“Femminicidio Patrizia Russo”: Salamone condannato all’ergastolo
La Corte d’Assise di Alessandria ha condannato all’ergastolo Giovanni Salamone, l’imprenditore agrigentino reo confesso dell’omicidio della moglie, Patrizia Russo.
Lo scorso 8 giugno, innanzi alla Corte d’Assise di Alessandria, presieduta da Maria Teresa Guaschino, il pubblico ministero, Andrea Trucano, ha invocato la condanna a 21 anni di reclusione a carico di Giovanni Salamone, attualmente detenuto nel carcere di Genova, 62 anni, di Agrigento, imprenditore agricolo, imputato di avere ucciso la moglie Patrizia Russo, 53 anni, anche lei di Agrigento, il 16 ottobre scorso, nell’abitazione di via Cavoli a Solero in provincia di Alessandria in Piemonte dove lei è stata a lavoro come insegnante. Ebbene adesso i giudici gli hanno inflitto l’ergastolo. Gli si contesta l’omicidio volontario aggravato dall’averlo commesso contro la coniuge e per futili motivi. Lui ha colpito lei più volte al torace e alla schiena con un coltello da cucina. Appena dopo essere stato arrestato ha raccontato: “Ieri sera abbiamo cenato con suo fratello. Abbiamo parlato anche di me, visto che da qualche giorno mi sento depresso e anche lei mi vedeva cupo. Ho dei debiti, ma lei stessa mi aveva rassicurato dicendo che non era nulla di grave e che saremmo andati avanti. Quando siamo andati a dormire lei si è addormentata subito, io invece mi assopivo e mi risvegliavo, non riuscivo a dormire come avrei voluto. Intorno alle 5, allora, sono sceso a prendere il coltello e l’ho ammazzata. Ho fatto una cavolata”. I conoscenti descrivono la coppia come “affiatata, mai una lite o un diverbio, sempre uniti”. Tre giorni dopo il femminicidio, il 19 ottobre, Giovanni Salamone ha tentato il suicidio nel carcere “Cantiello e Gaeta” di Alessandria. Ha approfittato dell’assenza del compagno di cella, e in doccia si è legato al collo un cappio rudimentale ricavato con delle lenzuola. Gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno bloccato in tempo. Lui, come ribadito dal suo difensore, l’avvocato Salvatore Pennica, sarebbe preda di un grave stato depressivo insorto quando gli sono state recapitate delle cartelle esattoriali relative alla sua azienda agricola ad Agrigento con addebiti che avrebbe temuto di non essere in grado di pagare. Lo scorso 12 maggio in aula ha dichiarato: “Ho ucciso mia moglie perché in quel momento ero posseduto da Satana”. La Corte d’Assise ha rigettato l’istanza della difesa di eseguire una perizia psichiatrica. I figli della coppia, Francesco e Giuliana, si sono costituiti parte civile tramite gli avvocati Maria Luisa Butticè e Anna Maria Tortorici. Gli è stata riconosciuta una provvisionale, ovvero un anticipo del risarcimento, di 250.000 euro.
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