Marcello e le “esigenze” di Cosa Nostra

All’imputato Marcello Dell’Utri il P.M. contesta di avere concorso nel reato di minaccia, finalizzato a turbare l’attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, e, in particolare, di avere posto in essere in relazione alle richieste di questi ultimi ”finalizzate ad ottenere benefici di varia natura (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti all’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”.
Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l’omicidio dell’On. Salvo LIMA ed era proseguita con le stragi palermitane del ’92 e le stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93”, le seguenti specifiche condotte:

-“inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all’omicidio LIMA ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”;

-“successivamente rinnovando tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di CIANCIMINO Vito Calogero e di RIINA Salvatore, così agevolando il progredire della “trattativa” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista”;

-“agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da BERLUSCONI Silvio dopo il suo insediamento come Capo del Governo”.

Nella Parte Quarta della sentenza sono state già esposte tutte le risultanze probatorie acquisite al fine di verificare, […], se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra” ebbe già allora a rivolgere al Governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragi sta, se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia, se, poi, tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi questa volta nei confronti del Governo Berlusconi e, infine, se Dell ‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi.
La prima parte della verifica ha avuto esito negativo,[…].

-“inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all’omicidio LIMA ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”;

-“successivamente rinnovando tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di CIANCIMINO Vito Calogero e di RIINA Salvatore, così agevolando il progredire della “trattativa” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista”;

-“agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da BERLUSCONI Silvio dopo il suo insediamento come Capo del Governo”.

Nella Parte Quarta della sentenza sono state già esposte tutte le risultanze probatorie acquisite al fine di verificare, […], se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra” ebbe già allora a rivolgere al Governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragi sta, se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia, se, poi, tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi questa volta nei confronti del Governo Berlusconi e, infine, se Dell ‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi.
La prima parte della verifica ha avuto esito negativo,[…].
Soltanto nella seconda metà del 1993, invero, prima parallelamente al tentativo di dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di “cosa nostra”, e, poi, invece in modo sempre più concentrato verso la sopravvenuta diversa finalità di sfruttare la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per iniziativa di Silvio Berlusconi, esponenti dell’organizzazione mafiosa siciliana, di diversa appartenenza e provenienza, ritennero utile servirsi anche di Marcello Dell’Utri per ottenere i benefici per gli associati che erano stati già oggetto dell’azione ricattatori a stimolata dalla sciagurata iniziativa dei Carabinieri del R.O.S. nel giugno del 1992 letta dai mafiosi come primo segnale di cedimento dello Stato dopo la strage di Capaci poi, ulteriormente confermato, nel successivo anno 1993, da altri segnali promananti dal settore carcerario in relazione all’applicazione del regime del 41 bis (dall’avvicendamento dei vertici del D.A.P. alla mancata proroga di molti provvedimenti di 41 bis).
In questa fase, con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa “cosa nostra” manifestata da Dell’Utri ancora nella sua funzione di intermediario con l’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo “sceso in campo” in vista delle elezioni politiche che poi vi sarebbero state nel marzo 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria
iniziata da Riina nel 1992 e si pongono le premesse della rinnovazione della minaccia in danno del Governo, quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato, appunto, presieduto dallo stesso Berlusconi (v. per la ricostruzione di tale premessa la Parte Quarta, Capitolo 4, paragrafi da 4.1 a 4.3.2).
Contrariamente a quanto fatto dalla difesa di Dell ‘Utri con la sua minuziosa ricostruzione delle dichiarazioni di tutti i collaboranti in relazione, da un Iato, all’iniziativa di Giuseppe Graviano e, dall’altro, all’iniziativa di Bagarella e Brusca, non è questa, dunque, la fase in cui va ricercata la minaccia che può integrare la fattispecie criminosa oggetto della contestazione formulata in questo
processo a carico del medesimo Dell’Utri.
Ai fini della prova di tale minaccia più strettamente riconducibile al reato contestato a Dell’Utri rilevano, invece, gli incontri che con quest’ultimo, dopo l’insediamento del nuovo Governo presieduto da Berlusconi, Mangano ebbe ancora ad avere in almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni.
Ora, già nella parte Quarta, Capitolo 4, paragrafo 4.5, si è già ricordato, quale necessaria premessa alla chiesta valutazione delle condotte dei vari protagonisti delle vicende in esame, che la minaccia è un reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l’attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l’effetto di diminuirne la libertà
psichica e morale di autodeterminazione.
[…] Anzi, in proposito si è sostanzialmente concordato con la tesi difensiva dell’imputato Dell’Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018) secondo la quale non v’è ragione di ritenere che le dette iniziative siano state effetto diretto di una minaccia, piuttosto che di libere scelte di quella consistente componente di soggetti facenti parte di Forza Italia, che, per risalente asserita vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.
Ciò, però, non toglie che ugualmente gli interventi di Vittorio Mangano nei confronti di Marcello Dell’Utri possano avere avuto una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l’effetto intimidatorio, purché comunque percepibile e percepito, possa avere inciso concretamente sulla sua libertà psichica e morale di autodeterminazione.
Sotto tale profilo, non sembra che possa residuare alcun dubbio, dal momento che il messaggio recapitato o la sollecitazione o anche soltanto la richiesta di notizie da parte di Vittorio Mangano, per la loro provenienza, sicuramente ed indiscutibilmente, erano idonei a provocare obiettivamente nell’uomo medio un timore di conseguenze nefaste e, dunque, ad integrare la fattispecie penale della minaccia, quand’anche, nei fatti, il timore non dovesse essere neppure insorto, perché, ad esempio, indipendentemente da quel messaggio, da quella sollecitazione o da quella richiesta, il destinatario si era già autodeterminato a porre in essere una già individuata condotta anche per ragioni del tutto diverse, come, ad esempio, nel caso in cui, appunto, eventualmente anche prima dell’intervento del Mangano, Silvio Berlusconi si fosse già determinato ad adottare alcuni provvedimenti anche attesi dai mafiosi, in ipotesi, anche soltanto per rispettare patti liberamente assunti durante la campagna elettorale ovvero anche soltanto perché riteneva che quel tipo di provvedimenti fosse in generale atteso dal proprio elettorato, trattandosi di provvedimenti in linea con la politica asseritamente “garantista” di una componente non certo secondaria (ma, anzi, particolarmente attiva e appariscente soprattutto sui mezzi di comunicazione) della nuova forza politica da lui guidata.

