A PROPOSITO DI UN CONVEGNO A RACALMUTO SULLA GIUSTIZIA, LA SUA CRISI E, NATURALMENTE, LEONARDO SCIASCIA

Valter Vecellio:

A PROPOSITO DI UN CONVEGNO A RACALMUTO SULLA GIUSTIZIA, LA SUA CRISI E, NATURALMENTE, LEONARDO SCIASCIA

Torno ora a Roma, dopo un piacevole soggiorno a Racalmuto, luogo a me particolarmente caro per essere stato il paese di Leonardo Sciascia; e da Palermo, città con molte, troppe, disgrazie, ma tra le più struggenti che mi sia dato conoscere, al pari della Sicilia: che forse, proprio perché troppo fascinosa è punita come sappiamo.

Privo di computer, con il cellulare volutamente spento per poter meglio godermi la “bionditudine” di questa terra, vedo e ascolto solo ora una quanità di messaggi e “reazioni” al piccolo incidente che si è consumato ieri pomeriggio nella sede della Fondazione Leonardo Sciascia.

Ringrazio tutti per le espressioni di solidarietà e vicinanza; lo farò un poco alla volta personalmente, ma intanto un collettivo grazie.

Devo dire che l’episodio da una parte mi ha divertito con una punta di amarezza, dall’altro mi ha fatto pensare.

Pensare innanzitutto (e l’ho poi chiesto a tante persone) se inconsapevolmente avessi detto qualcosa di specificatamente offensivo, perché il dubbio, l’ho avuto. Mi hanno detto tutti i presenti che erano anche loro sconcertati, e mi sono sembrati sinceri, nel loro esprimere smarrimento. La cosa mi conforta un poco.

Devo dire che l’intenzione – che cerco qui di esplicitare – era quella di sviluppare un ragionamento a partire da due affermazioni di Sciascia contenute nella prefazione a un mio vecchio libro che raccoglie “Storie di ordinaria ingiustizia”. In quelle paginette Sciascia osserva che troppe volte il magistrato invece di soffrire e patire il tremendo potere che la società gli conferisce (quello del giudicare), ne prova invece piacere, una sorta di godimento. Quello del giudice nano della famosa poesia di Edgar Lee Masters.

Poi Sciascia ricorda di aver sostenuto una volta per paradosso (ma non tanto), che sarebbe stato educativo se il giovane futuro magistrato, superato il concorso, avesse trascorso qualche giorno in una cella del carcere Ucciardone o di Poggioreale.

A questo punto sono stato belluinamente interrotto.

Non ci fosse stata l’interruzione, specialmente all’ex procuratore Carlo Nordio (che, ribadisco, considero magistrato che ben conosce l’italiano nel senso che a questo “conoscere” dà Sciascia) avrei voluto sollecitare un’opinione, premettendo che secondo me non solo i magistrati ma anche i giornalisti (categoria a cui appartengo) spesso e volentieri sono preda di analogo “godimento” (e al pari dei magistrati dovrebbero patire e soffrire il potere che anch’essi detengono); e avrei fatto l’esempio, non isolato ma macroscopico, della legione di cronisti che in modo osceno seguirono il processo di primo grado a Enzo Tortora: cronache che gridano vendetta, e costituiscono un esemplare manuale di quello che non deve essere, ma sa essere, un giornalista.

C’è stata invece l’interruzione, l’”incidente”, e quel mio proposito si è potuto concretare solo in parte.

Aggiungo che a un certo punto di fronte alla reiterata aggressione verbale e al sentir proferire “Io sono un magistrato”, con l’aria e il tono prepotente di chi dice: “Lei non sa chi sono io”, mi sono trovato nel dilemma: rispondere alla Totò, con una pernacchia; ma magari la medesima non veniva bene, e sarebbe risultata eccessivamente oltraggiosa; oppure fare ricorso alla finale battuta del film di Billy Wilder “A qualcuno piace caldo”. La scelta è stata appunto: “Nessuno è perfetto”.

Non me ne pento affatto. La reazione del collega del primo magistrato, non meno veemente mi ha fatto pensare a una lettera di Benedetto Croce che a Giovanni Amendola racconta di un guaio giudiziario capitato a Giuseppe Prezzolini; lettera che si conclude con la raccomandazione, quella di stare il più lontano possibile da tribunali e magistrati. Una lettera del 1911; e siamo nel 2019. Nulla ha perso della sua attualità. Da qui, il mio dire: “Bisogna avere paura di magistrati come lei”.

Non provo vergogna nel confessare di averne. Rivendico, anzi, il mio diritto alla paura, di fronte a certi amministratori della giustizia. Del resto sono in buona compagnia: Salvemini sostiene che se lo avessero accusato di aver stuprato la madonnina del Duomo di Milano, prima sarebbe fuggito, poi avrebbe provato a difendersi. Un maestro come Carnelutti esprime lo stesso concetto: parla della Torre di Pisa, invece della madonnina; ma la conclusione è la medesima.

Aveva l’inequivocabile sapore dell’invettiva definitiva, il dire: “Amico di Craxi”.

Devo smentire. Amicizia è cosa seria; con Craxi avrò avuto occasione di parlare un paio di volte, quando ormai era politicamente distrutto, e rifugiato ad Hammamet. Gli fossi stato amico, pur trovando criticabili molte delle cose che ha fatto, e non condividendole, non avrei rinnegato quell’amicizia. Mi ha colpito comunque il tono di quest’ultima affermazione, scagliata come atto d’accusa: come dire “amico di Riina”, “amico di Provenzano”. Espressione che rivela assai più di quello che dica.

Ho ricavato poi (ma mi sono trattenuto) la conclusione che sacrosanto sarebbe l’istituto di una perizia psichiatrica periodica per tutti coloro che sono chiamati ad amministrare la giustizia. Una proposta di cui si parlucchia in questi giorni, e qualcuno ricorda – per gettarle un’ombra di spregio – che era un qualcosa che a suo tempo adombrò Berlusconi.

Ora può anche capitare, perfino, che Berlusconi nel corso della sua vita qualche cosa di giusto l’abbia detta (salvo poi non farla). Comunque una cosa positiva non diventa negativa solo perché viene sostenuta da persona di cui non si condivide quello che in genere dice o fa. Così fosse si finisce con il dare alla persona in questione uno straordinario potere: quello di rendere cattiva una causa, solo che ne parli bene e la sostenga. Ad ogni modo almeno vent’anni fa, la necessità di periodiche perizie psichiatriche per i magistrati venne sostenuta anche dal giudice Ferdinando Imposimato e da altri non certo collocabili nel campo della destra.

Vero è che si tratta di qualcosa molto simile all’utopia: perizie psichiatriche non vengono effettuate neppure su carabinieri e poliziotti, e chiunque detiene un’arma; e ha, in potenza, il potere di usarla in modo letale.

Infine: ci si può davvero fidare di chi dovrebbe effettuare queste perizie? Ecco, i circoli si fanno infiniti. Meglio darci un taglio.

Per tornare all’”incidente”: ne avrei fatto a meno; non c’era alcuna intenzione di offendere nessuno. Non comprendo bene la ragione di quella reazione che non definisco cafona, perché silonianamente, ho una grande considerazione dei “cafoni”; con sorriso amaro dico che è l’ennesima conferma di quello che già da tempo pensavo. Ogni tanto mi piacerebbe essere smentito. Niente da fare. Del resto, rari sono magistrati come Nordio, che sanno bene l’italiano.

Grazie ancora a quanti mi hanno voluto esprimere vicinanza e solidarietà.

Valter Vecellio