Libera condannata. Il suo referente provinciale di Modena diffamò il giornalista Leonelli: per avere riportato notizie vere sui lucrosi incarichi di Vincenza Rando (allora vice di Ciotti ed oggi senatrice del Pd) e sull’intreccio di interessi affaristici che annebbiava la missione dell’associazione fu additato come ‘fiancheggiatore delle mafie’. Il suo invece era vero giornalismo, prezioso per la verità e la democrazia

La parola ‘Libera’, come nome della nota associazione antimafia presieduta da Pio Luigi Ciotti e brand di successo in una rete che è galassia di sigle, movimenti e cooperative di forte influenza politica – non può essere associata affatto alla ‘libertà di stampa’ che pure è valore fondativo ineludibile della democrazia della Repubblica.

Lo sanno bene i nostri lettori i quali, partendo dalla notizia di un processo a Ragusa per diffamazione a mezzo stampa intentato appunto da Ciotti contro La Prima Tv (diretta dal sottoscritto, perciò imputato), hanno dovuto scoprire quel filone d’attività di Libera consistente in un apposito ‘querelificio’ finalizzato a bloccare notizie sgradite, anche quando veritiere e di pubblico interesse.

Tra i tanti casi presi in considerazione ci imbattemmo allora in quello che ci colpì particolarmente per un’ambivalenza che, estremizzando la negazione della libertà di stampa e la pretesa di tacitare ogni voce scomoda, andava persino oltre realizzando un’operazione che sembra l’opposto di ciò che è scolpito nello statuto di Libera. E’ il caso del giornalista Giuseppe Leonelli: contro di lui non solo una querela infondata, strumentale, temeraria e, a mio avviso, finalizzata a mettere il bavaglio alla libera stampa. Ma addirittura l’accusa di schierarsi oggettivamente al fianco delle mafie. La querela contro Leonelli fu presentata da Libera, quindi dal suo legale rappresentante Ciotti, attraverso gli uffici – e di fatto la potestà decisionale, per l’incarico espletato – di Vincenza Rando, allora vice di Ciotti e responsabile degli affari legali dell’associazione. Dopo cinque anni il processo che ne è scaturito è ancora in corso e ne vedremo l’esito.

Intanto però quegli stessi fatti un risultato l’hanno prodotto. Perché quell’accusa <<di collocarsi oggettivamente al fianco delle mafie>>, mossa allora dal responsabile di Libera nel territorio provinciale di Modena (la città dove vive e lavora Rando) Maurizio Piccinini, ha prodotto, per la querela promossa da Leonelli, un processo parallelo per diffamazione che ha visto Libera sul banco degli imputati e il giornalista parte offesa e parte civile.

Questo processo è giunto a conclusione. Il 17 gennaio scorso il Tribunale di Modena ha condannato Piccinini, per diffamazione a mezzo stampa, al risarcimento della somma di quattro mila euro in favore di Leonelli e al pagamento delle spese processuali.

<<Una sentenza che conferma – afferma il legale Umberto Rossi, difensore di Leonelli – un principio chiaro: che non è possibile dare del fiancheggiatore delle mafie a un giornalista che scrive cose non gradite, neppure se al centro degli articoli di questo giornalista vi è un’esponente nazionale di una associazione importante come Libera, impegnata nel fondamentale compito di contribuire a una cultura di contrasto alla criminalità organizzata>>.

Ma cosa aveva fatto Leonelli per ‘meritare’ da Libera l’accusa di essere un fiancheggiatore delle mafie? Nulla, assolutamente nulla. Tutto ciò che gli poteva e gli può essere ‘addebitato’ è di avere fatto ottimo giornalismo: onesto, corretto, veritiero, libero ma … sgradito a Libera la quale non ha apprezzato che, fuori dalla melassa editoriale mainstream pregiudizialmente e acriticamente a lei incline, a qualcuno possa venire in mente di pubblicare notizie ‘non autorizzate’ su fatti veri, importanti e di rilevante pubblico interesse.

Le notizie sgradite, contenute nell’articolo di Leonelli pubblicato il 17 agosto 2016 sul quotidiano locale cartaceo Prima Pagina di cui era direttore, riguardano gli incarichi, le parcelle, le consulenze attribuite da pubbliche amministrazioni targate Pd, nonchè da aziende partecipate e fondazioni bancarie contigue, a Vincenza Rando, oggi senatrice del Pd e allora (e fino a pochi mesi fa) vice presidente di Libera e responsabile del suo ufficio legale, nonché, in questa veste, colei che decide, come ha ben chiarito Ciotti nel processo di Ragusa, quali giornalisti querelare, ovviamente tra coloro che abbiano osato parlare di Libera senza la sua autorizzazione o approvazione.

Quegli incarichi, per somme molto rilevanti, erano attribuiti a Rando da enti a guida Pd operanti in uno stretto rapporto di contiguità, di scambio anche economico e di collaborazione con Libera, peraltro nell’ambito di un sistema complessivo che ingloba imprese vicine al Pd come Unipol e LegaCoop. In tale contesto far sapere ai cittadini che un presidente di Regione Pd come Stefano Bonaccini, che oggi aspira a diventare segretario nazionale del Pd (il partito di Vincenza Rando), o un sindaco Pd, avendo bisogno dei servizi di un avvocato scelgano proprio chi ha costruito la propria carriera su Libera e la gestisce dall’alto, è notizia meritevole di interesse o ‘merita’ la censura del potere?

