Ciotti e le 26 telefonate di Montante: un silenzio scabroso e pieno d’ombre, interrotto nel processo in corso a Ragusa

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Nell’articolo precedente abbiamo documentato, analizzato e cercato di chiarire in ogni aspetto, utilizzando tutti gli elementi conoscitivi disponibili, la prima annotazione del nome del presidente di Libera Pio Luigi Ciotti nel diario segreto di Antonio Calogero Montante, quell’ingegnoso impostore riuscito per un decennio a spacciarsi, ai suoi tanti entusiasti ‘consumatori’, come icona antimafia mentre da trent’anni era nel cuore di un boss mafioso ed è, dal 2014 e tuttora, accusato di concorso in associazione mafiosa dal 1990.

Nelle carte che custodiva in un armadio segreto Montante conservava ogni cosa – soprattutto corrispondenza, incontri e favori resi – per poi pretendere controprestazioni, a volte anche minacciando, ricattando e, all’occorrenza, commissionando – ai capi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti facenti parte della sua cricca criminale – falsi dossier contro i nemici da colpire: ‘colpevoli’ di essere persone oneste, estranee e impermeabili ai suoi traffici.

Per comprendere bene il valore e i limiti di questo imponente materiale, possiamo rileggere quanto scritto da Angelo Venti e Claudio Abruzzo il 24 agosto 2018 su Site.it, il sito che per primo ha svelato il contenuto dell’armadio segreto, nascosto da una parete, in una delle ville di Montante.

<<Si tratta di un corposo file excel con annotati nomi, date, appunti di lavoro e incontri che, quando il 22 gennaio 2016 gli inquirenti perquisiscono una ventina di case e uffici di Montante, la sua collaboratrice tenta di distruggere. Il diario – si legge – viene sequestrato nella villa di Serradifalco, dove viene scoperto un bunker contenente un corposo archivio cartaceo ed elettronico in cui trovano di tutto: telegrammi, e-mail, sms, regali e contributi concessi, foto con ministri, politici e capi della polizia, oltre a circa 40 dossier su politici, magistrati, giornalisti e un memoriale di più di mille pagine. Un bunker che nelle intercettazioni Montante chiama così: “La stanza – diciamo – della legalità”. Nel suo diario Montante annota con scrupolo quasi maniacale incontri, telefonate, pranzi, colazioni, cene, segnalazioni, richieste di favori e regalie varie ai personaggi più disparati, anche di peso: una sorta di agenda personale che parte con un appunto del 6 agosto 1848, data della nascita del suo trisavolo Calogero Montante, e arriva fino al 26 ottobre 2015.Quella che svelano le circa 250 pagine del documento è la fitta ragnatela di relazioni di alto livello intrattenute da Antonello Montante con politici, imprenditori, prefetti, alti funzionari dello Stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati, giornalisti, personaggi pubblici ed esponenti dell’antimafia>>.

Qui ci interessano i rapporti di Montante con Ciotti e, dopo avere esaminato nell’articolo precedente la prima delle annotazioni (la visita e il pranzo in azienda ad Asti il 26 aprile 2014), passiamo alla seconda che ci porta al 27 gennaio 2015: <<al 05-02-15 ho tel Don Ciotti 26 tel. Senn>> si legge nel diario di Montante. Come già chiarito in occasione della notazione precedente ‘Senn’, nell’interpretazione degli inquirenti che hanno decriptato un imponente materiale documentale, sta per segnalazione.

Nella riga immediatamente sottostante quella relativa al 27-01-15, ce n’è una il giorno successivo, 28-01-2015, avente questo contenuto: <<il Ministero degli Interni con prot. n. 11001/113/15 mi comunica l’avvenuta nomina a componente del Consiglio Direttivo dell’Agenzia dei Beni Confiscati-ANBCS, in riferimento al DPCM dell’01-12-14 a firma del capo di gabinetto Luciana Lamorgese>>.

Per la cronaca quello stesso giorno ci sono altre annotazioni come quella riguardante un incontro dalle ore 18 alle ore 19 con Arturo Esposito, allora capo di Stato maggiore dell’Arma dei carabinieri e direttore dell’Aise, l’Agenzia informazione e sicurezza interna, la struttura di vertice dei servizi segreti italiani con cui Montante coltiva un intreccio maniacale e spericolato a copertura dei suoi affari e delle sue scorribande di ogni tipo. Esposito è accusato di associazione per delinquere ed altri reati in un processo in corso con rito ordinario, scaturito dalla stessa inchiesta ‘Double face’ che ha già visto con rito abbreviato la condanna di Montante e di altri imputati.

Le date sono importanti perché forniscono indizi sul perché e sul fine di quegli appunti quando esse non contengono elementi più espliciti inseriti dallo scrivente.

Montante quindi fissa un dato: in dieci giorni, dal 27 gennaio al 5 febbraio 2015, telefona 26 volte a Ciotti. E se vi fossero dubbi sul perché di quest’annotazione, è lo stesso Montante a spiegarlo facendo riferimento alla sua nomina nel consiglio direttivo dell’Anbsc, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Null’altro rivela il documento, neanche se Ciotti abbia risposto alle telefonate, ma tutto lascia credere che non lo abbia fatto perché la nota di Montante si esaurisce nel dato delle 26 telefonate fatte.

Il problema è che per oltre sei anni Ciotti – il presidente di Libera, ‘Associazioni, nomi e numeri contro le mafie’ la quale nella trasparenza, nella verità, nella giustizia e nella lotta alla mafia e al crimine ha la sua ragion d’essere – è stato in silenzio. E, incredibilmente, non ha mai avvertito il bisogno di confermare, o se del caso smentire – ed eventualmente chiarire e spiegare – quelle 26 telefonate di Montante.