[…]Ciò induce a non dubitare, sulla base di considerazioni, sì, di carattere logico-deduttivo, ma comunque ineludibili, che l’approccio del Mangano, quale ne sia stata la forma esteriore (eventualmente anche quella “amichevole” usuale, in molti casi, nella prima fase dell’agire mafioso), non possa che essere stato percepito dal proprio interlocutore come una forma di pressione inevitabilmente esercitata sotto la minaccia di possibili ritorsioni come la storia e l’esperienza avevano, d’altra parte, sempre dimostrato anche più direttamente e specificamente a quegli stessi interlocutori, Dell’Utri e Berlusconi, tanto che, come già rilevato, quest’ultimo aveva dovuto sottostare al pagamento di ingenti somme di denaro in favore di “cosa nostra” per il timore di subire conseguenze sia personali che in pregiudizio delle proprie imprese.

[…] Della conseguente implicita minaccia, dunque, devono ritenersi responsabili, tanto gli autori in senso stretto individuabili nei mafiosi dai quali promanava la “pressione”, quanto, a titolo di concorso, colui, Dell’Utri, che anche in questo caso come nel caso delle richieste dei pagamenti di denaro e dei relativi versamenti, ha svolto la funzione di intermediario verso il Capo del Governo Silvio Berlusconi. Su tale ruolo si tornerà più avanti a proposito dell’elemento psicologico del reato.
Prima deve, però, ribadirsi che, seppure non v’è e non può esservi prova diretta sull’inoltro della minaccia da Dell’Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l’uno o l’altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui), vi sono, tuttavia, ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa “cosa nostra” mediati da Vittorio Mangano (ma, in precedenza, in altri casi, anche da Gaetano Cinà).
Il primo di tali fatti è costituito proprio dal ruolo di intermediario tra gli interessi di “cosa nostra” e gli interessi di Berlusconi svolto con continuità da Dell’Utri incontestabilmente (perché definitivamente accertato per effetto delle ricordate sentenze irrevocabili) dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a “cosa nostra”.

[…] Dunque, v’è la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal Governo.
Ma un ulteriore elemento di conforto alla predetta conclusione si trae dal primo incontro tra Mangano e Dell’Utri, quello del giugno-luglio 1994, di cui ha riferito Cucuzza[…]. Cucuzza, infatti, ha raccontato che nel giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano “in anteprima” di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia […] che senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata a differenza di quella concernente l’art. 335 c.p.p. (v. testimonianza Maroni), sarebbe stata inserita nel testo di un decreto legge che di lì a poco sarebbe stato approvato dal Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi.