Non si tratta di questioni secondarie ma del fondamento stesso del carattere democratico, o meno, di una società.

Dinanzi a tutto ciò, non solo Libera – anziché rispondere nel merito e magari chiarire, spiegare, argomentare, smentire se del caso i dati – decise di querelare Leonelli: fatto gravissimo per la nostra democrazia e retaggio di un’impostazione fascista che non tollera la libertà di stampa. Del resto la formulazione del ‘reato’, come tale, di diffamazione a mezzo stampa, vigente nel nostro ordinamento, è quella introdotta 93 anni fa dal legislatore fascista – e inserita nella parte speciale del codice che è quella più marcatamente fascista – nel momento di maggiore potenza del regime che aveva soppresso ogni libertà, compresa quella di stampa, e insediato una dittatura.

Ma, come abbiamo visto, l’allora rappresentante territoriale di Libera per la provincia di Modena Piccinini si produsse in quell’accusa assurda, incredibile, violenta, infamante, calunniosa che tradisce tutta l’avversione e l’intolleranza verso il valore della libertà di stampa che pure Libera dovrebbe avere a cuore più di tanti potenti e prepotenti adusi al malaffare nell’oscurità e allergici alla luce della libera stampa.

Leonelli ha dovuto presentare una querela non solo giusta, ma necessaria, vitale e preziosa per i nostri valori costituzionali, ed ecco la sentenza.

Per la piena conoscenza dei fatti in successione e l’illustrazione dei vari aspetti e del contesto in cui sono maturati rimandiamo agli articoli pubblicati lo scorso anno o almeno a tre in particolare (quiqui e qui) nei quali il caso è compendiato nell’ambito della più ampia informazione, partendo dal processo di Ragusa, sull’operato di Libera rispetto agli scossoni ricevuti dal movimento antimafia dopo scandali, inchieste e processi tra i quali, soprattutto, quelli relativi al sistema-Saguto e al sistema-Montante .

Qui qualche cenno a quelle vicende.

L’articolo di Leonelli viene pubblicato da Prima Pagina il 17 agosto 2016. Il giorno dopo, 18 agosto, il responsabile di Libera nella provincia di Modena Maurizio Piccinini divulga una nota in cui, dopo avere elencato i meriti di Enza Rando nel suo impegno per Libera e contro la mafia, prosegue e conclude: << …Enza viaggia in continuazione da nord a sud per rappresentare Libera, e non solo Libera, nei processi contro il crimine organizzato. Enza, i mafiosi, i camorristi, gli ‘ndranghetisti, siano essi sedicenti persone normali, o imprenditori, o politici, li guarda in faccia tutti i giorni nei processi. Chi, ignorando tutto ciò, attacca Enza Rando con accuse tanto assurde quanto grossolane, si colloca oggettivamente al fianco delle mafie».

Queste le parole di Piccinini che invece tace sull’unico dato che conta: quelle notizie erano vere o no? Era ed è lampante che fossero vere anche perché tratte da fonti aperte, in gran parte istituzionali, consultabili e verificabili da chiunque.

Avevamo definito allora l’intervento di Piccinini ‘grave, pericoloso, inquietante’, segnalando il nesso inquietante tra la narrazione sulle ‘imprese’ giovanili e sui presunti meriti di Rando, le notizie giornalistiche presentate come ‘attacco’ e l’oggettivo fiancheggiamento della mafia. Un nesso che ricorda lo schema su cui, per esempio, Antonio Calogero Montante ha costruito la sua scalata al potere prima dentro Confindustria e poi in quasi tutti i gangli vitali delle istituzioni, nel suo caso – secondo quanto emerso nei processi in corso – per fini criminali e per avere buon gioco nel mascherare, tenendole lontane da occhi indiscreti, le associazioni per delinquere che è accusato di avere costituito e capeggiato.

Avevamo anche espresso preoccupazione (per lo stato di salute della libertà di stampa, alimento vitale della democrazia) sul fatto che a dare manforte a Piccinini in questo inquietante teorema (chi non riga dritto in linea con gli interessi e con gli affari di Libera fiancheggia la mafia) fossero in tanti tra i quali Stefano Vaccari, allora – legislatura 2013-2018 – senatore Pd e componente della Commissione parlamentare antimafia.

Neanche Vaccari contestava la veridicità delle notizie, semplicemente riteneva legittimi gli incarichi alla Rando. Ma – obiettavamo – che c’entra? Forse è vietato parlare di ciò che è legittimo? Ciò che è pubblico, anche se legittimo, ricade per definizione nell’attività d’informazione. Vaccari aggiungeva: «…Voglio dire di più: insinuare il dubbio nell’opinione pubblica su Libera Modena, a partire dal ruolo che gioca un suo esponente di spicco per le competenze ed esperienze acquisite in tanti anni di attività professionale, è fare il gioco delle mafie, indicando i nemici e accreditandosi come loro amici. Io credo che Enza e Libera debbano rispondere, come sempre hanno fatto, con le loro condotte e i loro progetti di educazione alla legalità e di coinvolgimento di tanti giovani nel recupero di beni confiscati. Mi fa rabbrividire come si possono sentire forti le mafie in questo momento. E penso ad Enza, dentro le aule di giustizia, e a come possa avvertire tutto questo».