In pubblico non risulta ancora alcuna sua dichiarazione sul punto. Tale non si può ritenere l’affermazione fatta il 5 gennaio 2019 a Catania, dove si commemora Pippo Fava nel 35° anniversario del suo assassinio per mano della mafia: «Prima che uscisse l’articolo di Repubblica – racconta Ciotti nell’occasione dinanzi a microfoni e telecamere – avevamo segnalato a palazzo Chigi le perplessità sul ruolo di Montante nell’Agenzia dei beni confiscati, ma il governo non ci prese in considerazione». Come si può ben vedere, nessun riferimento alle 26 telefonate.

Il silenzio cade nel processo in corso dinanzi al Tribunale di Ragusa, da lui intentato contro la libera stampa ‘colpevole’ di analizzare fatti, porre domande, suscitare dubbi, stimolare la riflessione ed esprimere un pensiero critico: processo nel quale, come riferito negli articoli precedenti, imputato sono io.  Durante l’esame testimoniale del 14 luglio 2021 Ciotti per la prima volta si esprime sul punto, confermando la veridicità di quell’annotazione, ovvero le 26 telefonate ricevute, e precisando di non avere risposto.

Per l’esattezza in udienza, rispondendo alle domande del pubblico ministero, si esprime così (testuale, come da verbali): <<… In realtà lui avrà una serie di telefonate a cui io non rispondo e grazie a Dio ci sono ancora nei telefonini no? Quando restano le tracce, io non rispondo, non rispondo, non rispondo e non ritengo di dover rispondere a questo signore no? Ecco queste pressioni, ma l’insinuazione e quindi questo falso sostenere quanto dice Guidotto, questa insistente pressione di quest’ultimo abbia contribuito a fare nominare Montante membro del Consiglio Direttivo dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati ma immaginate voi se io devo andare a fare no, che non ci appartiene. Non solo, non solo, ma esattamente devo dire che il 10 dicembre del 2014 alle sette e trenta io sono a Palazzo Chigi a chiedere al Presidente del Consiglio dei Ministri la cortesia perché l’Agenzia Nazionale portata avanti in quel momento da un Prefetto, io non voglio giudicare nessuno ma non funzionava, non era efficace, non faceva quello che doveva fare, era sotto organico, mancavano delle figure competenti e in quella sede il Presidente Consiglio mi dice “Ma qui insistono che il signor Montante diventi membro di quest’Agenzia, tu cosa ne pensi?”, io dirò che per quello che mi riguarda non era compito mio, era inadeguata (inc.) quella professione, non c’è bisogno, l’Agenzia aveva bisogno di ben altro, ciò che poi abbiamo insistito anche dopo. Quindi se c’è qualcuno che ha preso posizione per dire “Guardate che non va bene tutto questo, lì c’è bisogno di altro”, tanto è vero che due giorni dopo l’ufficio legale chiamiamolo così, legislativo di Palazzo Chigi chiama il referente di Libera, a Davide Patti che si occupa di beni confiscati ai fini della rinascita e che gli viene chiesto ancora un parere dice “No noi di Libera primo non abbiamo titolo per intervenire, secondo è inadeguato fare tutto questo”, se c’è una realtà che ha preso posizione, lo dico con rispetto e anche con umiltà, sentirsi dire che noi abbiamo fatto affari con questo signore mi sembra molto e molto scorretto>>.

Rispondendo poi alla domanda della parte civile <<Ha mai avuto finanziamenti per progetti particolari che ha fatto Libera da parte diciamo della Confindustria, di Montante in particolare?>> Ciotti risponde: << Di Montante mai, non abbiamo mai usato quei canali, ripeto parliamo di un prima … ma era sufficiente quello per cogliere quello che mi son permesso di dire, che era inadeguato a far parte (inc.) a che titolo di un’agenzia nazionale quando fa 53 mila cose e lì c’era bisogno, perché in quel momento era una situazione grave dell’agenzia, bloccata, bloccata di una spinta in avanti e questa è la ragione perché siamo andati a Palazzo Chigi a chiedere per piacere che intervenissero, che intervenissero>>.

A ben vedere sono molteplici gli elementi utili a illuminare finalmente una vicenda troppo a lungo rimasta oscura, elementi concentrati soprattutto nelle sue parole dei mesi scorsi, ma anche – per oltre sei anni prima – nel suo assordante silenzio.

Ovviamente non si può non partire da quest’ultimo, l’incredibile silenzio che egli ‘oppone’, dal 2014 e per diversi anni, a tutto quanto riguardi Montante: il giudizio su di lui da quando da icona antimafia diventa ai suoi occhi nel 2014, e poi agli occhi di tutti tra gennaio e febbraio 2015, accusato di essere un mafioso; i suoi rapporti e i rapporti di Libera con lui e tanto altro.

Abbiamo già visto come più sorprendente del silenzio, e inquietante, è la sua unica esternazione su Montante del 16 marzo 2016 nella quale Ciotti si presenta come l’amico dell’indagato per mafia, interessato più alle sue sorti e alla sua ‘verità’ di parte che alla verità oggettiva alla quale, nell’interesse della giustizia, sta lavorando la magistratura.

Con quest’unica eccezione che abbiamo già ampiamente analizzato, il silenzio di Ciotti per molti anni e – su tanti aspetti, tuttora – è totale. Riguarda quindi svariati elementi tra i quali quelli rinvenuti a febbraio 2016 dagli inquirenti nel diario segreto di Montante il cui contenuto da agosto 2018 diventa pubblico.

Quindi silenzio sull’incontro ad Asti il 26 aprile 2014 e sulla segnalazione annotata da Montante e ampiamente illustrata nell’articolo precedente; silenzio sulle 26 telefonate che Montante gli fa in serie, in dieci giorni – quindi quasi tre al giorno di media, ogni giorno – tra fine gennaio e inizi febbraio 2015.

Di recente, nel processo di Ragusa, Ciotti decide liberamente, senza che gli sia posta una domanda specifica sulla circostanza – quindi al solo fine di sostenere la tesi che egli sia stato diffamato dalle considerazioni di Vincenzo Guidotto sul silenzio intorno a quelle telefonate – di rompere quel silenzio, con le parole che abbiamo riferito e che costituiscono un elemento nuovo rispetto al passato.

