Una magistratura molto distratta

L’analisi prenderà ora in esame l’atteggiamento della magistratura inquirente, co-protagonista anch’essa, della vicenda processuale scaturita dalla morte di Giuseppe Impastato. L’esame è apparso doveroso, oltreché inevitabile, poiché proprio all’autorità giudiziaria vanno ricondotti, comunque, i risultati dell’attività della polizia giudiziaria, prima esaminata, atteso il principio di dipendenza funzionale stabilito dall’articolo109 della Costituzione.
Va subito precisato che all’analisi e alla ricostruzione dei fatti si procederà distinguendo le varie fasi processuali e l’opera dei diversi magistrati che si sono succeduti nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, giudice istruttore prima e giudice per le indagini preliminari poi nel lungo corso delle varie indagini.
Dalla compiuta istruttoria svolta, infatti, si appalesa diverso il quadro della sensibilità, dell’impegno e della professionalità che ha caratterizzato l’attività di ciascuno degli organi giudiziari che si sono occupati della vicenda. Ovviamente le valutazioni che seguono, in ossequio al principio della separazione dei poteri, si attengono al doveroso rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.
L’inchiesta parlamentare e la presente relazione conclusiva non hanno ad oggetto, infatti, la responsabilità personale degli imputati, bensì le ragioni e le cause dei ritardi e delle omissioni, del depistaggio – per usare il termine adoperato dal giudice Caponnetto – verificatisi nell’accertamento della realtà processuale oggi acclarata e posta al giudizio di una Corte di Assise della Repubblica Italiana. La realtà processuale finalmente emersa e, ancor più i risultati di quest’inchiesta parlamentare, impongono il dovere di riconoscere anche formalmente l’importanza storica del ruolo avuto da Giuseppe Impastato nella lotta alla mafia.
Egli aveva lucidamente individuato un percorso di contrasto alla mafia fondato sulla pubblica denuncia, coraggiosa e originale, di persone e fatti concreti, denuncia calata nel più generale contesto di un lavoro politico e culturale, ricco, approfondito e impegnato, volto a far nascere e consolidare, soprattutto tra le nuove generazioni, una coscienza antimafia. Ma, soprattutto, Giuseppe Impastato aveva compreso che la forza del gruppo di giovani che in lui si riconoscevano, avrebbe potuto dispiegarsi utilmente in favore della legalità e della giustizia, utilizzando anche la postazione del Consiglio Comunale di Cinisi al quale era candidato nelle liste di Democrazia Proletaria. Troppe cose aveva capito Giuseppe Impastato e troppo lucida e determinata era la sua battaglia, perché la mafia potesse tollerarne l’azione instancabile e, nella prospettiva del Consiglio comunale, ancor più efficace e documentata. Con le sue battaglie egli poneva in pericolo gli interessi mafiosi della speculazione edilizia e quelli del traffico di eroina che avevano nell’aeroporto di Cinisi uno snodo fondamentale, come dimostreranno le indagini giudiziarie degli anni successivi e le sentenze definitive di condanna, proprio per quei reati denunciati a Radio Aut da Giuseppe Impastato.

[…] Il primo magistrato ad intervenire sul posto verso l’alba del 9 maggio 1978, avvisato dai Carabinieri della stazioni di Cinisi, è il pretore di Carini, Giancarlo Trizzino. Egli, come si è già visto, effettua il sopralluogo e procede alla ricerca dei resti del cadavere di Impastato ai fini del riconoscimento.
Il lavoro specificamente giudiziario di questa prima fase, si presta ai seguenti rilievi:
1. nell’attività di raccolta delle tracce del reato non avere colto la fondamentale importanza del vicino casolare abbandonato, la cui doverosa ispezione avrebbe potuto, da subito, indirizzare corretta- mente la ricostruzione degli accadimenti che portarono a morte Giuseppe Impastato.
2. avere consentito l’immediato ripristino della linea ferroviaria, senza adeguati rilievi tecnici e accurata descrizione e documentazione fotografica dei luoghi, attività tutte rientranti nella categoria degli atti urgenti esperibili dal Pretore intervenuto sul posto.
3. mancata ispezione del casolare posto nelle immediate vicinanze della ferrovia e del luogo dove avvenne lo scoppio.

