Confini divisioni buoni e cattivi


Sergio Nazzaro – Giornalista

Mondragone, al sud del sud dei santi, osservando il mare di fronte e i monti Aurunci del Lazio a destra è normale pensare a “voi che vivete sicuri”. Il fiume Garigliano a delimitare un confine, fisico, morale. Negli anni ’90 considerare che percorrendo verso nord la Domiziana c’era Roma, invece verso sud c’era Castel Volturno, l’agro aversano.
Intrappolati in una bellezza naturale scorticata dal cemento, dal sangue, dalla violenza dei clan che si combattevano in perenni lotte di potere. Terra di Lavoro, sempre nero e precario, la provincia di Caserta dimentica e dimenticata. Gli anni avrebbero dimostrato che non vivevano al sicuro neanche nel basso, ma anche alto, Lazio. Nel frattempo a Castel Volturno le migrazioni prendevano piede. Se ne sarebbero accorti solo quaranta anni dopo.
Negli anni ’80 eravamo crocevia del sud del mondo. Lo siamo ancora. I traffici di droga, i clan in lotta perenne, il clan dei casalesi contro quello dei La Torre di Mondragone. I braccianti neri che da schiavi nelle campagne dove trova la morte anche Jerry Masslo, diventano padroni del proprio destino e creano una rete di narcotrafficanti evoluta e strutturata che diventa mafia in Italia. Quaranta anni dopo, nella parrocchia di Pescopagano, terra di mezzo tra Mondragone e Castel Volturno, il giorno di natale, neri e bianchi celebrano i sacri riti insieme. Don Guido celebra una messa di oltre due ore, in napoletano, italiano, inglese e uno slang tutto autoctono, ci vogliono tempi lunghi perché tutti capiscono. Siamo chiusi in chiesa, voi che vivete sicuri, neri e bianchi. Dimentichi e dimenticati. Dove non c’è nulla, le persone diventano comunità nel sostegno reciproco. E non esistono più distinzioni.
Quanto è banale la divisione sul colore della pelle, più difficoltosa e necessaria di coraggio la divisione tra buoni e cattivi, tra criminali e onesti. Tra mafiosi e coloro che in silenzio ogni giorno non piegano la testa. Mafia nigeriana, clan camorristici, clan di camorra con rito di affiliazione mafiosa. Non ci sono razzismi, la criminalità organizzata si muove compatta. Decenni addietro eravamo territorio sconosciuto, territorio di cui non si parlava, ma si moriva lo stesso. Un colpo in fronte o morte lenta da cancro. Ma c’erano anche le morti bianche, la follia e la disperazione di un territorio che non offriva nulla e ancora oggi non offre nulla. Eppure attirava i poveri della terra: ieri dal West Africa, oggi i nuclei rom dalla Bulgaria. Perché c’è sempre un uomo bianco che ha bisogno di manodopera a basso costo, da sfruttare, un uomo bianco che affitta la propria casa in nero, un uomo bianco che scortica le vite degli altri, pur di guadagnare. All’epoca non lo capivamo ancora, ma c’è chi cominciava a vivere sicuro anche nell’antimafia di facciata, nella sceneggiata del dolore vero, e quello che gridavamo essere la morte, diventa una puntata dietro l’altra di una devastazione che non ha mai conosciuto colpevoli.
Sì, i camorristi li abbiamo arrestati, criminali bianchi e neri pure, eppure tutto rimane immobile, immutato. Qualcuno è riuscito ad andarsene, molti sono emigrati perché non si viveva sicuri. E permane la differenza tra chi se ne va e chi emigra, sostanziale: chi emigra non ha scelte, chi se ne va sa già dove andare.
Dal mare del sud si provava a fare una divisione manichea del mondo, il nero e il bianco, il giusto e ciò che è sbagliato. Poi attraversando il Garigliano, percorrendo la costa pontina, cominci a leggere il territorio per clan e sfruttamenti. I neri nell’agro aversano, i sikh nell’agro pontino. Entri a Roma e ci si divide tra periferie e centro, tra quelli che vivono sicuri nei palazzi belli e quelli che sono sempre a rischio di non riuscire a pagare l’affitto.
Alla fine c’è solo il ritorno nel proprio territorio, alla ricerca delle radici di un pensiero nuovo. Di un’azione che sia la rifondazione di una società forte cominciando dai più deboli. E per vivere al sicuro bisogna accogliere chi al sicuro non è mai stato. E non è solo chi proviene da terra straniera, ma lo straniero del paese: il malato mentale, il tossicodipendente, l’ex carcerato. Quelli che non ti hanno fatto sentire al sicuro diventano la pietra miliare del riscatto del territorio sui beni confiscati alle mafie. Percorsi altri di completo rivolgimento del reale. Non si possono mettere toppe, ma invertire e riappropriarsi dei concetti, rivoluzionare parole e territori.
Non è l’esclusione che rende sicuri, ma l’inclusione del debole. Perché la debolezza appartiene a tutti, è in ognuno di noi, quella debolezza che scatena la paura, la reazione di chiusura. E dai beni confiscati, dai progetti di inserimento, dalla visione di una società altra, sognata e realizzata che comincia la sicurezza che non ci sarà più abbandono. Perché le terre del sud del sud dei santi, sono terre che soffrono di orfananza: manca la sicurezza e il lavoro, manca la giustizia e l’onestà, manca tutto eppure ci sono tutti.
Da chi soffre e da chi ci spaventa comincia il vivere sicuri. Dall’antimafia praticata quotidianamente la realizzazione di una realtà sognata. Perché è giunto il momento di dirsi anche altro: si parla di mafie da sempre ma poco delle trame dell’antimafia, dei suoi paladini ed eroi di cartone. Dove il pudore della verità viene meno per una regola non scritta ma sempre praticata: si indaga su tutto meno che su se stessi, leggi giornalisti, e le realtà fittizie create ad arte di un’antimafia che non aiuta ma anzi ostacola. Ecco anche loro vivono là sicuro, perché non combattono quotidianamente con le amministrazioni locali, con i piccoli e forti poteri locali che vedono in te il loro vivere insicuri. Temono che possa esistere una società di sommersi e dimenticati che sa tenersi per mano e che pratica giustizia sociale anche li dove si ha il torto di continuare a sognare.

Fonte mafie blog repubblica