Difficile dire quale tra le due posizioni, di Piccinini e Vaccari, possa essere più grave e pericolosa come attacco, esse sì, alla libera stampa e alla sua preziosa funzione. Il processo per diffamazione a mezzo stampa ha riguardato Piccinini e non Vaccari e la sentenza di condanna segna un risultato importante.

Vaccari allora, nel 2016, era senatore Pd, come oggi lo è Rando. Nel 2018 si candidò alla Camera nel collegio uninominale di Cento ma fu sconfitto. L’anno dopo però Zingaretti lo chiamo nella segreteria nazionale del Pd attribuendogli l’incarico di responsabile dell’organizzazione. Nel 2022, candidato in un collegio plurinominale (il reparto dei ‘nominati’) è tornato in Parlamento, questa volta a Montecitorio.

Date l’importanza e l’attualità del ruolo di Vaccari, oggi anche collega di Rando, vale la pena soffermarsi sulle sue parole per prendere atto che né ‘Enza’ né ‘Libera’ hanno seguito il suo consiglio di rispondere con le condotte e con i progetti perché innanzitutto lo hanno fatto a colpi di querele; e per segnalare a tutti i veri democratici di questo Paese che per Vaccari, deputato del Partito democratico e suo dirigente di vertice in tema di organizzazione, <<insinuare il dubbio>> (ovvero il semplice informare con le ovvie notazioni critiche e opinioni, il tutto sempre all’insegna del dubbio che è il sale del confronto e della dialettica democratica) è <<fare il gioco delle mafie>>. Vaccari quindi criminalizza la libera stampa quando essa adempie cristallinamente al suo dovere e rimane ancorata al suo ruolo naturale e costituzionale. Per Vaccari adempiere a questo dovere (riferendo fatti veri di pubblico interesse relativi a soggetti di cronaca esercenti pubbliche funzioni) significa <<fare il gioco delle mafie indicando i nemici e accreditandosi come i loro amici>>.

Piccinini e Vaccari, l’uno rappresentante di Libera e l’altro del Pd, in difesa della Rando (prima dell’una e oggi dell’altro) non mossero alcuna contestazione sulla verità delle notizie contenute nell’articolo di Leonelli, risolvendo il tutto nella qualificazione di liceità dei fatti riguardanti Rando e quindi esercitando la pretesa dei imporre il silenzio alla stampa mettendole, se non amica, il bavaglio: assurdo in democrazia, anche perché, diversamente, si dovrebbe teorizzare che di tutti i fatti non costituenti reato la stampa non si possa occupare, il che equivarrebbe a dire che nulla si possa pubblicare, atteso che bisognerebbe attendere che qualcuno stabilisca cosa sia reato e cosa no. E in ogni caso la realtà che in democrazia la libera stampa ha il diritto-dovere di indagare, ricostruire, raccontare e fare conoscere quando di interesse pubblico, è ben più vasta di quel minuscolo frammento dell’agire umano classificabile alla voce ‘reati o ipotesi di reato’.

Per la cronaca Vaccari ha una storia di impegno politico quale funzionario di partito (Pd e suoi predecessori), assessore e poi per dieci anni, dal ‘1995 al 2004, sindaco di Nonantola (Comune che, come visto in uno degli articoli richiamati, almeno nel 2012 e 2013 affida incarichi a Vincenza Rando); quindi assessore provinciale a Modena dal 2004, riconfermato nel 2009, nella giunta presieduta da Emilio Sabattini, artefice nel 2010 della nomina di Enza Rando nel Consiglio di Indirizzo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.

Da questo organismo la vice di Ciotti alla guida di Libera transita poi, nel 2015, nel Consiglio d’amministrazione della stessa Fondazione, per volere del sindaco Giancarlo Muzzarelli, la cui moglie, Alessandra Pederzoli, in quel periodo risulta revisore di Sorgea, azienda che conferisce altri incarichi a Vincenza Rando.

Nel cui curriculum colpisce l’analogia lessicale, anche nelle virgole e nelle virgolette, delle consulenze svolte per due enti diversi: il Comune di Nonantola e la Provincia di Modena. Di quest’ultima Rando nel periodo 2004-2011 (quando assessore all’Ambiente è Vaccari) risulta “consulente legale della Provincia di Modena in materia di Espropriazione per pubblica utilità (T.U. D.P.R. 08.06.2001 n.327) e successive modificazioni e integrazioni) e Appalti (2004-2011)”.

Negli anni 2012-2013 Rando è … invece “consulente legale del Comune di Nonantola (MO) in materia di Espropriazione per pubblica utilità (T.U. D.P.R. 08.06.2001 n.327) e successive modificazioni e integrazioni) e Appalti (2012-2013)”.

Stranezze del caso, a prescindere dalla casualità dell’impegno di pubblico amministratore del dirigente Pd Vaccari nei due enti, il Comune di Nonantola e la Provincia di Modena. Vaccari, funzionario di partito non rieletto in Parlamento nel 2018, appena cessato l’incarico parlamentare fu assunto il primo giugno dello stesso anno come responsabile Relazioni esterne di Unieco Holding Ambiente di Reggio Emilia.

