I 5 anarchici della “Baracca”

26 settembre del 1970. Una Mini Morris sfreccia sull’asfalto quando alla vista dei suoi passeggeri appare un autotreno che trasporta conserve di pomodoro, e taglia loro la strada. Sono in cinque: non hanno nemmeno il tempo di salutarsi con gli occhi che il boato assordante dell’impatto riempe loro le orecchie e li lascia senza vita. E sono giovanissimi.
Hanno infatti tra i 18 e i 26 anni: Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, Annalise Borth i loro nomi. Si fanno chiamare “gli anarchici della Baracca” da quel casolare abbandonato costruito come rifugio per i terremotati e designato a base operativa dai giovani di fede anarchica. Sono anni caldi, infuocati.
A Milano l’anno precedente la strage di Piazza Fontana. A Reggio Calabria la “Rivolta di Reggio” , provocata dalla contesa per il capoluogo della regione con Catanzaro, impazza nelle strade: barricate, incendi, attentati dinamitardi; il lascito a fine anno sarà di 5 morti e centinaia di feriti e arresti. A completare la cornice di fuoco sopraggiungerà anche il tentativo di golpe di Junio Valerio Borghese. In tutto questo trambusto i cinque ragazzi fanno foto, raccolgono documenti, protestano affinché gli scontri finiscano, denunciano la strumentalizzazione della rivolta da parte dei fascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. E illuminano coraggiosamente tracce nascoste, occultate. Quel 26 settembre si stanno infatti dirigendo a Roma, per la manifestazione indetta contro l’arrivo di Nixon: ma il loro è soltanto un pretesto. In mano hanno documenti preziosi, scottanti. Aricò aveva anticipato poco tempo prima alla madre: “abbiamo scoperto delle cose che faranno tremare l’Italia”. Quelle “cose” a cui alludeva Aricò erano importanti informazioni sul deragliamento del treno “Freccia del sud” all’altezza di Gioia Tauro e sulla stessa “Rivolta di Reggio”.
I primi giorni di settembre aveva avvisato la Fai di Roma di essere riuscito a raccogliere materiale compromettente, e ne aveva spedita per posta una parte a un amico anarchico di Roma, Rossi. Ma rimaneva il resto del dossier, che Gianni e i suoi compagni avrebbero dovuto consegnare alla redazione del settimanale anarchico “Umanità Nova”o secondo alcune testimonianze nelle stesse mani dell’avvocato Di Giovanni, curatore di contro-inchieste del calibro di “Strage di Stato”.
Ed è con questo intento nella mente e nel loro giovane cuore ardente che si stavano mettendo in viaggio quella sera. Non senza aver subito intimidazioni, angherie. Dopo la strage di Piazza Fontana gli anarchici erano infatti facile capro espiatorio, venivano tenuti costantemente d’occhio e pedinati. Così se da una parte Franco era stato aggredito dai neofascisti; dall’altra, a casa Lo Celso la sera prima, il 25 settembre, era arrivata una chiamata minatoria:“E’ meglio che non faccia partire il figlio alla volta delle capitale”, aveva intimato al padre di Luigi un agente di polizia dell’ufficio politico di Roma. E quasi fosse stata una funesta profezia a Roma non ci arriveranno mai. Tre di loro moriranno sul colpo in quel misterioso incidente, uno di loro nella corsa disperata verso l’ospedale, e la più giovane, l’appena diciottenne Annalise, morirà dopo ben 21 giorni di agonia e con un bambino in grembo. I documenti che i ragazzi portavano con sé non verranno mai ritrovati.
Nel ‘93 l’inchiesta sul treno “Freccia del sud” si riapre e due pentiti della ‘Ndrangheta, Giacomo Ubaldo Lauro e Carmine Dominici, cominciano a deporre le proprie testimonianze di fronte al Sostituto Procurato della Direzione Nazionale Antimafia Vincenzo Macrì, nell’ambito della maxi- inchiesta Olimpia 1, volta a far emergere la rete di rapporti tra politica e criminalità organizzata in Calabria. E confessano quell’ipotesi dell’attentato dinamitardo che nel processo del ‘74 era stata accantonata con tanta facilità: la bomba era stata fornita dall’ ‘Ndrangheta e posta dai neofascisti tra i binari, quindi fatta esplodere prima dell’arrivo del treno che al suo arrivo deragliò. 6 vittime e 54 feriti.
Lo stesso Lauro, durante la sua deposizione a Milano al giudice istruttore Guido Salvini, che stava indagando sull’attività eversiva di Avanguardia Nazionale, conferma anche l’ipotesi di collusione tra criminalità organizzata e militanti di estrema destra durante la “Rivolta di Reggio”: confessa infatti di aver ricevuto alcuni milioni di lire provenienti dal “Comitato d’azione per Reggio capoluogo” (legato ad esponenti di estrema destra) . Nel 2001 la Corte d’Assise di Palmi emetterà una sentenza di condanna per gli esecutori della strage del treno “Freccia del Sud” ma Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giuseppe Scarcella, imputati ritenuti colpevoli, erano tutti e tre già deceduti. Lauro verrà assolto per “mancanza di dolo”.
Il giudice Salvini nell’ambito di queste inchieste sosterrà anche la necessità di riaprire il caso dei cinque giovani “Anarchici della Baracca”, periti nell’incidente forse orchestrato ad arte, ma non si troveranno mai dei veri e propri colpevoli. Soltanto quelle misteriose “coincidenze”: la sparizione dei documenti, il fatto che i fratelli Aniello, proprietari del camion, fossero dipendenti di un’azienda che faceva capo al “principe nero” Junio Valerio Borghese. Tasselli di un puzzle che con sconvolgente autoevidenza ci mostra i legami tra estrema destra, Stato e mafia, che troppo spesso hanno segnato la storia del nostro Paese.

 

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