Ancora una volta risulta vero e pienamente confermato quanto scritto da Montante nel suo diario, come sempre finora, tutte le volte che se ne è determinata l’esigenza o semplicemente ne è capitata l’occasione. Del resto, come abbiamo già osservato, Montante scriveva per sè stesso e ha fatto di tutto perché il suo archivio segreto non venisse trovato: perché allora avrebbe dovuto distorcere i dati sui quali regolava i suoi interessi?

E infatti Ciotti conferma l’annotazione, peraltro nel senso logicamente corrispondente alle parole di Montante: telefonate compiute e rimaste senza risposta. E le conferma rivendicando la perentorietà della sua scelta di non rispondere: <<una serie di telefonate a cui io non rispondo (e dinanzi al tribunale lo ripete tre volte) e non ritengo di dovere rispondere a questo signore, no?>>.

Nel 2021, come già rilevato nel precedente articolo, Montante è per Ciotti ‘questo signore’, termine denotante una quasi spregiativa presa di distanza. Eppure abbiamo visto come ‘questo signore’ a marzo 2016 – ancorché sia pubblica da oltre un anno la sua condizione di persona sottoposta dall’autorità giudiziaria ad indagini per associazione mafiosa – per il presidente di Libera è ancora l’amico Antonello al quale augura di dimostrare la sua verità, contro quella formulata dai magistrati.

Ma qui preme rilevare la strana distonia tra la mancata risposta alle 26 telefonate a gennaio e febbraio 2015 e le parole pubbliche pronunciate da Ciotti su Montante a marzo 2016. Non rispondere a 26 telefonate potrebbe significare una chiusura totale al dialogo da parte di Ciotti, se, almeno, nello stesso periodo non vi sono state altre forme di comunicazione e/o di relazione tra i due, cosa che noi non sappiamo: del resto delle 26 telefonate abbiamo saputo accidentalmente e solamente grazie al rinvenimento dell’armadio segreto, non certo perché le abbiano rivelate, spontaneamente, gli interessati, Montante e Ciotti.  Per riprendere la considerazione precedente, non rispondere ‘potrebbe’ in astratto significare chiusura totale; molto meno potrebbe significarlo in concreto, proprio alla luce delle parole affettuose dedicate 14 mesi dopo dal presidente di Libera all’amico ‘Antonello’.

Quindi, se volessimo comprendere la vera natura dei rapporti tra Montante e Ciotti e la loro evoluzione nella fase in cui il primo, da simbolo antimafia, anche nella percezione pubblica diventa un indagato per mafia, le – più che tardive – parole di Ciotti nel processo di Ragusa ci dicono ben poco. Intanto perché non hanno la genuinità della tempestività, doverosa per un personaggio pubblico come il presidente di Libera; poi perché sono fortemente segnate dal fine di sostenere in giudizio la valenza diffamatoria delle considerazioni di Guidotto sui silenzi del sacerdote antimafia;  e poi perché quelle parole risultano contradditorie ed anzi totalmente contraddette da qualcosa che è molto più credibile, per immediatezza, spontaneità, pienezza di messaggio grazie al documento audiovideo: l’intervista di marzo 2016.

Se la ragione della mancata risposta a 26 telefonate fosse quella che Ciotti ha deciso di rivelare solo pochi mesi fa, ovvero sei anni e mezzo dopo, peraltro riservando a Montante lo sprezzante appellativo ‘quel signore’ e pronunciando in chiusura di frase quell’interrogativo ‘no?’ dal chiaro sapore retorico, per evidenziare l’impossibilità di degnarlo già allora di una risposta, dovremmo chiederci: perché oltre un anno dopo quel tranciante stop al dialogo, Ciotti parla affabilmente di Montante indagato per mafia come dell’amico ‘Antonello’?

Peraltro a questi due elementi che ci raccontano ognuno una verità diversa e quasi opposta, non possiamo attribuire stesso grado di certezza e stessa credibilità.

Di assolutamente certo abbiamo solo le 26 telefonate e la mancata risposta. Ma, se vogliamo andare oltre, abbiamo anche l’evidenza pubblica e immediata delle parole di Ciotti dedicate all’amico Antonello a marzo 2016 e il vuoto assoluto sulla valenza di quel silenzio fino a pochi mesi fa, quando Ciotti fornisce, in un’aula di tribunale, una spiegazione ampiamente contraddetta dall’intervista di marzo 2016 che, per forza di cose, la rende non credibile o quanto meno ne limita l’attendibilità al tempo presente, magari per una possibile intervenuta modificazione dei rapporti tra i due e del giudizio su Montante di Ciotti il quale potrebbe, sia pure con anni e anni di ritardo, essersi finalmente convinto che Montante sia ciò che egli, pur sapendolo fin dal 2014, per anni non ha voluto credere o, quanto meno, si è comportato come chi decida di voltarsi dall’altra parte e di ignorare quanto attestato dalla magistratura inquirente e giudicante, con le indagini prima e il processo poi: la prima inchiesta parte a giugno 2014, l’arresto di Montante viene eseguito a maggio 2018, la condanna pronunciata a maggio 2019.

Poiché quindi Ciotti – per sette anni sospeso tra silenzi, ritardi e dichiarazioni d’amore per l’indagato per mafia Montante – non ci aiuta a capire, rimaniamo fermi al punto di partenza, ovvero il diario di Montante. Infatti il prolungato mutismo di Ciotti prima e le parole pronunciate in tribunale nel 2021, queste ultime per la distonia logica poc’anzi rilevata, chiariscono ben poco. Ed anzi logicamente soccombono rispetto al vero sentire di Ciotti quale emerge chiaramente nell’intervista di marzo 2016.

Andando oltre, nelle dichiarazioni rese al Tribunale di Ragusa ci sono altre parole di Ciotti che sulla circostanza oggetto delle 26 telefonate meritano attenzione.

