Brindisi, scomparsa tutta una famiglia

“Dov’è mio figlio. Dove avete ammazzato Romolo, dove avete nascosto il suo corpo. Lo so che siete stati voi. Lo sanno tutti, qua in paese, che siete stati voi. Non ve la caverete. Ridatemi il corpo di mio figlio”.
Nicola Guerriero aveva 55 anni, ma ne dimostrava molti di più. Come sua moglie, la coetanea Salvatora Tieni. Sui loro visi i segni di una vita di fatica nelle campagne, ma anche altre rughe profonde provocate dal dolore per quel loro figlio scomparso nel nulla il 29 maggio del 1990, quel figlio che si era messo a “lavorare” per la persona sbagliata.
Siamo a Torre Santa Susanna, paese della provincia di Brindisi, territorio da sempre tenuto sotto scacco dalla famiglia di Ciro e Andrea Bruno che lì ha “governato” con l’arma di una forza intimidatoria senza limiti e del sostegno elettorale anche a una parte della politica locale. Una “famiglia” affiliata alla Sacra corona unita che, nonostante le inchieste, i processi e gli arresti, “governa” ancora. La Direzione investigativa antimafia, nella sua ultima relazione semestrale, scrive a proposito della mafia brindisina: “Nel limitrofo comune di Torre Santa Susanna permane il clan Bruno”.
Nicola Guerriero non perdeva occasione, quando incontrava i Bruno e i loro luogotenenti nella piazza e nei bar del paese. Urlava, inveiva senza paura. Rivoleva suo figlio, voleva sapere dove era stato nascosto il suo corpo.  Gli uomini del clan fingevano di ignorarlo, dicevano in giro che era un pazzo. Ma in verità covavano agitazione per quelle accuse pubbliche, per le indagini private che quei genitori disperati continuavano a condurre cercando di avere informazioni, di sfondare il muro di omertà che aveva ridotto al silenzio un intero paese dove, in quel 1990, erano scomparse nove persone. E, soprattutto, marito e moglie andavano spesso in Procura, a Brindisi. Ha aspettato poco più di un anno la mafia di Torre. Poi ha fatto sparire anche loro, Nicola Guerriero e la moglie Salvatora Tieni.
Era l’11 agosto del 1991. Siamo nel pieno dei festeggiamenti per la patrona del paese, Santa Susanna. I coniugi decidono di dare qualche ora di tregua al loro dolore. Si mettono i vestiti buoni ed escono dalla loro casa di via Duca d’Aosta. Salgono sulla motoape. Non vengono visti mai più, né in piazza, né a casa, né altrove. Svaniti.  E se il corpo di Romolo, ormai ridotto a poche ossa, viene trovato sette anni dopo la scomparsa in contrada Monticelli, dei suoi genitori ancora oggi non si sa niente.  Almeno tre volte in questi quasi trent’anni gli investigatori hanno ritenuto e sperato di aver finalmente scoperto i loro resti in fondo a pozzi abbandonati, in terreni mai frequentati. Ma gli esami su quelle ossa hanno dato esiti negativi: erano tutti altre vittime della Scu.  Niente corpi, nessun colpevole, nessun processo, nessuna condanna. Era questo che si voleva. Caso chiuso, archiviato, a meno che non emergano altri elementi, a meno che qualcuno del clan di Torre si decida a collaborare, a raccontare. A meno che non si apra uno spiraglio in quell’omertà diffusa a Torre. Cose che sino ad oggi non sono accadute.
Perché era stato ammazzato Romolo Guerriero? Per uno dei soliti eventi che accadono lì dove comanda la mafia. Romolo si era unito al boss Cosimo Persano, imprenditore vitivinicolo. Persano si stava rendendo troppo autonomo. Fu accusato di aver compiuto una rapina ai danni di una bisca del fondatore della Scu, Pino Rogoli. Con i Bruno era in corso una faida per i possedimenti agricoli. Il 9 marzo 1990 Persano era in auto, Romolo era il suo autista.  Spararono e uccisero il boss mentre Romolo riuscì a sfuggire all’agguato. Ma, in meno di due mesi, lo scovarono. Aveva visto in faccia gli assassini del suo capo. Fu un’esecuzione in pieno stile mafioso.  La Scu torrese non voleva lasciare tracce: l’obiettivo era eliminare tutti coloro che indagavano anche privatamente e collaboravano con la Procura. Il 7 febbraio del 1991, qualche mese prima dei coniugi  Guerriero, scomparve anche la compagna di Cosimo Persano, Silvana Foglietta, madre dei suoi quattro figli. Era in auto a Ostuni. Fu accerchiata da un commando. Si chiuse dentro terrorizzata, bloccando le portiere. I killer spaccarono i parabrezza con un grosso masso e la portarono via. Aveva 37 anni. Neanche il suo corpo è mai stato ritrovato. Cinque vittime, tre delle quali del tutto innocenti, per uno sgarro. Così funzionava la mafia brindisina. E a Torre i Bruno hanno continuato a comandare.
I Guerriero hanno un’altra figlia, Mina, unica sopravvissuta alla strage e diventata collaboratrice di giustizia, testimone fondamentale in un processo che ha fatto condannare il clan per associazione a delinquere di stampo mafioso e per l’omicidio del fratello Romolo. Per molti anni inserita in un programma di protezione e lontana dal suo paese, aveva tentato di vendere le proprietà di famiglia a Torre. Non le è stato mai concesso. Appena affissi i cartelli “in vendita” davanti all’abitazione dei genitori, comparvero sui muri le scritte “Chi compra muore” e “Lascia o muori”.
Un potenziale compratore che aveva mostrato interesse alla casa fu picchiato a sangue da aggressori a volto scoperto e tra i passanti. Disse di non averli riconosciuti e rinunciò all’acquisto. Un altro, che aveva già versato la caparra di 10mila euro ad un notaio, preferì perdere i soldi pur di non rischiare la vita. I boss non danno tregua nonostante i processi, le condanne, gli arresti. I boss continuano a decidere su tutto a Torre Santa Susanna. Il patrimonio dei Bruno di contrada Canali? E’ enorme ed è stato ovviamente confiscato. E’ la più consistente confisca alla mafia in Puglia. L’Amministrazione comunale non pare interessata a utilizzarlo per fini sociali. Con la nuova legge sicurezza potrebbe essere venduto a privati. Dunque, cerchiamo di indovinare nelle mani di chi, in un modo o nell’altro, ritornerà.

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