Il piccolo Andrea e le vendette di Totò Riina

Morire a quattro anni per mano della mafia. È stato questo il destino cui è andato incontro Andrea Savoca il 26 luglio 1991 nel quartiere Brancaccio, a Palermo. Senza saperlo. Aveva due genitori, Giuseppe e Diana, un fratello più piccolo, Massimiliano, e una sorella maggiore, Emanuela. Andrea si trovava sull’auto guidata dal padre, per dirigersi verso il mare; erano tutti insieme, quel giorno, come una famiglia “normale”.
L’occasione era perfetta e, probabilmente, attesa con trepidazione dai bambini che potevano finalmente godere della compagnia del padre, in licenza premio dal carcere: quattro giorni di libertà.
Giuseppe Savoca, infatti, aveva portato a compimento una serie di rapine di tir insieme al fratello minore, Salvatore, e per questo era stato condannato ad alcuni anni di prigione. Lo stesso Salvatore aveva già subito condanne per rapina, furto, detenzione illegale di armi ed esplosivi ed era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Una famiglia nota negli ambienti della giustizia, ma altrettanto in quelli della malavita siciliana: i due fratelli, infatti, erano parenti di esponenti di Cosa Nostra eppure le loro azioni – furti e rapine per lo più – non rimasero a lungo tollerate dalla mafia palermitana.
Quel giorno di fine luglio, mentre la madre e la sorella maggiore escono dall’auto per salutare i nonni materni, Andrea rimane ad aspettare nell’auto parcheggiata in strada, assieme al padre Giuseppe e al fratello minore. In quel momento, Andrea si muove, all’interno della macchina, passa da un sedile all’altro, si allunga verso il padre. Per abbracciarlo. È in quel momento che si avvicinano due sicari in moto che sparano all’interno dell’auto, uccidendo sul colpo Giuseppe, crivellato con svariati colpi d’arma da fuoco, ferendo gravemente il piccolo Andrea e lasciando però fortunatamente illeso il fratellino più piccolo.
Un proiettile ha reciso la carotide sinistra di Andrea, gli ha attraversato il collo e la mandibola; Andrea ha quattro anni – lo ricordiamo ancora una volta – e ha il volto sfigurato. È stato colpito come se fosse un boss; trasportato d’urgenza all’ospedale e sottoposto a un intervento di quasi otto ore, il bambino è troppo grave e muore.
È chiaro fin da subito, nonostante l’assenza di dichiarazioni o testimonianze dei presenti, che si tratta di un crimine mafioso, una esecuzione compiuta in strada in pieno giorno, a dimostrazione del dominio dell’organizzazione criminale sul quartiere di Palermo.
Le dichiarazioni rilasciate qualche anno più tardi da alcuni collaboratori di giustizia, fra i quali il tristemente noto Giovanni Brusca, spiegano il movente dell’agguato: risultò infatti, nel corso delle indagini della magistratura, che la “Commissione” doveva rispondere alle numerose lamentele di quei commercianti che avevano subito furti da parte dei fratelli Savoca e che, pagando regolarmente il pizzo a Cosa Nostra, si aspettavano protezione.
Brusca disse ai magistrati: “Riina decise di adottare una linea unitaria nel senso che, individuati gli autori dei furti e delle rapine, bisognava, prima, cercare di convincerli con le buone a smettere e, quindi, in caso di fallimento di tale tentativo, eliminarli”. Venne deciso così di tentare di fermare l’attività illecita tramite l’intermediazione di uno zio dei Savoca, ma che ottenne dai due fratelli solo una negazione del loro coinvolgimento nei furti. A quel punto fu necessario per Cosa Nostra intervenire definitivamente, stabilendo la morte di Salvatore e di Giuseppe. Si scoprì infatti che, due giorni prima dell’omicidio del piccolo Andrea e del padre, Salvatore fu prelevato nel suo tragitto verso il lavoro e portato in un luogo sicuro dove venne strangolato il giorno stesso della sua sparizione e poi sciolto nell’acido.
A raccontarlo, il collaboratore Giovan Battista Ferrante, nel 1998: “Qualche giorno prima dell’omicidio Salvatore Biondino mi disse di tenermi a disposizione perché si doveva fare un lavoro. Capii, ovviamente, che si trattava di eseguire un omicidio ma nulla mi venne detto in ordine alla vittima. Il Biondino mi disse di avvisare Nino Troia, sottocapo della famiglia di Capaci, che c’era bisogno di lui e che, dunque, era necessario che incontrasse lo stesso Biondino”.
Ancora Ferrante aggiunge: “ Non so dire con che mezzo il Pullarà e il Savoca giunsero al negozio, in quanto io, al momento del loro arrivo mi trovavo giù nello scantinato; ricordo però che si trattava del fatto che il Savoca aveva un ciclomotore e che il Pullarà lo aveva agganciato mentre lo stesso si trovava, ad Isola della (sic!) Femmine, in possesso del motoveicolo. […] Non appena il Savoca e il Pullarà, seguiti da Giovanni Battaglia (il Nino Troia era rimasto sopra nel negozio, non fosse altro che per non lasciare l’esercizio commerciale incustodito e, quindi, non dare nell’occhio), entrarono nella stanza, abbiamo immediatamente strangolato il Savoca, senza porre al medesimo alcuna domanda”.
Fu un regolamento di conti, dunque, a segnare la sorte di un bambino che si era da poco affacciato alla vita. Avrebbe poi detto il collaboratore Salvatore Cancemi: “Me lo ricordo bene. Stavo cenando con i miei bambini (i nipoti ndr.) ho sentito la notizia alla televisione. Mi sono alzato in silenzio e mi sono nascosto in bagno per non far vedere le lacrime; mia moglie però se ne è accorta. Sapevo che dovevano ammazzare questo ladro, ma con una rabbia che mi sale ancora oggi mi dicevo: «Mah, maledetti mascalzoni, dovevate proprio ucciderlo con il bambino in macchina? Anche se non lo avessero preso, penso allo spavento, alla paura di assistere alla morte del padre…»”.
Intanto, però, in quel triplice omicidio di mafia, compare il nome dell’essere più innocente che ci sia, un bambino di appena 4 anni. Si chiamava Andrea Savoca.

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