Il presidente di Libera racconta al Tribunale che il 10 dicembre 2014 è <<a palazzo Chigi a chiedere al presidente del Consiglio dei ministri la cortesia … perché l’agenzia portata avanti da un prefetto non funzionava … e il presidente dice “qui insistono che il sig. Montante diventi membro, tu cosa ne pensi?”… Non era compito mio … l’agenzia aveva bisogno di ben altro>>.

In questo passo Ciotti rivendica il merito, e se lo attribuisce attraverso la versione dei fatti che rievoca, così come egli stesso a sua personale memoria li ricostruisce e li riferisce, di non essere stato favorevole all’ingresso di Montante nel consiglio dell’Anbsc e racconta di averlo fatto presente al governo allora in carica e ciò al fine di respingere l’interpretazione che qualcuno potesse avere dato di quelle 26 telefonate come finalizzate ad una richiesta di sostegno – e, a maggior ragione, ad un sostegno effettivamente dato –  a quella nomina.

Ma tutto ciò è totalmente al di fuori dei dati di realtà. E non perché qualcuno abbia contraddetto quella narrazione, come il difensore di Montante Carlo Taormina il quale il 12 giugno 2021, un mese prima della deposizione di Ciotti nel processo di Ragusa, al termine della seconda udienza del processo d’appello a Caltanissetta racconta ai giornalisti: <<c’era uno schema di don Ciotti sulle modalità di gestione dei beni confiscati nell’ambito dell’agricoltura. Ciotti e Montante ne avevano parlato e Ciotti – sottolinea Taormina – aveva invogliato Montante a diventare componente dell’Agenzia. Si tratta della gestione di patrimoni incredibili e quindi le convergenze degli interessi sono facilmente immaginabili. Ci sono aspetti relativi alla gestione in ambito giudiziario cui la vicenda Saguto (la giudice condannata per corruzione ad otto anni di reclusione ndr) credo l’abbia detta lunga per molto tempo. Ci sono delle sacche di corruttela che tutti conosciamo in quel settore>>.

Per la cronaca, in questo caso Ciotti non rimane in silenzio, interviene tempestivamente, smentendo già il giorno dopo l’assunto di Taormina ed anzi annunciando querela, sicchè per quanto ci riguarda la dichiarazione del legale di Montante non fa testo.

Se il racconto di Ciotti dinanzi al Tribunale di Ragusa non può condurre alla tesi da lui sostenuta, non è quindi per le parole di Taormina, ma per quelle dello stesso Ciotti: <<… il 10 dicembre 2014 io sono a palazzo Chigi a chiedere al presidente del Consiglio dei ministri la cortesia … perché l’Agenzia … portata avanti da un prefetto non funzionava e il presidente dice ‘qui insistono che il sig. Montante diventi membro, … tu cosa ne pensi?’ .. Non era compito mio – prosegue Ciotti – l’Agenzia aveva bisogno di ben altro>>.

Nelle parole di Ciotti, non in quelle di Taormina, c’è ben altro che un’opposizione all’ingresso di Montante in Agenzia. C’è invece una critica, e un’opposizione se vogliamo, ad un modello che – a prescindere da Montante – non funzionava. Infatti, qual è secondo Ciotti il modello che non funzionava? Quello di <<un’Agenzia portata avanti da un prefetto>>. Come si può rilevare semplicemente attenendosi alla lettera delle sue parole, la posizione critica espressa da Ciotti verso l’Agenzia non è verso Montante che non è un prefetto, ma verso il modello statutario che non solo allora, ma finora ha sempre insediato un prefetto nel ruolo di direttore il quale peraltro presiede il consiglio direttivo di cui  fanno parte i vari membri nominati su designazione del procuratore nazionale antimafia (uno), del ministro di giustizia (uno), del ministro dell’interno (uno), del presidente del consiglio dei ministri o del ministro per le politiche di coesione (uno), infine – di concerto – dal ministro dell’interno e dell’economia (due).

Quindi, se dobbiamo prestar fede alle parole di Ciotti, Libera non prende posizione contro, né si dice sfavorevole alla nomina di Montante, bensì al modello che vede a capo dell’Agenzia un prefetto, mentre, richiesto di un parere sulla designazione di Montante nel consiglio direttivo, Ciotti – sempre stando al suo stesso racconto – dice che <<non è compito mio, l’Agenzia aveva bisogno di ben altro>>. Quindi nessun no, e nessun parere, su Montante come nome designato o da designare nel consiglio direttivo; no deciso invece al modello di un’Agenzia portata avanti da un prefetto: un no peraltro forse neanche dichiarato al presidente del consiglio o a chi per lui, in quanto le parole, recenti, di Ciotti sembrano esprimere il proprio pensiero più che la comunicazione data il 10 dicembre 2014 a palazzo Chigi dove tutto sembra risolversi nell’astensione di Libera da ogni parere.

Per completezza di analisi, rimane quell’ultimo cenno di Ciotti a Montante quando risponde al difensore di parte civile, Vincenza Rando vice presidente di Libera e responsabile dell’ufficio legale dell’associazione, la quale gli chiede: <<Ha mai avuto finanziamenti per progetti particolari che ha fatto Libera da parte diciamo della Confindustria, di Montante in particolare?>>. Ciotti risponde: << Di Montante mai, non abbiamo mai usato quei canali, ripeto parliamo di un prima … ma era sufficiente quello per cogliere quello che mi son permesso di dire, che era inadeguato a far parte (inc.) a che titolo di un’agenzia nazionale quando fa 53 mila cose e lì c’era bisogno, perché in quel momento era una situazione grave dell’agenzia, bloccata, bloccata di una spinta in avanti e questa è la ragione perché siamo andati a Palazzo Chigi a chiedere per piacere che intervenissero, che intervenissero>>.

Quindi quando Ciotti racconta del suo incontro a palazzo Chigi e della successiva interlocuzione tra il governo e Libera, ci fa sapere che non ci fu un no a Montante. Quando, in un secondo momento, rispondendo alla domanda su finanziamenti o contributi presi da Montante, sembra volere tornare sull’argomento, richiama una presunta inadeguatezza di Montante perché troppo impegnato (<<fa 53 mila cose>>) e perché l’Agenzia è <<bloccata>>: e qui siamo ancora una volta alla critica al modello gestionale.

