Mio padre Giovanni lo faccio rivivere

10 Dicembre 1969, il giorno che cambierà la mia vita e quella della mia famiglia.
Mio padre, giovane operaio edile,f iglio di operaio. padre di famiglia come milioni di padri di famiglia. Grande lavoratore e anche se non ha potuto studiare, uomo di sani principi e di grande umiltà.
In quell’anno malgrado la giovane età di papà e mamma,la mia famiglia era già una famiglia numerosa, 5 figli maschi,io 10 anni il più piccolo 18 mesi.(mio padre desiderava avere una figlia femmina).
Nel gennaio del 1968 la Sicilia viene devastata da un terribile terremoto, interi paesi distrutti nel Belice,moltissime vittime. La nostra vecchia casa in via Castellana Bandiera diventa inagibile per cui i miei genitori sono costretti a trovare una nuova casa. Quel terribile inizio anno (1968) per la mia famiglia qualcosa stava cambiando in meglio. Mio padre riesce a trovare oltre una nuova casa un doppio lavoro. Continuare a svolgere il suo lavoro da edile, e gestire la portineria di un garage di uno stabile di viale Lazio.
In realtà il lavoro di portineria lo svolgeva mamma perché papà era impegnato nei cantieri della ditta Moncada.
Per noi bambini quella casa era bruttissima, non aveva finestre, era sotto il manto stradale. Il nostro parco giochi era il marciapiede di viale Lazio e i lunghi e bui corridoi del garage. Tutto un’altro mondo. La casa di Via Castellana era in mezzo ai prati, in viale Lazio in mezzo al cemento. Il fatto positivo per mamma e papà era il non pagare l’affitto, luce ed acqua, tutto pagato dalla ditta Moncada. La nostra situazione economica stava cominciando a cambiare, papà regalò a mamma una nuova camera da letto, e noi bambini non andavamo più a scuola con le scarpe rotte. Dopo mesi però papà comincia a non percepire più lo stipendio in modo regolare. Comincia ad avere serie difficoltà a comprare i beni di prima necessità, il cibo,i negozianti non gli fanno più credito.
La sera del 10 Dicembre preso dalla disperazione decide di recarsi dopo l’orario di lavoro negli uffici della ditta Moncada che si trovavano esattamente sopra casa nostra, per chiedere almeno un acconto delle paghe arretrate. Tutto ciò però non prima di recarsi in Ospedale Villa Sofia, perché mia zia, tramite mia mamma, aveva chiesto di portare degli indumenti puliti a mio zio perché si era infortunato in fabbrica.
Lui quel pomeriggio andò in ospedale a piedi (circa 4 km) perché non aveva una lira per pagare il biglietto dell’autobus. Mio zio racconta che quella sera pregò mio padre di fermarsi un po’ di più a fargli compagnia, ma mio padre rispose che doveva ritornare a casa perché sarebbe dovuto andare negli uffici Moncada per chiedere un acconto, perché non aveva i soldi per comprare nemmeno il pane.
Se si fosse fermato ancora qualche attimo, oggi non starei a raccontare questa triste storia.
Quando mio padre arrivò all’inizio del vicoletto (secondo le testimonianze) dove si trovavano gli uffici incontrò il suo collega Salvatore Bevilacqua ed insieme si avviarono verso gli uffici. Un attimo prima avevano parcheggiato l’auto i due figli del titolare, Filippo ed Angelo.Nel momento in cui papà con il collega raggiungono a metà del vialetto Filippo ed Angelo Moncada arriva una macchina con un commando di killer travestiti da finti poliziotti.
L’obbiettivo del commando era Michele Cavataio , spietato killer che aspirava a diventare capo incontrastato della mafia a Palermo. Per attuare il suo progetto criminale, Cavataio aveva da qualche tempo cominciato ad uccidere rappresentanti di varie famiglie mafiose di Palermo. Anche la strage di Ciaculli nel 1963 è attribuita a Cavataio ai danni della famiglia dei Greco. Le famiglie mafiose Palermitane capito le intenzioni di Cavataio decisero di eliminarlo. Ma qualcosa quella sera non funzionò nei programmi dei killer.
Michele Cavataio era scortato da l cosiddetto “guardaspalle”che , capendo che quegli uomini non fossero poliziotti, fuggì dando l’allarme. Il commando era formato da varie famiglie mafiose, Bernardo Provenzano rappresentava il corleonesi, ed è colui che che con una fucilata alle spalle uccide mio padre scatenando la reazione di Cavataio che reagisce rispondendo al fuoco dei killer che erano giunti sul ciglio degli uffici. Cavataio malgrado fosse sotto il fuoco di cinque uomini, riesce ad uccidere Calogero Bagarella, prima di essere ucciso a sua volta, insieme a Salvatore Bevilacqua, Francesco Tumminello (socio di Cavataio).
Filippo Moncada si salva perché riesce a rinchiudersi in uno sgabuzzino, Angelo rimane gravemente ferito a terra ma verrà risparmiato dai killer.
Il commando durante la fuga abbandona alcune armi da fuoco perché deve caricare il corpo senza vita di Calogero Bagarella in auto, e un fucile viene abbandonato vicino il corpo di mio padre. Probabilmente questa è per i giornalisti la prova che mio padre fosse coinvolto attivamente in questa strage. Mio padre da quella sera per più di quarant’anni diventerà un mafioso, un delinquente.