Per tornare ai fatti oggetto dell’articolo di Leonelli, tra le amministrazioni e le aziende pubbliche targate Pd che all’epoca conferivano incarichi a Rando, c’è Sorgea, Società multiservizi ambientali, di cui era revisore Alessandra Pederzoli, moglie del sindaco di Modena Muzzarelli il quale, proprio da sindaco, tra l’altro spingeva Rando nel Consiglio d’amministrazione della Fondazione Cassa di Risparmio Modena.

Sorgea e Muzzarelli furono investiti da un ciclone mediatico quando, a novembre del 2013, divennero noti i numerosi incarichi della moglie Pederzoli, e ciò a seguito del controverso fallimento della società partecipata En.Cor di Correggio e, nell’aprile 2015, dell’indagine su un appalto ad Ischia di Cpl Concordia. A gennaio 2016, nel processo ‘Aemilia’ contro la ‘ndrangheta prima infiltratasi e poi insediatasi nel territorio emiliano, emerge anche che la dirigente dell’ufficio Urbanistica del Comune di Modena Maria Sergio (moglie del sindaco Pd di Reggio Emilia Luca Vecchi) aveva taciuto l’acquisto della propria casa da uno degli imputati, Francesco Macrì, poi condannato in quanto ritenuto prestanome delle ‘ndrine.

Da rilevare che Maria Sergio, dirigente Urbanistica del Comune di Reggio Emilia, si trasferì in quello di Modena quando, nel 2014, nel primo venne eletto sindaco il marito Vecchi, subentrando a Graziano Del Rio (del quale era il braccio destro) dimessosi l’anno prima per fare il ministro.

La donna, nativa di Cutro in Calabria, parente del boss della ‘ndrangheta Francesco Sergio, fratello di suo nonno e nonno di un imputato nel processo Aemilia, secondo un collaboratore di giustizia avrebbe reso favori a imprenditori originari di Cutro quando era dirigente del Comune di Reggio Emilia in relazione ad alcune operazioni immobiliari nell’area di Pieve Modolena. Lo stesso Del Rio, cessato dalla carica di sindaco nel 2013 e da quel momento ministro e membro di tutti i governi di quella legislatura fino al 2018, interrogato dai magistrati della Dda di Bologna, offrì versioni lacunose, ondivaghe e parziali sui suoi viaggi a Cutro e sui rapporti tra il Comune di Reggio Emilia e quello calabrese, sostenendo peraltro un gemellaggio che invece non c’era. E nel 2019, allora presidente del gruppo Pd alla Camera, Del Rio dovette spiegare dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia il perché delle visite a Cutro: <<per un gemellaggio tra comuni e tra cooperative emiliane e della Locride impegnate contro la mafia, non per fare campagna elettorale>> chiarì ricordando anche un protocollo di legalità stipulato con il prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro nel 2011.

E sullo sfondo rimane enorme come un macigno il dato di una comunità di Cutro che a Reggio Emilia eleggeva consiglieri, esprimeva amministratori comunali contando moltissimo negli affari della città, nonché dei viaggi di Del Rio nel comune della Locride e, soprattutto, della potenza criminale della cosca Grande Aracri ramificata in Emilia come hanno attestato l’inchiesta e il processo denominati, appunto, Aemilia e ben presente e attiva anche nei traffici d’influenza e nei rapporti che conducono ad alcune delle più importanti leve del potere, anche istituzionale.

Nonostante interrogazioni parlamentari e un vibrante dibattito pubblico, Maria Sergio, la dirigente dell’Urbanistica del Comune di Modena strenuamente difesa dal sindaco Muzzarelli (quello che affidava incarichi al numero due di Libera Vincenza Rando) non lasciò l’incarico, mentre il coniuge, dirigente Pd, che insieme a lei – la cui parentela con un boss mafioso non è certo motivo di responsabilità, ma solo un dato da tenere presente nella conoscenza e nella comprensione della realtà – è incorso nella brutta avventura dell’acquisto della casa da un mafioso, dal 2014 è sindaco di Reggio Emilia.

Peraltro nel 2016, quando Sergio non è più dirigente del Comune di Reggio Emilia ma di Modena, emerge che un piano urbanistico approvato su richiesta di privati, tra cui parenti della stessa Sergio, negli anni precedenti ha avuto la sua firma secondo quanto riferito da diversi organi di stampa tra cui Il Resto del Carlino.

Per la cronaca Piccinini cessato dall’incarico ricoperto dal 2015 di referente provinciale di Libera a Modena (da settembre 2021 c’è Giulia Tosti) è uno stimato docente universitario, ordinario di Fisica generale dell’Università di Bologna, con un passato politico, fino a tempi recenti, di pubblico amministratore Pd e di centrosinistra nel Comune di Savignano sul Panaro e nell’Unione Terre di Castelli.