E’ lo stesso Ciotti a minare logicamente, perciò a cancellare, l’argomento addotto contro la tesi del sostegno alla nomina.

Quel sostegno – se non ci fu – non ci fu perché … non ci fu, ma non certo perché Ciotti avesse espresso quella posizione, totalmente neutra sul punto, al presidente del consiglio dei ministri; posizione peraltro concretatasi in un’astensione da ogni parere per difetto di titolo e di competenza.  Circostanza che chiarisce ancora lo stesso Ciotti quando racconta che due giorni dopo, quindi il 12 dicembre 2014, palazzo Chigi chiama il referente di Libera Davide Pati il quale – ricostruisce Ciotti – risponde “noi non abbiamo titolo per intervenire, è inadeguato tutto questo”. Laddove, in tali termini testuali, il ‘tutto questo’ è, e rimane, il “modello di Anbsc portata avanti da un prefetto” e nient’altro. Quale sarebbe dunque la posizione contraria o non favorevole alla designazione di Montante, che, certo, non è un prefetto?

Incomprensibile, per difetto di connessione logica, appare pertanto la chiusura della frase di Ciotti <<sentirsi dire che noi abbiamo fatto affari con questo signore mi sembra molto scorretto>>, frase che in ogni caso non ha alcuna rilevanza, nè pertinenza con i fatti narrati.

E comunque ciò che manca totalmente nell’atteggiamento di Ciotti rispetto a Montante e alla sua nomina nell’Agenzia è ogni riserva sul suo profilo morale, soprattutto da quando sa che egli è accusato di essere un mafioso.

Tornando agli elementi di cui disponiamo, cerchiamo ora di datare i fatti e di collocarli temporalmente nella vita dell’Anbsc.

L’Anbsc, istituita nel 2010, operativa dall’anno dopo, è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico, dotato di autonomia organizzativa e contabile e posto sotto la vigilanza del ministero dell’Interno. La sua mission è quella di provvedere all’amministrazione e alla destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, non solo tramite la loro gestione diretta, possibile dopo l’emissione del decreto di confisca di secondo grado, ma anche coadiuvando l’attività dell’amministratore e dell’Autorità giudiziaria già nella fase del sequestro.

Dall’ultima relazione presa in considerazione dalla Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana nel momento della sua inchiesta sul ‘Sistema Montante’ si apprende che al 31 dicembre 2019, l’intero patrimonio immobiliare in gestione all’ente è pari a 16.473 unità, oltre un terzo delle quali in Sicilia, nel territorio di 190 comuni.

L’altro asset portante dell’Agenzia è quello della gestione e  destinazione dei beni aziendali. Nel 2019 sono 2.587 (poco meno di un terzo in Sicilia) le aziende gestite, la maggior parte nel settore delle costruzioni, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, delle attività immobiliari, nonché dei servizi pubblici, sociali e personali.

La missione cui è chiamata l’Agenzia è un affare da 15 miliardi di euro.

Primo direttore ne è stato Giuseppe Caruso in carica dal 20 giugno 2011 al 18 giugno 2014, quando gli subentra Umberto Postiglione. Pertanto, a dicembre 2014, quando Ciotti va a palazzo Chigi a <<chiedere la cortesia>> consistente – secondo quanto egli stesso racconta – nel far presente l’inadeguatezza del modello di governance, il prefetto Postiglione si è insediato da sei mesi appena e sarà in carica per altri due anni e mezzo. A dicembre 2014 pertanto non c’è all’ordine del giorno la nomina della figura di vertice, né la discussione di un progetto di riforma del modello di governance. L’unico elemento d’attualità è riconducibile alla designazione di componenti nel consiglio direttivo. Tuttavia degli altri neanche si discute: due magistrati designati rispettivamente dal ministro della Giustizia e dal procuratore nazionale Antimafia, un rappresentante del ministero dell’Interno, due esperti designati di concerto dal ministro dell’Interno e dell’Economia e un altro esperto dal presidente del Consiglio dei ministri o dal ministro per le Politiche di coesione.

Che di nessuno, eccetto Montante, si discuta lo conferma Ciotti quando riferisce di essere stato richiesto di un parere sulla sua designazione e non su quella di altri nomi; e lo conferma altresì l’assenza nelle cronache del tempo di ogni elemento relativo agli altri nomi inseriti nello stesso decreto: i magistrati Mariella De Masellis e Valentina Gemignani, l’allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

E su tale unico elemento di dibattito – la designazione di Montante – sappiamo da Ciotti che egli non espresse il suo favore ma, sempre da lui, sappiamo anche che non espresse nessuna contrarietà, riferendosi quest’ultima unicamente al modello avente un prefetto al vertice, tema che in quel momento non era e non poteva essere in discussione.

Ma in discussione, a parte la designazione di Montante, non c’era nient’altro che riguardasse l’Anbsc, anche perché, oltre alle due ragioni già dette, le altre figure designate per l’occasione in quello stesso consiglio direttivo hanno un profilo tecnico-scientifico ben delineato rispetto al quale è molto più ristretto l’ambito discrezionale della scelta. Ambito che, nel caso della designazione di Montante da parte del Viminale, è invece amplissimo, come amaramente rileva Attilio Bolzoni nel suo libro ‘Il padrino dell’Antimafia’ quando prende atto che su sessanta milioni di italiani il ministro dell’interno va a nominare nel direttivo dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia un indagato per mafia.

Peraltro quando Ciotti è a palazzo Chigi, il 10 dicembre 2014, la nomina dei vari componenti, Montante compreso, è già decisa, tant’è vero che il decreto è del primo dicembre 2014 anche se il timbro del segretario generale di palazzo Chigi, che si aggiunge alle firme del ministro dell’Interno Angelino Alfano e del sottosegretario alla presidenza del consiglio a ciò delegato Graziano del Rio, è del 15 dicembre. Quindi quado Ciotti va a palazzo Chigi, le decisioni sono state tutte prese e i provvedimenti sono formalmente sul tavolo, anche se l’iter non è ancora del tutto concluso.

