Il caso Emanuela Orlandi: già nel 2008 si sapeva tutto. Lo scontro tra il 2012 ed il 2015, tra l’ex procuratore di Roma Pignatone ed il magistrato Capaldo. Ed inoltre la storia, sua e non solo, del giudice di Sua Santità

Chi è Pignatone? L’ex procuratore della Repubblica di Roma ed attuale presidente del tribunale del Vaticano?

Oggi vogliamo andare un pò oltre il caso relativo alla scomparsa di Emanuela Orlandi, di cui si è occupato in questi giorni il quotidiano la Repubblica e di cui riportiamo quanto sarebbe stato omesso dal 2008 ad oggi, per far luce sull’intera vicenda, senza aggiungere niente…

C’è di più, c’è tanto da raccontare sul conto dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, figlio di un potente democristiano che, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia assicurò, assieme ad alcuni maggiorenti, una difficile, quanto travagliata e tragica transizione. Allora si dovette fare i conti con la brevissima parentesi separatista, il cui principale protagonista fu Canepa, il capo dell’EVIS, l’esercito indipendentista siciliano. Canepa pagò subito con la vita il suo anelito di far diventare la Sicilia uno Stato autonomo. Liquidata l’esperienza separatista, non prima averne fatto tesoro, facendo approvare nel 1946, al parlamento nazionale, lo Statuto Autonomista, il Pignatone padre inizia la sua scalata al potere, grazie all’investitura degli anglo-americani. Di lì a breve sarebbe diventato parlamentare nazionale, nelle fila della Democrazia Cristiana, per due legislature; poi sarà protagonista della più grande operazione trasformistica della nostra storia repubblicana, consumatasi in piena Guerra Fredda. Ci riferiamo alla creazione della Giunta Regionale Milazzo, sostenuta dal Pignatone e da alcuni suoi colleghi parlamentari, tutti quanti transfughi della Democrazia Cristiana, dal Movimento Sociale di Giorgio Almirante e dal PCI, di Palmiro Togliatti, le cui redini in Sicilia erano in mano ad Emanuele Macaluso, una bandiera storica della cosiddetta corrente Migliorista, di cui faceva parte anche il Presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano, chiamato altrimenti Re Giorgio, per i trascorsi di dama di compagnia della madre, dentro la casa reale dei Savoia. Finita quell’esperienza milazzista, immediatamente sconfessata dall’allora segretario della DC, Amintore Fanfani, Pignatone padre rientrò nei ranghi degli eredi, non proprio legittimi, del Partito Popolare fondato da Don Luigi Surzo che, successivamente, verrà anche definita la ‘balena bianca’. Come ricompensa per essere rientrato nello scudocrociato, l’allora figliol prodigo ottenne la presidenza dell’ESPI, un ente economico a totale capitale pubblico, fondato dalla Regione Siciliana che aveva, grosso modo, le stesse funzioni e competenze che, a livello nazionale, aveva l’IRI (Istituto Ricostruzione Industriale). Successivamente,  negli anni Novanta, sempre Pignatone padre, diventò anche commissario dell’Ente Minerario Siciliano, nonché di un’altra società regionale che si occupava di lavori pubblici. Insomma, il papà  dell’attuale Presidente del tribunale del Vaticano era uno che contava molto, grazie anche al fatto di avere dei forti legami di amicizia, oltre che politici, per esempio, col papà dell’attuale presidente della Repubblica, l’avvocato Bernardo Mattarella, anch’egli diventato prima sottosegretario e poi più volte ministro. Agli esordi della sua carriera di uomo di governo, Bernardo Mattarella aveva nel suo ufficio di gabinetto l’allora ventiseienne Vito Ciancimino, da poco allontanatosi dalla sua Corleone. Poi Ciancimino proseguì per la sua strada, in quel di Palermo, compiendo le gesta politico-imprenditoriali che ben conosciamo, sacco di Palermo e Trattativa Stato-mafia comprese. Di quella compagnia di giro del secondo Dopoguerra siciliano, che ha sfornato parecchi uomini di potere, le cui eredità sono state raccolte dai figli ed oggi dai nipoti, faceva parte anche il papà del più longevo sindaco di Palermo, Leoluca Orlando; di quella fortunata classe dirigente ne faceva parte anche ilpapà dell’attuale presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana Gianfranco Miccichè, il Presidente di Sicindustria Mimì La Cavera, l’avvocato Vito Guarrasi, con al seguito Graziano Verzotto, amico di Enrico Mattei, anch’egli partigiano, poi caduto in disgrazia assieme al finanziere di Patti Michele Sindona, morto in carcere a causa della stessa miscela di caffè con cui era stato avvelenato Gaspare Pisciota, il luogotenente del bandito Salvatore Giuliano.

