Teresa, la mamma coraggio

Se si ascoltano con attenzione i nomi letti durante la Giornata Nazionale dedicata alla memoria delle vittime innocenti delle mafie, il 21 marzo di ogni anno, si sente, fra tutti, un nome di donna pronunciato quasi timidamente, ma con una commozione ancora fresca, segno di un dolore recente. Questo nome è quello di Teresa Buonocore.
Vista la premessa, è facile intuire che la sua sia una vicenda legata alla mafia, ma è limitativo ritenerla soltanto questo.
La storia di Teresa è una storia di maternità, indipendenza, giustizia, vendetta, camorra e pedofilia. E` facile immedesimarsi in lei, una donna normale, ma è estremamente difficile accettare che ci siano ancora storie simili da raccontare, storie così vicine a noi nel tempo e nello spazio.
Siamo a Portici, un comune in periferia di Napoli, ed è il 2008. Teresa è un’impiegata, madre di quattro figli e separata. È nata in quel paese dove vive ancora; nella vita deve lavorare e nel contempo crescere da sola le due figlie più piccole di 11 e 8 anni. La sua quotidianità non è nulla di diverso rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare da una donna di cinquantun anni.
Fino a quando, un giorno, questa tranquillità viene stravolta definitivamente dall’arrivo di un vicino di casa, che le racconta di alcuni suoi terribili sospetti nei confronti di un altro vicino: Enrico Perillo. Quest’ultimo è un geometra di cinquantatré anni che frequenta la Napoli bene, ha una moglie medico, un buon conto in banca e una fedina penale pesantemente macchiata da una condanna per omicidio e un arresto per detenzione d’armi da fuoco.
È, quindi, un personaggio noto alle forze dell’ordine, ma evidentemente, o per ignoranza o per ingenuità, Teresa si fida e intrattiene con lui buoni rapporti di vicinato. In particolare, più stretto era il legame fra le loro figlie, grandi amiche al punto da frequentare l’una la casa dell’altra. È proprio di queste visite che il vicino parla a Teresa, raccontandole dei suoi sospetti: Enrico Perillo violenta sua figlia e un’altra amichetta. Le violenze, si scoprirà in seguito, avvenivano in segreto, mentre le figlie del Perillo erano in un’altra stanza.
Le vittime, come racconta la figlia della Buonocore al processo, venivano minacciate con una pistola, affinché non parlassero e la minaccia più frequente riguardava proprio l’assassinio della madre. Quando Teresa viene a conoscenza di questi episodi si affida totalmente alla giustizia, avviando, come testimone, una vera e propria battaglia in tribunale contro l’aggressore senza lasciarsi mai intimidire.
Nella primavera del 2010, il processo termina con la condanna a sedici anni di reclusione per il Perillo.
Sembra la fine di un incubo, sempre se a certi incubi c’è davvero una fine; ma Enrico Perillo, oltre ad essere un pedofilo, ha deciso di pianificare la sua vendetta come un boss della Camorra. Assolda così Alberto Amendola, un ragazzo di ventisette anni che appiccherà due incendi: l’uno alla casa dell’avvocato di Teresa, l’altro all’abitazione di quest’ultima. In entrambi i casi, nessuna prova per incastrare il colpevole. Questi atti intimidatori non fermano la voglia di giustizia della donna, che aveva compreso chiaramente i tentativi di Perillo di farla tacere e pentire di essersi messa contro di lui. Teresa, la donna comune, la madre che si impegna ad accompagnare sua figlia fuori da un trauma devastante, deve anche lottare contro le minacce di un uomo che, recluso nel carcere di Modena, decide di vendicarsi definitivamente di lei.
Perillo manda infatti un biglietto, che da Modena arriva fino ad Amendola: «Bisogna finire quella casa in Calabria, tu sai come fare, hai anche la pala. Trovati un operaio, sai come fare».
Così, il 20 settembre 2010, quattro proiettili provenienti da una moto raggiungono Teresa mentre è a bordo della sua auto. La modalità e le circostanze richiamano fin troppo un delitto di stampo camorristico. Tra gli esecutori, oltre ad Amendola, vi è anche Giuseppe Avolio, di soli ventun anni, col padre ucciso in un agguato di Camorra.
Il prezzo della morte di Teresa Buonocore fu di quindicimila euro, pagati dal mandante ai due giovani assassini, che finirono in carcere con diciotto anni di reclusione per l’uno, e ventidue per l’altro.
Sono molte le parole che possono essere spese per questa storia, ma le più adeguate sono senza dubbio quelle di Don Peppe di Portici, che il giorno del funerale di Teresa, disse: “Grazie Teresa perché col tuo coraggio hai reso visibile il male. Coraggio che dovrà contagiare tutte le madri, che si faranno forza sul tuo esempio”.
Allora è doveroso che il nome di Teresa, medaglia d’oro al valore civile, venga pronunciato ancora per lungo tempo, ricordando che il primo passo per eliminare le ingiustizie, è sempre raccontarle.

 

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