Quindi, a parte tutto quanto abbiamo già osservato, non c’era alcun sostegno che con quelle 26 telefonate compiute tra il 27 gennaio e il 5 febbraio 2015 Montante potesse chiedere a Ciotti, né che questi potesse dare. Il primo dicembre era già stato tutto deciso e il 15 l’intero iter concluso, come rivelano gli atti già allora pubblici perché leggibili sul sito dell’Anbsc. Ovviamente ciò non esclude che la vicenda avrebbe potuto essere oggetto di discussione di Montante con Ciotti, quanto meno nelle intenzioni del primo, ma il presidente di Libera non volle rispondere.

Solo lui sa perché. Ma di certo le vere ragioni per le quali egli non risponde non sono quelle dette e lasciate intendere nel processo di Ragusa: Montante agli occhi di Ciotti rimane un amico ancora nel 2016 e forse anche, ben più a lungo, dopo.

Solo Ciotti conosce quel perchè. A tutti gli altri, noi compresi, rimangono solo ipotesi e congetture. E una di queste, basata su un dato certo, è che egli, a gennaio e febbraio 2015, sapeva bene da tempo che Montante fosse indagato (quindi controllato?) per concorso in associazione mafiosa.

Ripercorrendo la sequenza temporale degli eventi alcuni elementi fanno impressione.

Premettiamo che Montante è designato dal ministero dell’Interno quale proprio rappresentante. E’ l’unica figura per la quale la legge non prevede requisiti. E a nominarlo è Alfano (il ministro che – ha sancito la sentenza di un Tribunale – a Montante non può dire di no) con tanto di firma del suo capo di gabinetto, Luciana Lamorgese, da settembre 2019 suo successore – scherzi del destino! – a capo del Viminale.

Quando viene nominato nel consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla mafia, Montante da sette mesi è indagato per concorso in associazione mafiosa. Che il governo incorra in un infortunio di questa gravità è un fatto che, ovviamente, suscita ancora dopo molto tempo reazioni e congetture di ogni tipo. Ma se per Alfano, e quindi per il capo di gabinetto di allora Lamorgese, vale – che gli si creda o no, pur alla luce del suo essere a disposizione di Montante come accertato dal Tribunale di Calatanissetta – quanto da lui dichiarato alla Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana (<<non lo sapevo assolutamente, altrimenti non lo avrei designato>>) diversa è la situazione di Ciotti il quale già allora con ogni probabilità sapeva che Montante fosse indagato per mafia. Purtroppo il silenzio dell’interessato non ci aiuta. Ciotti non ha mai voluto far sapere quando, cioè in quale data, sia venuto a conoscenza dell’inchiesta della procura di Caltanissetta nei confronti di Montante per associazione mafiosa. Incrociando i dati documentali e le testimonianze disponibili emergono due elementi: la certezza che Ciotti ne fu informato ben prima che la notizia venisse pubblicata dalla stampa; la datazione più verosimile di tale informazione ad un tempo precedente alla data del 10 dicembre 2014. Ma su questo punto, se Ciotti decidesse finalmente di parlare, non potremmo che prendere atto della sua verità. Proseguiamo quindi il ragionamento tenendo presente il dato, più che probabile, che in quella data sapesse dell’inchiesta.

Sia chiaro, il presidente di Libera non ha alcuna responsabilità di governo, né potere di nomina, ma egli proprio per la sua identità di presidente di Libera che si batte contro le mafie viene ricevuto a palazzo Chigi. Ed è singolare, se anche fosse stato un semplice cittadino non investito della grande responsabilità morale della rappresentanza di Libera, che egli non dia alcun rilievo alla condizione scabrosa in cui si trova il nuovo membro del direttivo dell’Anbsc. E non gli dà alcun rilievo non solo nel tacere la circostanza (se dobbiamo credere ad Alfano) a chi altrimenti non lo avrebbe nominato, ma non gli dà rilievo neanche nella propria stessa coscienza, visto che sul punto non si esprime: tutto ciò che fa è dichiararsi insoddisfatto del modello di governance portato avanti da un prefetto e quando si pone dinanzi alla designazione di Montante, tutto ciò che lo interessa è che non sia adeguato <<perché fa 53 mila cose>>, giudizio che comunque tiene per sè visto che a palazzo Chigi si limita a rispondere che non è di sua competenza esprimere un parere.

Del resto ha poco senso analizzare l’atteggiamento e il comportamento di Ciotti in quei giorni in cui egli è ancora tra i pochi a sapere dell’inchiesta per mafia su Montante, visto che quando in Italia già tutti lo sanno da oltre un anno, per Ciotti – che lo sa da molto prima – quell’indagato per mafia è ancora l’amico ‘Antonello’.

A capo dell’Anbsc finora ci sono stati, sempre e solo, prefetti.  Abbiamo detto di Caruso e Postiglione. Dopo, dal 15 luglio 2017 è toccato a Ennio Sodano, dal 28 febbraio 2019 a Bruno Frattari, dal 17 agosto 2020 a Bruino Corda, tuttora in carica.

Ma su Domenico Postiglione, il prefetto a capo dell’Agenzia quando a dicembre 2014 arriva Montante, qualche dato in più è necessario.

La notizia che Montante sia già da mesi indagato per mafia, che certo non dovrebbe sfuggire al Viminale, diventa pubblica il 22 gennaio 2015 (articolo pubblicato dal settimanale siciliano Centonove) e, molto più ampiamente, il 9 febbraio 2015 (articolo pubblicato dal quotidiano la Repubblica), per la colossale figuraccia del governo-Renzi e, soprattutto, del suo plenipotenziario ministro dell’Interno Angelino Alfano. Per il clamore del caso Montante il 25 febbraio si ‘autosospende’ dalla carica ma ciò, addirittura quattro mesi dopo, a giugno, non impedisce al direttore dell’Agenzia, Postiglione appunto, di invitarlo ad una riunione. Un’interpretazione del suo gesto potrebbe essere questa: per me, prefetto che dirige l’Anbsc, l’autosospensione di Montante non vale, è fumo negli occhi, furbizia per gli allocchi, Montante è vivo e vegeto e, da indagato per mafia, può disporre dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia.

