La mattina che cambiò la nostra vita

È un lunedì mattina, il 16 ottobre del 1996. Chiara è tornata a Catania, dove frequenta l’università, mentre sua mamma Agata, suo padre Salvatore e suo fratello Giacomo sono a lavoro nell’attività di famiglia. Due uomini entrano in negozio, chiedono il pizzo a Salvatore. Quello sarà il momento in cui la vita della famiglia Frazzetto cambierà per sempre.
Quella mattina perderanno la vita Giacomo, 22 anni, e Salvatore, 46 anni, per mano di due criminali che verranno poi arrestati sette ore dopo gli omicidi grazie al riconoscimento della madre di Chiara. Ma per Agata il dolore sarà insopportabile e cinque mesi dopo deciderà di togliersi la vita. Aveva 43 anni.
Nel 2003 i due assassini vengono condannati: Salvatore Infuso a 28 anni per duplice omicidio, il fratello Maurizio a 17 per concorso. Le cose, però, andranno diversamente. È il 2018, Chiara incontra per strada l’uomo che ha ucciso la sua famiglia.
Fuori dal carcere, per buona condotta.
L’ultimo ricordo che ho con la mia famiglia risale al giorno prima della tragedia. Era una sera autunnale, una domenica. Io sarei ripartita la mattina seguente per andare a Catania, dove studiavo. Mio padre mi coccolava tantissimo e io ogni fine settimana cercavo di tornare a casa per trascorrere del tempo con la mia famiglia. Ricordo che eravamo io, Giacomo, mamma e papà sul divano, una qualsiasi domenica sera spensierata in famiglia. Ricordo che mio fratello aveva un vizio, lui adorava attorcigliare i miei capelli e quelli di mia madre e quella sera mi baciava, non voleva che io ripartissi per andare all’università.
Questo è l’ultimo flash della mia vita spensierata.
La mia famiglia aveva un’attività commerciale, vendevamo abiti da sposa, fedi e altri oggetti per i matrimoni. Il calendario segnava il 16 ottobre del 1996, quando un uomo e suo fratello entrarono nel nostro negozio. Volevano comprare degli anelli, dissero, ma fu chiaro poco dopo che le cose stavano diversamente. Erano due habitués, mio padre ormai li conosceva bene: erano esattori ed erano lì per chiedere il pizzo. Mio padre, senza nemmeno pensarci, si rifiutò.
Fu in quel momento che la vita della mia famiglia cambiò per sempre. Uno dei due fratelli iniziò a picchiare mia madre, mentre l’altro si lanciò su papà. Mamma fino a quel momento non si accorse di niente, era seduta sulla poltrona del negozio e stava sfogliando una rivista di abiti da sposa. Dopo una breve colluttazione, mio padre cercò di far suonare l’allarme del negozio che era collegato con le forze dell’ordine. Un gesto di responsabilità civile e coraggio che gli costò la vita: sul tavolo, infatti, poco lontano dall’assalitore, si trovava la pistola di mio padre. Papà l’aveva tolta poco prima per andare in bagno e lì era rimasta. Uno dei due malviventi riuscì a prenderla in mano, sparò e uccise mio padre.
Nel negozio era presente anche mio fratello. Non si era accorto di niente, si trovava nella stanza accanto per cercare le fedi che i due avevano richiesto. Mentre lui stava tornando nell’altra stanza, mia madre riuscì a svincolarsi e uscire fuori dal negozio per chiedere aiuto. È in quel momento che sentì un secondo colpo, andato a vuoto. Uno dei due fratelli, uno dei due criminali, bloccò Giacomo, iniziando a fargli dei tagli con un coltello, mentre l’altro gli sparò alla tempia, uccidendolo.
Mia madre intanto era fuori, vide un ragazzo che era appena arrivato vicino al nostro negozio per prendere la fidanzata e gli chiese aiuto. Provò a tornare indietro da papà e Giacomo, ma si ritrovò davanti a lei i due malviventi. Provarono a spararle. Il colpo non partì, la pistola si era inceppata. Mia madre era viva.