Ricordo benissimo quella sera, era una sera fredda e piovigginosa.  Era appena passata la Festa dell’Immacolata. La gente si preparava al Natale. Anche mamma aveva tirato fuori dalla scatola il nostro alberello di natale. Aveva messo in acqua il grano duro, per tenerlo qualche giorno
affinché si ammorbidisse, per preparare il 13 dicembre un dolce di cui noi bambini andavamo ghiotti, la “cuccia”. Albero che non abbiamo mai più addobbato. Ricordo la tristezza che mi assalì.
Quella sera, giocavo con i miei fratelli nei marciapiedi di Via Zappalà e viale Lazio e quando sentimmo gli spari, passando dal garage e da un vialetto parallelo a quello degli uffici, incontrammo un uomo che fuggiva con una pistola in mano. Ricordo la paura nel momento in cui il mio sguardo si è incrociato con quell’uomo che fuggiva. Passando dallo scivolo adiacente al vialetto degli uffici, tornammo a casa a riferire a mamma quello che avevamo visto per poi cercare di ritornare, passando dallo scantinato, verso gli uffici. Ma non riuscimmo ad arrivare nel vialetto perché assistemmo all’arresto di Filippo Moncada, che insanguinato cercava di fuggire.
Da quella sera la nostra vita non fu più la stessa. Non avevo più un papà, mamma cadde dal dolore in una profonda depressione, rimase per un mese a letto. Leggere tutti i giorni, e vedere la foto di papà a terra in una pozza di sangue mi ha devastato, ho provato molta vergogna per quello che era accaduto, perché dopo la strage siamo andati a vivere per un periodo a casa del nonno materno. In quel quartiere quando scendevamo per strada con i miei fratelli i ragazzini ci evitavano come se avessimo la peste. Non ci permettevano di giocare con loro perché noi eravamo figli di un mafioso e ce lo dicevano molto chiaramente.
Per anni malgrado quelle terribili immagini di papà per terra insanguinato, non ho voluto accettare la sua morte. Ero convinto che prima o poi papà sarebbe tornato a casa. Molto spesso incontrando qualcuno che gli somigliava nel modo di camminare, nella pettinatura,affrettavo il passo con la speranza che fosse lui. Ovviamente la tristezza e la delusione era tanta.
La nostra vita cambiò totalmente. Malgrado Polizia e Carabinieri ,durante l’interrogatorio(a interrogarci furono Boris Giuliano e Giuseppe Russo) dissero a me e mamma che papà in quella storia non c’entrava nulla. Per la stampa e l’opinione pubblica, invece papà era un delinquente. Finito l’anno scolastico nel quartiere dove abitava nonno materno, per noi figli, i tre piu grandi,io, Giacomo e Sergio si aprirono le porte del collegio. Malgrado gli anni del collegio furono terribili, per me furono quasi una liberazione. Finalmente nessuno mi additava come “figlio di un mafioso”.
In quel collegio c’erano ragazzi abbandonati dalle famiglie, non andavano quasi mai a casa. Io mi ritenevo fortunato perche per le vacanze tornavo a casa,il sabato o la domenica veniva mamma. Ricordo che mamma ci portava dei dolciumi, biscotti e marmellate.
Le passeggiate sul lungomare di Aspra erano una gioia immensa. Ma ricordo anche, che quando mamma andava via, c’era un gruppetto di ragazzini un po’ più grandi di me, che pretendevano che io gli dessi qualcosa di quello che mamma ci portava. Io avevo due fratelli più piccoli di me da salvaguardare per cui per non essere preso di mira e subire la loro violenza e prepotenza, ero costretto a concedere qualcosa.
La notte era il momento più terribile. Quando le assistenti andavano a dormire nelle loro stanze, nelle camerate succedeva di tutto. Io avevo molta paura, soprattutto per i miei fratelli più piccoli. Dormivo male stavo sempre allerta, quasi tutte le notti urinavo nel letto. Ovviamente al mattino non dicevo nulla, e la notte successiva dormivo ancora nelle lenzuola sporche.
Anche le assistenti non erano dolci e affettuosi con noi ragazzini. Un giorno mio fratello Sergio,il più piccolo (7 anni) che era un po’ vivace, fu picchiato con delle bacchettate in testa tanto da fargli dei bernoccoli grandi come delle noci.
Aspra è un paesino marinaro di fronte al golfo di Palermo. A pochissimi passi dal mare c’era il collegio. Io vedevo in lontananza Palermo, ma mi sentivo in prigione. A volte non ce la facevo, il richiamo di casa, di stare un po’ con mamma, era cosi forte che diverse volte sono fuggito, tornando a casa in autostop.Non mi importava nulla delle punizioni che avrei dovuto subire. Le ore passate nelle camerate da solo quando gli altri erano fuori a giocare. Ma ancora più terribile il tempo passato in ginocchio, con le mani sotto le ginocchia e tanto altro ancora. Ma quelle poche ore passate a casa o quel senso di libertà durante la fuga non aveva prezzo.
Quanti anni di dolore,di vergogna hanno segnato la mia vita. Ancora oggi a 60 anni ne pago le conseguenze, spesso devo ricorrere alle medicine per soffocare il mio passato, i miei ricordi. Oggi devo dire che da quando il collaboratore di giustizia (Gaetano Grado) con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura delle indagini e di conseguenza la condanna all’ergastolo di Provenzano e Riina in me è nata la voglia di riscattare la figura e la dignità di mio padre e la fiducia nelle Istituzioni e nei Giornalisti. Oggi vado nelle scuole a parlare di mio padre. Lo faccio per mio padre, per me per i miei figli e per il nostro Paese, perché vorrei che nessuno viva quello che ho vissuto io e la mia famiglia. Cosi per me è come far tornare mio padre a vivere.

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