosa giornata.

Ogni operaio con la propria famiglia disponeva di una casa; nel residence per celibi vi erano grandi sale da pranzocon cucine e celle frigorifero per la conservazione igienicamente corretta delle carni. La consumazione dei pasti era allietata da pezzi di musica di un grande

organo-orchestra.

Un diario settimanale stabiliva il menù con la quantità e laqualità dei cibi: carni, ortaggi, legumi e verdure erano prodotti dalla stessasocietà mineraria. Nelle colonie tedesche alloggio, vitto, acqua, riscaldamento,luce, tutto compreso, non costavano al minatore più di 75 centesimi al giorno in estate e 80 in inverno.

In Sicilia non vi era nulla degli agiati servizi garantiti ai minatori tedeschi eaddirittura erano pochissime le zolfare provviste di acqua potabile, peraltro attintaai pozzi, trasportata con recipienti di legno e conservata in brocche di terracotta.

In prossimità delle miniere mancavano fontane e lavatoi per l’igiene personale e degli indumenti; l’acqua scorreva in abbeveratoi dove liberamente potevano accedere animali di ogni genere, selvatici, domestici e randagi, mentre la piovana,immagazzinata nell’inverno, era priva della garanzia di potabilità. Gli alimenti

erano custoditi in luridi cenci di stoffa e non sufficientemente protetti da polveree insetti.

I carusi consumavano il pasto sbocconcellandolo lungo le discenderie,

con le mani sporche di terriccio ed escrementi, senza orario e in assenza di quei momenti di socialità di cui godevano gli operai della Germania: altra musica!

Il salario medio di un operaio siciliano era minimo e addirittura un quarto rispetto

a quello della Louisiana e della Rhodesia, ma sempre inferiore a quello di altri siti

minerari italiani. Il confronto tra il prezzo dei generi di prima necessità, il paniere economico e il salario dimostravano l’assenza di condizioni di garanzia per una sufficiente alimentazione, il che condizionava la differente assunzione di calorie trale varie classi di operai.

È drammatico, infine, il grido di protesta contenuto nella lettera denuncia dell’11.02.1891 a firma di circa 200 picconieri della zolfara Castrogiovanni, indirizzata al Ministro dei Lavori Pubblici per denunciare la sproporzione tra fatica e congruità alimentare:

«… dopo 8 ore di maneggiare un piccone di Kg. 7 ci tocca un tozzo dipane da mangiare e bere un litro d’acqua…. […] Non è da credergli vedere il terribile spettacolo uscire dalle caverne ragazzi di 12-13 annicol carico di ca. 60 kg percorrendo un sentiero disastroso e montuoso, al buio. Tutti i giorni succedono infortuni, chi si rompe una gamba, chi un braccio, chi stremato di forze resta sotto il peso enorme, chi rimaneschiacciato dai massi. Vedere questi ragazzi nudi, scalzi, pallidi, scarni, irti e ispidi i capelli che fanno parità alle stesse pietre…».

Tratto da Wikipedia e dal libro “Cercavano la luce” di Renato Malta.

Altre foto nei commenti.

Foto di Fosco Maraini/Alinari

Altre immagini tratte dal web

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