[…] Ora, il fatto che, come si ricava dal racconto del Cucuzza e dall’eccezionale riscontro rinvenuto, Dell’Utri fosse informato, sino ai più minuti – e, si ripete, nascosti – dettagli, di tale modifica legislativa che sarebbe stata inserita in un decreto legge che si intendeva emanare a breve per intervenire su reati del tutto diversi da quelli di mafia, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per “tranquillizzare” i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece.
Si ha conferma, pertanto, che anche il destinatario finale della “pressione” o dei ”tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere.

[…] Deve, allora, concludersi che, a prescindere dall’effettiva incidenza della pressione mafiosa sulle decisioni assunte da Berlusconi a mezzo del Governo da lui presieduto e, in definitiva, dall’effettivo insorgere in quest’ultimo di un timore, v’è, comunque, conferma che, con il raggiungimento del destinatario finale, si consumò, anche in questo caso, la rinnovazione della minaccia mafiosa per la sua comunque indiscutibile ed indubitabile oggettiva attitudine a intimorire il destinatario medesimo e, quindi, a turbare l’attività del Governo in quel momento in carica.

Occorre, però, a questo punto tornare sul ruolo di Dell’Utri e sugli aspetti che rilevano ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, dal momento che la difesa del detto imputato ha accostato la condotta di questi, al fine, appunto, di escludere l’elemento psicologico del reato, a quella della moglie dell’imprenditore che, in assenza e per conto di questi, riceva la richiesta estorsiva e la comunichi al marito, ovvero a quella del semplice nuncius o “ambasciatore che non porta pena” […].

Sennonché, nel tentare tali arditi accostamenti, la difesa dell’imputato, come può evincersi dalla citata trascrizione dell’intervento all’udienza del 16 febbraio 2018 e dalla memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018, ha totalmente trascurato, evitando accuratamente qualsiasi pur minimo accenno, l’analogo ruolo di intermediario svolto da Dell’Utri tra “cosa nostra” e Berlusconi per il quale il medesimo imputato è stato già definitivamente condannato per il diverso reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa seppure, in forza delle prove che fu possibile acquisire in quel processo, con riferimento alla sola condotta come commessa sino al 1992.
Da tale condanna irrevocabile emerge in modo del tutto plastico ed evidente il fatto che Dell’Utri, in ogni caso, non ha mai agito nell’esclusivo interesse di Berlusconi, ma, altresì, anche nell’interesse quanto meno concorrente dei soggetti mafiosi (tra i quali soprattutto Vittorio Mangano e Gaetano Cinà) con i quali egli ha intrattenuto ultraventennali rapporti di amicizia e frequentazione, perché altrimenti, alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità, non sarebbe stato possibile giungere alla affermazione di responsabilità penale per il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa.

