Mio padre, il maresciallo segugio

<<Lucia, il Signore ci aiuta!>>.
Una frase semplice ed essenziale, ma al tempo stesso forte e decisa, che accompagna ogni mio ricordo e che suggella la tempra morale dell’uomo e del padre.
Un uomo animato da una fede in Dio istintiva e profonda, guidato da un radicato senso della giustizia, sorretto da un’incrollabile pietas verso i deboli e gli indifesi.
Un padre amorevole ed affettuoso, che con una presenza salda e sicura ha guidato le stagioni della mia infanzia e della mia adolescenza e che con una testimonianza appassionata ed eroica ha continuato ad illuminare il percorso della mia esistenza.
L’eco di quelle parole mi riporta alla tenera e confortante rassicurazione, con cui cercava di placare le ansie della mia crescita e di mostrarmi l’unico valido fondamento della vita.
Gli stessi imperativi ispiravano l’esperienza professionale, segnata dalla sua personalità determinata e carismatica.
Ancora oggi le testimonianze di amici, colleghi, magistrati restituiscono l’immagine del “segugio” e del “comandante”.
“Segugio” per l’arguzia e la tenacia, con cui intravedeva e scandagliava le piste di indagine fino ad assicurare i colpevoli alla giustizia; “comandante” in virtù della leadership, che non imponeva per il ruolo istituzionale, ma che esercitava spontaneamente per la naturale autorevolezza.
Una passione forte e contagiosa, che forgiava e cementava i rapporti umani di una “squadra” ante litteram. La condivisione giornaliera di stili di pensiero e metodi di lavoro, le lunghe notti insonni trascorse a redigere rapporti, interrogare sospetti, effettuare appostamenti, l’attenzione e la cura paterne verso i suoi carabinieri: questo il profilo del “cavaliere” come emerge dalle testimonianze dei suoi uomini, ancora oggi intrise di sincera commozione.
Mi piace ricondurre queste doti di umanità alle origini umili, ma sane ed integerrime di mio padre. Penultimo di dieci fratelli, è cresciuto in una delle tante famiglie contadine che, con la genuinità dei loro costumi e la durezza del loro impegno quotidiano, hanno sorretto la nazione nel tragico sforzo bellico e nella delicata ricostruzione del secondo dopoguerra.
Mente e cuore sono stati formati al rispetto dei cardini della società civile: l’amore per la famiglia, il senso del dovere, il rispetto della legge, l’attaccamento alla giustizia, la dedizione al lavoro.
In quest’ottica si inquadra la scelta della carriera militare, intesa come una missione generosa a servizio dei cittadini onesti. Palermo non è, quindi, una destinazione casuale ma è l’obiettivo di una scelta precisa e deliberata, l’espressione della volontà di impegnarsi in una strenua lotta contro la criminalità in un contesto lavorativo fra i più temibili ed insidiosi.
E’ nel reparto “Delitti contro il patrimonio” del “Nucleo Investigativo” del Comando Provinciale dei Carabinieri che mio padre, a partire del 1965, combatte fino alla morte una guerra dura ed instancabile contro la mafia palermitana.
La retorica tessuta intorno al pool antimafia, il clamore sollevato dalle stragi degli anni ’90 e tanta superficiale letteratura antimafia rischiano di confinare nell’ombra e di sottrarre alla memoria dei nostri giovani le figure di uomini come mio padre, che, con assoluto sprezzo del pericolo e a rischio della propria vita, hanno ostinatamente e silenziosamente contrastato la “piovra” in un clima di totale isolamento, diffusa ostilità e generale omertà.
Rimane ingiustamente nell’oblio il lavoro paziente e certosino, con cui mio padre ha ricostruito l’intricato mosaico della mafia palermitana degli anni ’70, lasciandone trapelare il carattere associativo e collegandone la pericolosità proprio all’impianto fortemente strutturato.
Non a caso la stampa di quegli anni lo definisce “segugio temuto dai boss” e “specialista in casi difficili”. Il 1980 segna l’apice di questo percorso con la consegna alla magistratura del rapporto “Savoca + quarantaquattro”, nel quale vengono denunciati gli interessi di esponenti di spicco della malavita palermitana. Tra questi il boss Tommaso Spataro, recentemente scomparso e regista, all’epoca, di un’intricata rete di contrabbando di sigarette e spaccio di droga.
L’intera “cupola” si mobilita nella villa degli Spataro a Santa Flavia, piccolo borgo in provincia di Palermo, per decretare la condanna a morte, che viene eseguita il 10 settembre 1981, all’imbrunire, in Piazza Principe di Camporeale.
L’azione è condotta da un nutrito commando, composto da quattro killer (tra cui il famigerato Pino Greco, detto “scarpuzzedda”) e dai “capi eccellenti”, i quali con la loro presenza sanciscono la rilevanza dell’operazione e l’indiscussa supremazia di “Cosa nostra” sulla martoriata Palermo di quegli anni oscuri.
I “conigli”, come mio padre amava definirli, fanno fuoco accostandosi al finestrino posteriore dell’auto e colpiscono alle spalle senza il coraggio di uno scontro faccia a faccia.
La scena, sconvolgente per la sua efferatezza, anticipa modalità di esecuzione, che a distanza di un anno saranno impiegate contro il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Durante gli anni ‘80 e ’90 un sistematico depistaggio allontana gli inquirenti dai veri responsabili dell’omicidio; solo le successive rivelazioni dei “pentiti” consentono la riapertura del processo, conclusosi nel 2003 con numerose condanne, tra cui quella all’ergastolo del principale inquisito: il già citato Masino Spataro.
A distanza di quasi 40 anni da quella tragica notte mi capita ancora di incontrare persone (cittadini comuni, colleghi in pensione, esponenti istituzionali), che ricordano nitidamente il valore di mio padre e che lo considerano, per le sue eccellenti qualità umane e professionali, una pietra miliare della tecnica investigativa ed un modello etico e civico.
Con orgoglio, dunque, riconsegno mio padre ai giovani d’oggi, con fierezza riconosco di essere erede di un patrimonio morale inestimabile ed inesauribile, con umiltà metto a disposizione la mia testimonianza nella speranza che la passione per la giustizia e la difesa dei deboli continuino ad essere il segno distintivo della nostra umanità.

 

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