Del resto, ecco cosa Postiglione risponde in quel periodo ai giornalisti che gli chiedono se non basti l’autosospensione e se a suo avviso Montante debba dimettersi: <<Non lo so, dipende da una sua valutazione. Non ho la possibilità né di chiedere né di proporre ma solo di esprimere solidarietà a Montante, che ho conosciuto come persona che si batte per la legalità. Sta vivendo momenti difficili per le dichiarazioni di alcuni pentiti, nessuno è colpevole finché non viene condannato e nessuno è tenuto a dimettersi se viene accusato da qualcun altro. In Sicilia – aggiunge Postiglione – possono essere messe in atto architetture diffamatorie, magari c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi e potrebbe cercare forme di ritorsione. Quando ero prefetto ad Agrigento mi dicevano spesso di non dimenticare che ero nella terra di Pirandello e io rispondevo che in confronto a loro Pirandello era un dilettante… Credo che Montante abbia i modi per dimostrare la sua estraneità>>.

Impressionante l’idem sentire di Postiglione con quello di Ciotti, con la differenza che questi lo esprime ancora un anno dopo, nella famosa intervista del 16 marzo 2016, dopo che gli inquirenti hanno sequestrato l’archivio segreto di Montante il quale proprio in quel periodo è impegnatissimo con ogni mezzo a scoprire e ad ostacolare l’inchiesta nei suoi confronti attraverso le sue talpe nella Procura nazionale antimafia e i suoi ‘uomini a L’Avana’ ed anche a tentare la spallata contro la procura nissena finalmente impermeabile, grazie ad un gruppo di pubblici ministeri capaci e inflessibili, ai suoi metodi e ai suoi interessi.

Nonostante tanta ‘sensibilità’ da parte del prefetto Postiglione, Montante comunque, dopo avere cercato invano di fermare, depistare e inquinare le indagini (il che gli costerà le altre inchieste e l’arresto), il 22 luglio 2015 si vede costretto a dimettersi.

Ma Postiglione, che dirige l’Anbsc fino alla pensione, nel 2017, quando a giugno 2015 invita Montante – autosospeso dall’incarico – ad una riunione istituzionale dell’Agenzia è convinto di non potere per nulla rinunciare al contributo prezioso dell’indagato per mafia? O è un tipo ‘sbadato’ che si dimentica dell’autosospensione? O ha altri buoni motivi per doverlo invitare?

La risposta va cercata, come sempre, nei fatti. Quindi, innanzitutto, nella sua biografia.

Postiglione è prefetto di Agrigento dal 10 gennaio 2008 al 17 agosto 2010, quindi negli anni in cui nasce il patto di ferro Alfano-Montante. E quando è prefetto nella Vale dei Templi, accade, per esempio che, se un sindaco, come Salvatore Petrotto di Racalmuto, vada da lui a denunciare gli intrecci perversi e il malaffare nel business dell’acqua e dei rifiuti di Montante e del suo alter ego Giuseppe Catanzaro – titolare della mega discarica dei veleni a Siculiana – egli non muova un dito. O, almeno, non nella direzione giusta.

Postiglione lascia l’incarico il 17 agosto 2010 e quando Petrotto, a febbraio 2011, denuncia all’autorità giudiziaria i traffici del ras delle discariche i quali, con la rete di complicità diffuse, impongono ai cittadini di respirare veleni e di pagare caramente il ‘servizio’, la reazione non si fa attendere. Il Comune di Racalmuto l’anno dopo è sciolto con il pretesto fantasioso di infiltrazioni mafiose (infiltrazioni che tutte le inchieste giudiziarie rivelano inesistenti) dal ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri la quale, quando si insediano i commissari, va personalmente in Comune dove si presenta – letteralmente e fisicamente – a braccetto con Giuseppe Catanzaro.

E’ il 10 aprile 2012 e, otto giorni prima, il 2 aprile, Catanzaro e Montante – sodali e soci in affari – hanno messo le mani su Confindustria Sicilia: il primo come numero due vicario e il secondo come capo assoluto, dopo essere stato fino a quel momento vice di Ivan-Lo Bello, in carica per sei anni, dal 2006 al 2012.

A Racalmuto, a compiere l’accesso prefettizio nel Comune, per poi – con decisione già presa – scioglierlo, è Nicola Diomede, funzionario della prefettura di Agrigento fin dal ’90; quindi, nel 2013, nella segreteria tecnica del ministro Alfano al Viminale dalla quale spicca il volo verso la carica di prefetto: ad Agrigento ovviamente, dove c’è bisogno di lui, come svela, per esempio, a gennaio 2018 lo scandalo di ‘Girgenti Acque’: e così, solo così, Diomede finalmente viene rimosso. E oggi è uno dei 47 imputati per i quali la magistratura inquirente ha chiesto il giudizio. Tra di loro i vertici di Girgenti acque che Diomede è accusato di avere protetto dall’interdittiva antimafia e nomi di un certo peso come il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè, l’ex presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, attualmente avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea.

La maxi inchiesta giudiziaria che travolge Diomede vede all’origine 73 indagati, poi saliti a 81, tra i quali, oltre ai nomi già visti, figurano – in attesa che il Gup si pronunci – Angelo Alfano, padre dell’ex ministro Angelino, l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Raffaele de Lipsis, due ex presidenti della Regione, Raffaele Lombardo e Angelo Capodicasa, un ex presidente di Provincia, Eugenio D’Orsi, parlamentari ed ex, politici, consiglieri comunali, dirigenti pubblici, ex magistrati, figure delle istituzioni, i vertici del gestore idrico, manager, imprenditori, carabinieri, burocrati, commercialisti, avvocati, giornalisti.