Il pretore Trizzino, nel corso della ricognizione dei luoghi, contrariamente a quanto ha ricordato dinanzi a questa Commissione si avvide – e non poteva essere diversamente – di quel casolare.
La circostanza è stata oggetto di uno specifico approfondimento:
RUSSO SPENA COORDINATORE. Risulta dagli atti che nei pressi, forse a circa 150 metri dal tratto di binario divelto dall’esplosione, vi era una casa rurale diroccata o, comunque, delle mura in piedi. Vorrei sapere se lei ha fatto delle ispezioni all’interno di tale casa.
TRIZZINO. Non l’ho né vista né mi fu segnalata.
FIGURELLI. Vorrei riprendere la questione sollevata dal senatore Russo Spena in merito al casolare. Nel verbale di ricognizione da lei firmato in quella circostanza c’è scritto che: « Nello spiazzale antistante una casa rurale abbandonata nei pressi della strada ferrata si rinviene una autovettura targata Palermo 142453, Fiat 850 » e via dicendo.

La vicinanza della vettura della vittima al casolare, in relazione alla particolari modalità del fatto, avrebbe dovuto suggerire una visita all’interno del manufatto. E tuttavia va dato atto al dott. Trizzino che, nel fonogramma trasmesso alle ore 9,45 alla Procura della Repubblica di Palermo, si limita ad una notizia che fotografa la situazione senza affacciare alcuna ipotesi (..il ventaglio delle ipotesi era aperto. ha detto nel corso della sua audizione il dott. Trizzino) sulla natura del fatto e sulle causali di esso, ciò che spettava alla Procura della Repubblica di Palermo.