Rispetto a questo spaccato di rapporti, scambi, incarichi ben remunerati, senza minimamente lambire la sfera di comportamenti rilevanti sotto il profilo penale è lecita la domanda se l’allora numero due di Libera Vincenza Rando, attuale senatrice del Pd, fosse nelle condizioni di vigilare, per conto di Libera e della sua missione morale, su quell’intreccio e su quegli affari di suoi partner e danti causa del Pd e delle imprese amiche? Siccome la risposta non può che essere si, chiunque abbia a cuore la verità e la trasparenza della cosa pubblica deve ringraziare un giornalista come Giuseppe Leonelli e l’intero corpo professionale di quel piccolo ma prezioso quotidiano provinciale che pagò con la vita (sì, con la vita: fu chiuso poche settimane dopo dall’editore lanciatosi in soccorso del Pd) questo atto di indipendenza e di buon giornalismo.

Tornando al protagonista della notizia di oggi, l’allora responsabile di Libera Piccinini, questi, prima di assumere la carica nel 2015, era stato dal 1999 consigliere comunale e vice sindaco di Savignano sul Panaro, il piccolo comune del Modenese nel quale nel 1996 risulta costituita e dove ne fu indicata la sede legale, Avviso pubblico, ‘Associazione di enti locali e regionali per la formazione civile contro le mafie’ che è il braccio pubblico di Libera al quale centinaia di enti pubblici versano danaro per finaziare attività e strutture operative.

Nei mesi seguenti quell’agosto 2016 accadde che Ciotti in un convegno, il 25 novembre a Modena, annunciò di avere depositato due querele contro l’articolo di Leonelli il quale, da parte sua, aveva già querelato Piccinini.

Quelle querele contrapposte finirono sul tavolo dello stesso pubblico ministero. Il quale chiese l’archiviazione di quella di Leonelli contro Piccinini e trasmise quella di Libera alla Procura di Ancona, competente per territorio perché Prima Pagina era un quotidiano cartaceo stampato nel capoluogo marchigiano.

Per fortuna il Gip del Tribunale di Modena, Salvatore Romito, il 4 luglio 2018 respinse la richiesta d’archiviazione e ordinò l’imputazione coatta di Piccinini.

<<L’accostamento, dedotto in termini di assolutezza, tra chi attacca Enza Rando ed il porsi oggettivamente al fianco delle mafie – osservò il giudice – costituisce con tutta evidenza una lesione dell’onore e della reputazione del destinatario di tale valutazione, in ragione del noto disvalore attribuito alle organizzazioni criminali ed ai relativi fiancheggiatori, cui il Leonelli risulterebbe ascritto semplicemente per aver redatto una inchiesta giornalistica, con argomentazioni la cui fondatezza non è lecito esaminare in questa sede>>.

Per il giudice, si legge nel provvedimento, quell’espressione utilizzata da Piccinini non può rientrare nel diritto di critica, difettando sia <<nell’aderenza a fatti storici concreti e verificabili>>, sia nella <<continenza della valutazione espressa>>.

Ne scaturì così il processo conclusosi pochi giorni fa con la sentenza di condanna di Piccinini.

Abbiamo accennato anche a come quel limpido esercizio di giornalismo verosimilmente abbia comportato di fatto la morte di quel giornale.

Tra agosto e ottobre 2016 Prima Pagina trattò gli incarichi conferiti da enti e aziende pubbliche a guida Pd a Vincenza Rando, mettendo in luce il fitto intreccio di relazioni tra Pd, i pubblici amministratori che lo dirigevano, Libera, scambi, attività, interessi, relazioni; inoltre parlò di Avviso pubblico che è emanazione di Libera, toccando così un altro fronte dello stesso tema. A fine ottobre Prima Pagina cessò le pubblicazioni perché così decise, a causa di problemi finanziari, l’editore Dino Piacentini, costruttore di simpatie renziane e finanziatore della Leopolda il quale nelle settimane e nei mesi successivi si lanciò, insieme ad un altro imprenditore del mattone, Massimo Pessina, di fede berlusconiana, nel tentativo di salvare il quotidiano L’Unità, organo del Pd che viveva anni di crisi e che il partito, allora guidato da Renzi in quei giorni alle prese con la sua battaglia per la vita (il referendum costituzionale), cercava di tenere a galla.

A novembre 2016, quando Prima Pagina non c’era più, accaddero altri di fatti.

Il 25 novembre Pio Luigi Ciotti, numero uno di Libera, a Modena per un convegno fece sapere di avere depositato due querele contro Leonelli e contro Prima Pagina per l’articolo del 17 agosto precedente.

Il giorno dopo Vincenza Rando denunciò che nella notte, tra venerdì 25 e sabato 26 novembre, il suo studio legale era stato oggetto di un furto con incursione vandalica, probabilmente a scopo intimidatorio, da parte di ignoti (in proposito riferiamo oggi che dopo la lettura dei nostri articoli dello scorso anno, alcuni lettori di Niscemi ci hanno segnalato di ricordare che episodi analoghi di intrusione vandalica e intimidatoria avevano coinvolto lo studio legale Rando nel centro nisseno dove l’allora vice sindaca faceva politica, amministrava la cosa pubblica ed era nelle grazie di Libera. Su tale attività dell’attuale senatrice un articolo (qui).

Quel giorno quindi la notizia delle querele presentate da Ciotti, da Rando e da Libera contro Leonelli e contro Prima Pagina e quella della denuncia di un raid vandalico o furto nello studio Rando s’intrecciarono. E ciò non solo per l’evidente associazione temporale, ma, nella prospettazione di qualcuno, perfino in un nesso di causalità che, ancora una volta e ancora di più, tese a criminalizzare la libera stampa e l’articolo – veritiero, corretto e meritorio come abbiamo visto – di Leonelli.