[…] La minaccia rinnovata dai mafiosi dopo l’insediamento del Governo presieduto da Silvio Berlusconi, infatti, trova le sue radici nelle promesse che Dell’Utri, da assoluto protagonista della nascita ed affermazione della nuova forza politica, ebbe a indirizzare all’organizzazione mafiosa in vista delle elezioni politiche del 1994 […].
Tali promesse, o, quanto meno, la disponibilità manifestata dal Dell’Utri anche in quell’occasione per soddisfare le esigenze di “cosa nostra” e che hanno contribuito all’entusiastico appoggio dato da quest’ultima in Sicilia alla nascente nuova forza politica, nonché all’affidamento, se non, in qualche caso, all’euforia, di molti capi mafiosi, hanno, nel contempo rafforzato, nei vertici dell’associazione mafiosa, il proposito criminoso di proseguire nella strada del ricatto anche nei confronti del Governo presieduto da Berlusconi.Tutt’altro, quindi, che un ruolo di Dell’Utri “neutro”.
Non solo, ma anche negli incontri con Mangano successivi all’insediamento del Governo Berlusconi, Dell ‘Utri non si è limitato ad ascoltare e a raccogliere le richieste dei mafiosi, ma ha ancora manifestato disponibilità nel farsi carico delle iniziative del medesimo Governo, fornendo specifiche notizie su di esse e sui vantaggi che i mafiosi ne avrebbero potuto ricavare (v. vicenda del decreto legge n. 440 del 14 luglio 1994 con riferimento alla norma “nascosta” che avrebbe aperto ai mafiosi la strada della detenzione domiciliare sino ad allora, di fatto, loro preclusa).
Anche tale atteggiamento ha contribuito all’affidamento riposto in Dell’Utri e Berlusconi dai vertici mafiosi[…] ed ha, conseguentemente, da un lato, rafforzato il proposito criminoso mafioso, tanto che al primo incontro di giugno-luglio 1994 ne è seguito almeno un altro nel dicembre 1994 in occasione del quale quell’atteggiamento e quella disponibilità da parte di Dell’Utri sono stati ancora rinnovati, ma, dall’altro, ha, nel contempo, inevitabilmente, nel momento in cui egli ne riferiva a Berlusconi, consapevolmente contribuito alla trasmissione della coazione psicologica e, quindi, in definitiva all’evento del reato contestato (che è bene ricordare, non è costituito dai provvedimenti legislativi poi adottati, ma esclusivamente dal percepimento da parte di Berlusconi in qualità di Capo del Governo della pressione psicologica operata da “cosa nostra” col ricatto, esplicito o implicito che fosse, della reiterazione delle stragi il cm recente ricordo, anche al di fuori della lontana Sicilia, era ben vivo in tutti).
Non si vede, pertanto, come possa dubitarsi, alla stregua del ruolo complessivamente e storicamente svolto da Dell ‘Utri in rapporto, non soltanto a Berlusconi, ma anche a “cosa nostra”, della coscienza e della volontà del predetto imputato di contribuire, con la propria condotta, che, si ripete, trovava
le radici proprio nei risalenti rapporti di amicizia e di frequentazione con appartenenti alla consorteria mafiosa, da un lato al rafforzamento del proposito criminoso del ricatto mafioso, e, dall’altro al raggiungimento dello scopo intimidatorio perseguito da coloro che rinnovavano ancora tale ricatto e, quindi, la minaccia mafiosa finalizzati ad ottenere illeciti vantaggi per i sodali.
Prima di formulare le conclusioni, però, deve affrontarsi un ulteriore tema che è stato introdotto, in sede di discussione, dal secondo intervento difensivo nell’interesse dell’imputato Dell’Utri, quello del divieto di un secondo giudizio ai sensi dell’art. 649 c.p.p. per effetto del giudicato già intervenuto in favore del predetto con l’assoluzione dal reato di concorso nell’associazione mafiosa per le condotte contestate come commesse successivamente al 1992 (v. trascrizione udienza del 23 marzo 2018).

[…] D’altra parte, anche in concreto, la diversità del fatto emerge dallo stesso oggetto del pregresso processo che, per la parte che qui riguarda, è consistito, come asserito e, quindi, riconosciuto dalla medesima difesa dell’imputato Dell’Utri, che, infatti, sul punto, ha molto e lungamente insistito (v. trascrizione della discussione all’udienza del 23 marzo 2018), nel c.d. “patto politico-mafioso” che, secondo la contestazione, era intervenuto nella fase antecedente alle elezioni politiche del marzo 1994 (v. sentenza della prima Corte di Appello sopra citata che ha affermato l’insussistenza di tale “patto politico-mafioso” integrante la condotta di concorso eventuale nel reato di cui all’art. 416 bis C.p. ed ha, pertanto, assolto l’imputato Dell’Utri dalle condotte contestate come commesse successivamente al 1992).
Ora, tale “fatto” così individuato ed indicato dalla stessa difesa dell’imputato Dell’Utri, non coincide, neppure temporalmente, con l’oggetto del presente processo consistente, invece, nella minaccia al Governo consumatasi dopo l’insediamento di Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio nel maggio 1994 a mezzo di un’intermediazione di Dell’Utri, che non è legata in alcun modo, neppure concettualmente, al “patto politico-mafioso” (negato, come detto, dalla sentenza definitiva di assoluzione), né da questo necessariamente dipendente, ma piuttosto discende dall’analoga intermediazione che era stata già utilizzata dai mafiosi anche ben antecedentemente al detto ipotizzato “patto politico-mafioso” e per ragioni del tutto diverse e distinte (v. sentenze irrevocabili in atti prima richiamate).

Deve, pertanto, escludersi che nella fattispecie sia ravvisabile l’ipotesi del divieto di bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.
Va affermata, conseguentemente, la colpevolezza di Marcello Dell’Utri in ordine al reato ascritto in relazione alle condotte, tra quelle descritte nel capo di imputazione, che hanno dato luogo, infine, alla rinnovazione della minaccia mafiosa dopo l’insediamento del Governo presieduto da Silvio Berlusconi.
Al contrario, alla stregua di quanto prima rilevato, il medesimo imputato deve essere assolto dal reato ascrittogli con riferimento alle condotte contestate come commesse nei confronti dei Governi precedenti a quello presieduto da Silvio Berlusconi per non avere commesso il fatto.

 

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