[…] Sul luogo dei fatti, in contrada «Feudo», quella stessa mattina, intervenne anche il Sostituto di turno della Procura della repubblica di Palermo, dottor Domenico Signorino. Dopo di lui, anche il Procuratore aggiunto dott. G. Martorana, si recò sul posto, perché il fatto, evidentemente, fu ritenuto di particolare rilevanza. Il dott. Martorana, peraltro, non solo visita il teatro del fatto, ma si ferma nella Stazione dei Carabinieri di Cinisi, dove presiede una riunione con il sostituto Domenico Signorino, il maggiore Subranni e gli altri ufficiali dei carabinieri sopraggiunti sul posto.
può osservarsi, sulla base di questi dati di fatto, accertati nel corso della inchiesta parlamentare, che dal punto di vista delle risorse umane impiegate, vi erano tutte le condizioni per una corretta e completa ricerca delle tracce del reato e di ogni altro elemento utile alla ricostruzione del fatto e per una compiuta valutazione di tutte risultanze emerse già quella mattina. Sulle caratteristiche dell’attività di ricerca delle tracce del reato si è ampiamente detto. Quanto alla valutazione dei materiali raccolti va osservato che a Cinisi, vi fu una riunione cui parteciparono ben due esperti e qualificati pubblici ministeri, vari ufficiali dei carabinieri, anch’essi capaci e competenti, e con loro il comandante della stazione di Cinisi, sicuro conoscitore di Peppino Impastato, della sua storia, degli obiettivi delle sue battaglie, specie delle ultime.
Il risultato di quest’incontro, verosimilmente, è contenuto nel fonogramma che il procuratore Martorana, ex articolo 233 cpp. del 1930, invia quella stessa mattina del 9 maggio 1978, al procuratore generale di Palermo, e nel quale si afferma che le « indagini del caso vengono espletate tenendo presente sia l’ipotesi del suicidio che quella dell’attentato dinamitardo ».
Sulla scorta di quanto evidenziato nella disamina della prima attività di indagine, pare difficile giustificare e comprendere come investigatori e magistrati abbiano potuto evitare accuratamente di prendere in esame l’ipotesi mafiosa.
Vero è che non fu evidenziata la circostanza decisiva del rileva- mento da parte del maresciallo Travali, all’interno del casolare durante il primissimo sopralluogo, di pietre macchiate di sangue. Ma a parte l’osservazione che è inspiegabile ed ingiustificabile la mancata ispezione del casolare da parte del dott. Signorino, pubblico ministero titolare dell’indagine, presente sul posto, occorre sottolineare che si trattava di magistrati conoscitori del territorio e delle dinamiche criminali in esso presenti e ben consapevoli, dunque, della signoria mafiosa ivi esercitata.
L’ingiustificabilità della scelta risulta confermata dal fatto che gli elementi acquisiti non avevano dato e non potevano dare, ai magistrati e ai carabinieri che indagavano, certezze e determinazioni univoche circa la natura del fatto. Il fonogramma al procuratore generale, che apoditticamente esclude l’ipotesi omicidiaria, parla, infatti, di due soluzioni, peraltro tra loro alternative: suicidio o attentato fallito.
Dunque permaneva una incertezza.
E allora, sulla base di quali evidenze furono escluse altre ipotesi? perché fu evitato lo scrutinio di altre causali, prima fra tutte quella dell’omicidio? perché ciò avveniva senza che neppure una parola fosse spesa per spiegare le ragioni di quella esclusione?
E se, forse, non vi era, spazio per attivare accertamenti su una causale di omicidio diversa da quella mafiosa, per quest’ultima, invece, erano del tutto evidenti, già in quella fase, gli elementi che rendevano doveroso lo verifica della possibilità che fosse stata la mafia di Cinisi ad ordinare ed eseguire, con quelle modalità, l’assassinio di Peppino Impastato.
Come mai nessuno degli inquirenti si pose la domanda se per caso Impastato avesse avuto nemici; se per caso qualcuno avesse avuto interesse, e perché alla morte di Peppino?
L’esclusione aprioristica della pista mafiosa, già nella giornata del 9 maggio 1978, appare dunque difficilmente giustificabile. D’altra parte, va sottolineato come l’esclusione di ogni attenzione verso gli ambienti mafiosi, non sia stata decisa a seguito del ritrovamento della lettera con il proposito suicida.
L’esclusione dell’omicidio e, in particolare, della pista mafiosa avviene in realtà prima: quando sono organizzate e programmate le perquisizioni, nelle prime ore di quelle mattina, quando la lettera, ovviamente, non era stata ancora rinvenuta e, ciononostante, la mafia era stata esclusa.
I carabinieri inquirenti – e con loro il magistrato, necessariamente informato del limitato ventaglio di ipotesi seguite – esclusero la pista mafiosa prima ancora che venisse trovata la lettera ed emergesse, così, un’ipotesi di suicidio.
Ai titolari della indagine, peraltro gli amici e i familiari della vittima illustrarono immediatamente le ragioni della infondatezza della tesi del suicidio. Fu detto, tra gli altri motivi, che quel manoscritto di Impastato, era stato vergato diversi mesi prima del fatto e la circo- stanza poteva essere immediatamente verificata, grazie ai riferimenti temporali ivi contenuti. Le condizioni psicologiche di Peppino, la sua attività, la programmazione di impegni per i giorni successivi, lo stato d’animo positivo e battagliero che caratterizzava il suo impegno in quella primavera del 1978 e i fatti che lo comprovavano, furono adeguatamente rappresentati e documentati anche nel corso della istruzione sommaria condotta dal dott. Domenico Signorino.
Ma tutto ciò non fu sufficiente neppure a far sorgere dubbi nel magistrato.

 

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