E il giornalista, nel frattempo privo del suo giornale chiuso dall’editore, dovette intervenire per affermare concetti ovvii che in pochi però pare volessero tenere presenti, mentre la stragrande maggioranza gongolava dinanzi al fatto che il quotidiano da lui diretto non c’era più, per volere dell’editore il quale non aveva risorse finanziarie sufficienti per tenere in vita Prima Pagina, quotidiano locale, ma ne aveva per lanciarsi in soccorso del Pd e salvare L’Unità, quotidiano nazionale.

Intanto nell’intreccio temporale dei fatti del 25 novembre 2016 accadde che il magistrato inquirente che si occupava del caso, il procuratore di Modena Lucia Musti, desse pubblicamente notizia delle azioni legali di Libera contro Prima Pagina (perchè?) e rilasciasse attestazioni di solidarietà a Libera e a Rando per la denuncia dell’incursione nello studio legale, nonostante nulla ancora se ne sapesse, men che meno il movente di chi aveva agito. E nulla si saprà mai, sicché quel fatto, quel giorno tanto grave ed allarmante, sarà come mai avvenuto.

Peraltro, per la casualità della cronaca, a marzo 2022 è stato denunciato che Musti, nel frattempo promossa procuratrice generale reggente della Corte d’Appello di Bologna, aveva subìto una duplice intimidazione: una macchia di vernice rossa sul suo portone di casa e una lettera minatoria in ufficio. Musti nella cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario 2022, da Pg facente funzioni parlò di ‘distretto di mafia’ in Emilia e negli anni ha legato il suo nome all’accusa in tanti processi sfociati nelle condanne per gli omicidi di Brescello e Reggio Emilia e nelle inchieste ‘Grimilde’ ed ‘Aemilia’ contro le ‘ndrine ormai radicate nella regione e, in particolare, nel Modenese e nel Reggiano. Ovviamente, come è rituale quando vengano segnalati episodi di possibile intimidazione, scattò un coro di solidarietà. Come a novembre 2016 per Vincenza Rando e come centinaia di volte in tante situazioni, anche le più disparate.

Per tornare ai fatti del 2016 e alla querela depositata da Ciotti-Rando, la cosa grave, drammatica e sconvolgente è che alcuni associarono il presunto furto o presunta incursione nello studio Rando ad una campagna diffamatoria riconducibile agli articoli di Prima Pagina dell’agosto precedente: tra questi ‘alcuni’ anche figure ed esponenti del Pd e di Libera.

Per la cronaca, la denunciata azione criminale avrebbe riguardato la stanza di Vincenza Rando e quella di un giovane legale operante nel suo studio professionale, Christian Mattioli Bertacchini, dirigente Pd. Quindi il quotidiano modenese Prima Pagina dopo la pubblicazione degli articoli su Libera, su Rando, sul Pd e sugli enti pubblici da esso amministrati, sugli incarichi e sugli intrecci che abbiamo visto (notizie vere e mai contestate) fu, nell’ordine: 1) chiuso dal suo stesso editore che poco dopo si lanciò in soccorso degli affari del Pd; 2) venne querelato da Libera e il suo direttore Giuseppe Leonelli fu messo alla sbarra; 3) questi venne altresì criminalizzato da esponenti di Libera e del Pd che lo accusarono di servire la mafia, ma in effetti serviva la libera informazione, il bene pubblico e la democrazia; 4) fu messo quindi nel mirino anche in relazione a responsabilità quanto meno morali in ordine ad un presunto atto criminale denunciato da Vincenza Rando e i cui autori-fantasma rimasero misteriosi perché le indagini svolte furono archiviate e si risolsero in un nulla di fatto.

Infatti tempo dopo fu la stessa Rando – la quale dal 26 novembre 2016, per il solo fatto della denuncia, incassò molteplici solenni attestazioni di solidarietà compresa quella del Consiglio comunale – a dare notizia dell’archiviazione senza esito alcuno e, in assenza di ogni riscontro, a fornire la propria versione: sono stati ‘ladri intellettuali’ interessati solo a leggere delle carte. Mistero! In effetti le notizie di stampa diffuse nell’immediato, dal 26 novembre 2016, parlarono del furto di un hard disk. Ma questo elemento via via scomparve e quando gli inquirenti dovettero prendere atto di non avere trovato un solo elemento utile a risolvere il giallo e quindi desistere, la ‘vittima’ del reato denunciato parlò solo di un ‘furto di lettura’.

Per fortuna della libera stampa e dell’inestimabile valore sociale che essa rappresenta in una società democratica, Leonelli e altri giornalisti riuscirono poco tempo dopo a dar vita ad un altro quotidiano, La Pressa, tuttora attivo e presente con la sua informazione nella realtà modenese.

Infine, rimandando i lettori interessati alla lettura integrale dei servizi di In Sicilia Report sul caso-Leonelli pubblicati lo scorso anno, è importante focalizzare gli elementi del suo articolo del 2016 ‘incriminato’ e criminalizzato al punto da essere stato – da Libera – additato come fiancheggiatore della mafia.