Un’associazione per delinquere, nell’ipotesi d’accusa, fondata sul patto scellerato dello scambio tra assunzioni e favori inconfessabili, con tante imputazioni che vanno dalla corruzione alla truffa, dal riciclaggio alle false comunicazioni sociali, all’inquinamento ambientale, al finanziamento illecito ai partiti. Tra le carte sequestrate le sentenze del Cga firmate da De Lipsis in favore di ‘Girgenti Acque’ prima di essere nominato nell’organo di vigilanza di … ‘Girgenti Acque’.

Ci vorrà quindi un altro prefetto, Dario Caputo, dopo lo scandalo-Diomede, per firmare finalmente l’interdittiva antimafia invano chiesta diversi anni prima dall’allora sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto: che per questa sua richiesta e per le sue denunce viene falsamente accusato: perciò il Comune – ‘colpevole’ di vera …. antimafia – viene sciolto, per volere della finta antimafia che in effetti, come chiarito dal Tribunale nella sentenza di condanna di Montante, è mafia: mafia vera, anche se trasparente e invisibile a chi non la vuole vedere.

L’interdittiva colpisce finalmente Marco Campione, presidente di ‘Girgenti Acque spa’, la società privata che dal 2007 (l’anno della svolta di Confindustria appena presa in mano dal duo Lo Bello-Montante) gestisce le risorse idriche pubbliche in 27 dei 43 comuni della provincia agrigentina.  E nell’interdittiva sono elencate le operazioni societarie fittizie che smascherano il sistema del ‘tavolino’, non dissimile da quello collaudato nei decenni precedenti da ‘Cosa Nostra’ e dal suo famoso ‘ministro dei lavori pubblici’ Angelo Siino.

Alla luce degli sviluppi risulta difficile comprendere secondo quali criteri e per quali accertate qualità, vengano nominati non pochi prefetti.

A Diomede la carica è assegnata dal consiglio dei ministri il 17 dicembre 2013, la stessa seduta che si rivela ‘fortunata’ per Filippo Dispenza, altro pupillo di Montante, promosso quella stessa data dirigente generale della Polizia di Stato e posto a capo della questura di Cagliari. Non molto tempo dopo sarà sempre il concittadino Alfano a farlo nominare prefetto, titolo con il quale, appena andato in pensione, Dispenza gestisce in via straordinaria il Comune di Vittoria: un mandato durato 39 mesi, mentre la legge lo prevede per 18 e, in casi eccezionali, per 24 mesi al massimo.

Tornando al filo del tema di questo articolo, ci siamo imbattuti in Postiglione, direttore dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia fino ad aprile 2017 quando va in pensione. Se, da prefetto di Agrigento, avesse ascoltato Petrotto, non avremmo avuto il tragico squallore degli atti, dei gesti e degli intrecci del successore Diomede e sarebbero stati fermati prima i traffici criminali con i quali da anni la cricca Montante fa il bello e il cattivo tempo.

Postiglione viene posto nel 2014 da Alfano, ministro del governo-Renzi, alla direzione dell’Anbsc: lo stesso parto che dà alla luce la nomina di Montante (Postiglione però si insedia a giugno, Montante è nominato a  dicembre).

Nel suo curriculum di prefetto non c’è solo Agrigento. Il 30 giugno 2011 Postiglione è nominato prefetto di Palermo: al Viminale c’è Roberto Maroni, ma Alfano è potente ras berlusconiano oltre che Guardasigilli e Montante vive la sua lunga stagione di massimo fulgore. Tanto che Postiglione, mentre è prefetto di Palermo in carica, a dicembre 2012 riesce a farsi nominare anche commissario straordinario della Provincia di Roma, dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti che vira verso la Regione. Un doppio incarico, a mille chilometri di distanza, a capo di due istituzioni di primissimo livello e di alta responsabilità come la Prefettura di Palermo e la Provincia di Roma. Che spirito di abnegazione!

Chiusa la parentesi sul prefetto Postiglione, apriamone una brevissima su un altro prefetto, Luciana Lamorgese, da due anni e mezzo ministro dell’Interno in carica, dopo Alfano, Minniti e Salvini, dato utile per riannodare i fili dal 2014 ad oggi. Ma ne parliamo solo in quanto, allora prefetto in quiescenza e capo di gabinetto di Alfano al Viminale, Lamorgese firma gli atti che porteranno un indagato per mafia a sedere nel direttivo dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia.

Lamorgese il 30 luglio 2014 scrive una lettera al ‘dott. Montante’: così lo apostrofa, nonostante l’imprenditore di Serradifalco non abbia neanche un diploma liceale e non abbia mai conseguito alcuna laurea, né per corso di studi, né ‘ad honorem’, come millanta scrivendo il falso in atto pubblico e arrivando a dichiarare di averla ricevuta dal presidente della Repubblica Ciampi che lo sconfessa.

Nella lettera Lamorgese chiede a Montante il curriculum vitae sulla base del quale predispone e firma il decreto di indicazione che poi palazzo Chigi perfeziona nel provvedimento di nomina, il primo dicembre 2014. Con tutte le conseguenze del caso.

Un caso – la nomina di Montante nell’Anbsc – questo sì, pirandelliano.

Per Postiglione invece – il prefetto che vola in carriera quando sono in auge Alfano&Montante – pirandelliana era la narrazione dell’accusa all’impostore di Serradifalco.  Ma qui personaggi come Mattia Pascal o Vitangelo Moscarda c’entrano ben poco e il lavoro di magistrati onesti, capaci e coraggiosi ha consentito alla Vita di smascherare la Forma.

4 – continua

Gli articoli precedenti sono stati pubblicati il 6 febbraio (leggibile qui), l’11 febbraio (leggibile qui) e il 24 febbraio (leggibile qui)

Ciotti e le 26 telefonate di Montante: un silenzio scabroso e pieno d’ombre, interrotto nel processo in corso a Ragusa