Ma lo sarà ancora solo per pochi mesi. Il 22 marzo del 1997, nel più grande sconforto, mia madre decise di mettere fine alla sua vita. I due angeli della morte furono arrestati dopo solo sette ore dalla tragedia e questo fu possibile solo grazie al riconoscimento di mia madre. Ma da quel 16 ottobre io e mamma siamo rimaste sole per mesi: non ci rimaneva altro che una famiglia distrutta, la solitudine, un grande silenzio intorno a noi. Solo questo. Quando il dolore ebbe la meglio su mia madre, lei mi scrisse una lunga lettera. Mi diceva di allontanarmi dalla Sicilia, di andare via, ma io non ho mai voluto farlo: amo la mia terra, la amo moltissimo, sarebbe stato come fuggire.
Andare avanti a 21 anni è stato difficile. Ero sola e affrontare il processo fu un percorso lungo e travagliato. Nel 1997/1998 nessuno si costituiva parte civile durante i processi di mafia e ritrovarsi a 21 anni, da sola, a lottare per la verità fu molto complicato. Quelli erano anni in cui ancora era molto difficile: significava mettersi contro la mafia e non tutti ebbero il coraggio di farlo. Ma io decisi di andare avanti, nella mia terra, per la mia famiglia.
Nel frattempo ho conosciuto quello che poi è diventato mio marito, oggi Commissario di polizia e allora Ispettore di polizia. Ci sposammo dopo sei mesi dalla morte di mia madre. In quel periodo chiesi anche la revoca della scorta che mi era stata data subito dopo quel giorno di marzo del 1997. La mia vita era diventata invivibile: per una ragazza di 21 anni sentirsi controllata, oppressa, era impossibile. E poi, ho sempre pensato che se la mafia vuole ucciderti, ti uccide. Avevo 21 anni e decisi di prendermi le mie responsabilità e di andare avanti con la mia vita, senza scorta.
Non vorrei però solo parlare del fatto di sangue che ha portato via i miei cari. La mia famiglia era molto altro. Vorrei tanto parlare di mio fratello, di mia madre, di mio padre che erano persone meravigliose. Alcune volte ho difficoltà a guardarmi indietro perché avevo una famiglia meravigliosa che mi manca ogni giorno, soprattutto mio fratello. Tra me e Giacomo c’erano solo 19 mesi di differenza, siamo cresciuti come due gemelli: uscivamo insieme e lui mi chiamava la sua pupetta. Era un ragazzo dolce e ingenuo. Mia madre era molto apprensiva, una mamma chioccia. Mio padre era un grande lavoratore, per lui lavoro e famiglia erano le ragioni di vita. Si ammalò di tumore quando aveva 38 anni. Non si fece mai piegare dalle mafia, ma anzi ha sempre lottato contro l’illegalità, dicendo che questo lo avrebbe reso più forte. Per questo motivo decise di non pagare il pizzo.
Il riconoscimento ufficiale di vittima di mafia arrivò dal Ministero dopo un anno dalla morte di mia mamma, al tempo però dopo tre mesi la regione Sicilia fece anche una legge ad hoc chiamata proprio Chiara Frazzetto. Si trattava di una legge di solidarietà, non si era mai visto che una ragazza di 21 anni si ribellasse e alzasse la voce contro la mafia come feci io.
La memoria è fondamentale. Attraverso il nostro ricordo, loro continuano a vivere. So di non essere eterna ed è per questo che accolgo con tanta passione l’opportunità di parlare ai nostri giovani, educarli alla legalità, perché attraverso il nostro dolore e la nostra sofferenza i ragazzi riescono veramente a toccare con mano cos’è la parola mafia. Ma  soprattutto significa non lasciare morire per una seconda volta chi è già stato ucciso dalla criminalità organizzata. Attraverso il mio dolore, le mie parole, la mia famiglia continuerà a vivere. Non possono essere dimenticati. Abbiamo una grande missione, anche se non è sempre facile: parlare con 300 o 400 ragazzi nelle scuole oppure nelle carceri minorili diventa difficile, soprattutto quando si parla di educazione alla legalità. Il mio obiettivo è far capire ai ragazzi cosa significhi la parola mafia e cosa si trova dietro a questo concetto.

(a cura di Alessia Pacini)

 

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