Nell’articolo, come risulta evidente, Leonelli riportava, nell’attualità del momento datata ad agosto 2016, verità documentali incontestabili come, per esempio, i lucrosi incarichi e le fruttuose consulenze correntemente conferite a Rando da enti o aziende pubbliche emanazione di un sistema di potere politico-economico che in quel territorio riconduce al Pd e a quella affaristica galassia contigua in cui grande parte hanno Unipol e le Coop.

E così, correttamente e doverosamente rispetto alla comunità dei cittadini lettori del quotidiano, Leonelli faceva sapere che Vincenza Rando dal 2015 era membro del Consiglio d’amministrazione della Fondazione CrMo (Cassa di Risparmio di Modena) retribuita con 51 mila euro l’anno; nel 2015 aveva avuto un incarico da 25 mila euro dalla giunta regionale Bonaccini per coordinare in un testo unico norme regionali con altre in tema di legalità; dal 2014 un incarico annuo da 20.400 euro da Sorgea, multiutility di proprietà di cinque comuni con sede a Finale Emilia e concessionaria di servizio idrico dal 2008 al 2024 da parte dell’Ato di Modena; svariate consulenze dalla Provincia di Modena come una da 96 mila euro nel 2010, una da 25 mila euro nel 2013 in materia di espropriazioni ed appalti, un’altra dal Comune di Nonantola da 49 mila euro in tema di opere stradali, ecc…

Il punto non è la liceità di ogni incarico che, in assenza di specifici elementi tali da metterla fattualmente in dubbio, non è in discussione, ma l’intreccio perverso che ne è alla base.

Offrendo una pagina di autentico e limpido giornalismo Leonelli collocava, correttamente e nel pieno rispetto della verità, ogni tassello nel puzzle offerto ai lettori affinchè conoscessero i fatti, fossero informati, potessero quindi liberamente valutare ed essere così ‘Cittadini’, non sudditi come vorrebbe chi tenda a limitare o impedire la libertà di stampa e i correlati diritti di cronaca e di critica.

Il puzzle più o meno era questo. Gran parte dei pubblici amministratori che manovravano nel territorio ingenti risorse pubbliche erano anche dirigenti, esponenti, attivisti e iscritti del Pd; inoltre molto vicini a Libera la quale era (è ancora) finanziata anche dai gruppi economici contigui al Pd come Unipol e Legacoop; Rando era (fino a quattro mesi fa) la ‘numero due’ di Libera in Italia e, comunque, da molto più tempo il volto ed il motore dell’associazione nel territorio dell’area modenese. E per quanto sul piano formale nulla sembri ostare, s’imponeva all’attenzione il fatto che i servizi dell’avvocata Rando e del suo studio legale venissero prescelti, con mero atto discrezionale e intuitu personae, dai soggetti prima elencati il cui profilo era triplice: essere dirigenti o esponenti Pd; disporre correntemente, per le funzioni istituzionali esercitate, di soldi pubblici in grade quantità; essere vicini e a volte perfino interni a Libera.

Non si dimentichi che a Modena e nell’Emilia il Pd (come, storicamente in precedenza, i Ds, il Pds, il Pci) è nettamente il primo partito, spesso capace da solo di esprimere intere pubbliche amministrazioni e, attraverso il proprio ceto politico dirigente trapiantato nel sistema pubblico del governo e del sottogoverno, di tenere e manovrare ogni filo di un sistema di potere pervasivo e totalizzante. Nelle ultime elezioni comunali, 2019, il sindaco Pd di Modena Giancarlo Muzzarelli (che nel 2014 ha voluto nel Consiglio d’amministrazione della Fondazione bancaria Vincenza Rando la quale già dal 2010, spinta dal presidente della Provincia, sedeva nel Consiglio d’Indirizzo) è stato eletto al primo turno con il 53,4 e la lista Pd ha ottenuto il 36,2. Cinque anni prima lo stesso Muzzarelli, costretto al ballottaggio per un soffio (49,7) era stato poi eletto con il 63,1 e la lista Pd aveva raggiunto addirittura il 45,5; nel 2009 tale dato era stato del 44,9, con il sindaco, Giorgio Pighi, eletto al primo turno. E nel 2004 (il Pd non c’era), lo stesso Pighi, Ds, era stato eletto al primo turno, con il suo partito, Ds appunto, al 39,4. E in ogni elezione – regionali politiche, europee – il Pd è stato un partito mediamente del 40%, anche quando altrove scendeva al 15. Ciò solo per rilevare, nel contesto dell’analisi dei fatti, quanto potere pubblico e quante commistioni e traffici d’influenza passino attraverso questo partito legatissimo a Libera, non solo negli ideali e nei sentimenti, ma anche negli interessi e negli affari.

Peraltro Bonaccini all’atto della sua prima candidatura, nel 2014, a presidente della Regione avrebbe voluto Vincenza Rando nel Consiglio regionale ma lei, su indicazione di Ciotti come riferiva Leonelli, declinò l’invito a candidarsi. Ciò perché l’eventuale suo ruolo nel Consiglio o, eventualmente, nel Governo della Regione avrebbe certamente reso più forte la necessità di una separazione degli affari correnti (quelli politici da quelli di Libera e gli uni e gli altri da quelli professionali), ma il rifiuto, che non le impedì di essere nominata consulente ben retribuita, non ha certamente annullato un intreccio molto forte che, pur non costituendo – di per se, se non per altra causa – illecito, ha avuto quanto meno l’effetto di asservire Libera ad un sistema di affari e di potere totalmente incompatibile con la sua natura.