Ma andiamo adesso, brevemente, a toccare soltanto alcuni punti salienti dell’attività professionale, di magistrato, di Pignatone figlio…

Tra il 1991 ed il 1992 contribuiva ad insabbiare il dossier mafia-appalti e la relativa inchiesta, di cui si sono occupati Falcone e Borsellino ed in cui era coinvolto suo padre, allora presidente dell’ESPI, la società pubblica che operava assieme alla SIRAP di Siino, Ciancimino e di tutto l’intero gotha della mafia siciliana.

Facciamo adesso un grande salto temporale in avanti.

Nel 2009 lo ritroviamo procuratore a Reggio Calabria mentre coopera con il neo responsabile nazionale per la legalità di Confindustria, Antonello Montante ed il suo capo della Security, Diego Di Simone Perricone. Con la benedizione di Luca Cordero di Montezemolo ed Emma Marcegaglia, combattono tutti assieme, contro la ndrangheta. Così almeno risulta dagli atti processuali. Peccato che i due collaboratori di Pignatone, recentemente, per l’esattezza l’8 giugno scorso, sono stati condannati in appello, Montante ad 8 anni di reclusione e Di Simone Perricone a 5 anni, per associazione a delinquere,  corruzione e spionaggio anche, e non solo, informatico. Mentre un altro pesante processo che li riguarda è in corso, nel corso del quale sono stati chiamati come testi 8 collaboratori di giustizia che accusano Montante, tra l’altro compare del capomafia Vincenzo Arnone, di essere un mafioso sin daglli anni Novanta; mentre si traveste da antimafioso, a partire dal 2005, da quando cioè inizia la sua scalata al potere dentro e fuori Confindustria .

Nel 2018, mentre era procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone avoca a sé l’inchiesta riguardante l’avvocato faccendiere Piero Amara, in cui era coinvolto il fratello; fa incriminare presso la Procura di Perugia il sostituto Fava, che se ne stava occupando e che gli aveva fatto presente del coinvolgimento del fratello. Fava oltre ad essere ancora indagato, è stato anche trasferito a Latina. Poi era capitato pure che Maurizio De Lucia, nel 2017, secondo quanto sostiene nel libro ‘Lobby & Logge, l’ex presidente della associazione nazionale dei Magistrati, Luca Palamara, diventa procuratore di Messina grazie a Pignatone. L’anno successivo De Lucia incrimina Palamara, a seguito dell”accusa dell’ex magistrato Longo che sostiene di avere appreso che Palamara voleva 40 mila euro per garantirgli la nomina di procuratore di Gela. Accusa rivelatasi poi infondata, ma che allora era necessaria per fare inoculare il troian nel telefonino di Palamara, per intercettare la famosa cena all’hotel Champagne in cui erano presenti oltre a Palamara, l’uomo di fiducia di Renzi, il parlamentare Lotti, ed il magistrato e parlamentare Ferri. Parlavano della prossima nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma. A Pignatone, quella intercettazione forse è servita proprio a far saltare quella nomina; cosa che puntualmente è riuscita a dovere.

Sempre Luca Palamara sostiene che Pignatone ci teneva ad avere un suo uomo fidato a Messina, Procura competente sui reati commessi dai magistrati in servizio a Siracusa, dove Amara e suo fratello Roberto erano nel mirino di qualche suo collega magistrato; leggasi l’attuale procuratore generale Barbaro. Ora, sempre questo suo uomo fidato, è stato designato dal CSM a diventare procuratore di Palermo.

E qui, per ora, ci fermiamo…