Il punto nodale, che Leonelli, semplicemente riferendo dati certi e documentali, colse con lucidità e offrì ai lettori, è questo: se Vincenza Rando – allora volto di Libera e sua stessa immagine ai vertici dell’organizzazione – partecipa così attivamente ad un sistema di potere, d’incarichi, d’affari, di consulenze ed è oggettivamente beneficiata da un sistema di maneggio di danaro pubblico orchestrato da un partito politico, dai suoi fiancheggiatori e dalle sue leve collaterali; se lei è un altissimo dirigente di Libera, in pratica il numero due in ambito nazionale, seconda solo a Ciotti il quale peraltro le concede carta bianca su tutti gli ‘affari legali’ e il vasto ambito di sua competenza, sostanzialmente gran parte dei rapporti con il potere pubblico; se lei, come avvocato, viene ricoperta di cariche, incarichi e consulenze essendo il suo nome, anche professionale, inscindibilmente connesso a quello di Libera; se, come accade in modo capillare in Emilia e nel Modenese, a concederle discrezionalmente questi incarichi è il ceto politico nettamente dominante alla testa del sistema di potere pubblico che aziona i cordoni della borsa contenente i soldi dei cittadini-contribuenti; se questo ceto partitico coincide in gran parte con un’area politica vicina, anzi contigua e spesso, in tante posizioni individuali, interna a Libera; se perfino Libera in quanto tale ne ottiene lucrosi vantaggi e finanziamenti; se avviene tutto ciò, come potrà mai Libera adempiere al suo dovere morale scolpito nello statuto che è di combattere e prevenire le mafie, la criminalità organizzata, la corruzione le quali nello scambio di nomine e favori, nei traffici d’influenze e d’affari, nelle contiguità – inopportune e controindicate anche se non illecite né vietate – con il potere, nei circuiti d’affari d’ogni tipo hanno il loro humus naturale e terreno fertile?

E a rendere ancora più urgente la domanda, l’articolo di Leonelli riferiva una vicenda inquietante di conflitto di interessi del direttore di Libera, descriveva varie situazioni che rischiavano di ridurre quest’ultima a holding finanziaria senza più l’anima delle origini a guidarla, sciorinava i dati del suo bilancio da 5 milioni di euro, frutto di contributi pubblici, delle quote annuali da 30 euro a carico dei soci, delle donazioni per diverse centinaia di migliaia di euro attraverso il 5 per mille, delle generose elargizioni di Unipolis, fondazione Unipol che fa riferimento alla Legacoop, delle campagne raccolta fondi, dei lasciti ereditari in forza del suo prestigio morale, ecc…

Abbiamo visto come, con un pezzo di autentico giornalismo libero, Leonelli, doverosamente, abbia illustrato questa galassia e questo intreccio e lo abbia fatto con precisione documentale, tant’è che nessuna contestazione nel merito dei fatti gli è stata avanzata tranne – almeno questo pare evincersi dalle doglianze contenute nella querela di Libera – una presunta difformità scaturente dalla disciplina di esenzione iva nel caso dell’indennità erogata dalla Fondazione Cacca di Risparmio Modena. Ma anche in questo caso l’articolo riferiva con esattezza documentale quanto riportato da fonti ufficiali aperte e dai siti istituzionali di riferimento. E in ogni caso – a tutto concedere – come può la mancata esplicitazione di eventuali, comunque lievi e irrilevanti, differenze tra importi lordi e importi netti, concretare l’atto del diffamare qualcuno? La diffamazione è atto doloso che, nel caso del mezzo della stampa, sussiste solo se commesso in dispregio della verità (e invece quanto scritto da Leonelli è tutto vero), dell’interesse pubblico alla conoscenza (qui presente al massimo livello possibile) o della continenza della forma (nel nostro caso irreprensibile).

Ma per conoscere la sorte del processo, originato dall’assurda querela di Libera – in cui Leonelli è imputato, oltre sei anni dopo i fatti dobbiamo ancora attendere.

Intanto abbiamo però un punto fermo. Fu Libera a diffamare Leonelli con quelle parole – assurde, infamanti, calunniose, violente ed eversive nella misura in cui attaccano un fondamento della nostra democrazia come la libertà di stampa – dell’allora responsabile provinciale di Libera Maurizio Piccinini. Se consideriamo che il pm (sic!) aveva richiesto l’archiviazione, qquesto esito non era scontato ma c’è stato un Giudice … a Modena e tutte le persone oneste che abbiano a cuore il bene comune e la democrazia oggi non possono che gioirne.

Libera condannata. Il suo referente provinciale di Modena diffamò il giornalista Leonelli: per avere riportato notizie vere sui lucrosi incarichi di Vincenza Rando (allora vice di Ciotti ed oggi senatrice del Pd) e sull’intreccio di interessi affaristici che annebbiava la missione dell’associazione fu additato come ‘fiancheggiatore delle mafie’. Il suo invece era vero giornalismo, prezioso per la verità e la democrazia