Falcone fu isolato dai suoi colleghi magistrati di Palermo:”Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni?”

FALCONE AI SUOI COLLEGHI MAGISTRATI DI PALERMO QUANDO DECISE DI ANDARE A ROMA: ” SE RESTO QUI, DIVENTO IL LORO ALIBI”

Falcone scrisse nei suoi appunti prima di morire:”Il Csm indaghi sulla Procura di Palermo”.

Il Caso Palamara dimostrerà tanti giochi di potere all’interno della magistratura, Ci vorranno 28 anni

 Esiste negli archivi di Repubblica un articolo del giugno 1992 che dimostra quanto strano è il modo di fare di certe toghe. Falcone sentiva tanta invidia e tanto “vuoto” attorno e decise di andare via.

In quell’articolo si parla dei primi appunti di Giovanni Falcone trovati nel PC del suo studio.La prova che Falcone stava indagando su GLADIO e gli affari politici alla Regione Siciliana

Due cartelle fitte. uscite dalla stampante di un computer.Un centinaio di righe che raccontano il disagio e l’ amarezza degli ultimi mesi vissuti dal giudice nel tribunale di Palermo.

Lo scoop fu de “Il Sole-24 Ore”, mezza pagina per ricostruire il clima del Palazzo nelle settimane a cavallo fra il 1990 e il 1991, per capire come si muoveva Giovanni Falcone nel ruolo di procuratore aggiunto, per descrivere il clima di un Palazzo di giustizia. “E’ per questo che sono andato via da Palermo, tienili questi fogli, non si sa mai”. La giornalista del “Sole” Liana Milella ricorda le parole di Falcone quando il magistrato le consegnò quelle annotazioni.

Era il luglio del 1991. Un anno dopo, nel mezzo delle polemiche sui diari segreti di Falcone, il quotidiano milanese pubblica stralci di quelle memorie trascritte nel computer e avverte: “In queste carte non vi sono elementi che possono essere di utilità per le indagini sul delitto, ma rappresentano la prova che il giudice aveva l’ abitudine di prendere appunti sulle ostilità che man mano incontrava nel suo lavoro palermitano”.

 Due cartelle, un centinaio di righe che dimostrano il “giallo del memoriale” di Giovanni Falcone. Quel centinaio di righe fanno parte del diario del magistrato che tutti cercano? E’ certa una sola cosa: sono due fogli usciti da una stampante collegata a un computer. Tutto il resto è rimasto nel mistero . Ciò che è stato trovato non è molto chiaro e chi ha indagato non  ha mai approfondito. Innanzitutto non è chiaro dove questo diario è stato trovato , come è arrivato alla procura di Caltanissetta e quante mani lo hanno toccato. E poi, per tre giorni, si sono alternate voci fra Roma e Caltanissetta, si sono intrecciati timori sulla scomparsa delle memorie, si sono incrociate smentite e contro-smentite, si sono inseguite mezze frasi e silenzi fino a una dichiarazione di Salvatore Celesti, il procuratore che indagò sul caso Falcone: “Il diario c’ è, l’ ho già letto, tutto quello che c’ è scritto non riguarda le indagini. Lo darò subito alla famiglia, tra quelle pagine ci può essere solo l’ ipotesi di una qualche notizia di reato, faremo gli approfondimenti opportuni…”. Ma cosa c’ era scritto in questi due primi fogli che pubblicò il “Sole”? Qual era il malessere di Falcone alla vigilia della sua partenza per Roma? E’ l’inizio del depistaggio. Quei fogli dovevano finire in mani sicure per chi aveva tramato contro Falcone.

Ecco i passaggi più importanti, appunti che vanno dai primi giorni del dicembre del 1990 al 6 febbraio dello stesso anno. Il soggetto è “Il Capo”, il procuratore capo della Repubblica di Palermo Piero Giammanco, oggi scomparso. Magistrato che si mise “contro” Falcone insieme ad altri PM di allora.

Intorno al 10 dicembre 1990 Falcone e Giammanco si pizzicano  sul caso delle indagini alla Regione Siciliana. Falcone scrive:  “Ha sollecitato la definizione di indagini riguardanti la Regione siciliana del capitano De Donno ( ufficiale poi finito sotto inchiesta per la trattativa e stretto collaboratore di Falcone) assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente, – scrive Falcone-qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’ archiviazione e che solleciti l’ ufficiale De Donno in tale previsione”.

Falcone indagava anche su Gladio e gli omicidi politici

Un altro appunto è del 18 dicembre del 1990. Falcone parla sempre del procuratore Giammanco nei suoi appunti: “Dopo che, ieri pomeriggio, si è deciso di riunire i processi per gli omicidi politici di  Reina(DC), Mattarella(DC) e La Torre(PCI), stamattina gli ho ricordato che vi è l’ istanza della parte civile nel processo La Torre di svolgere indagini sulla organizzazione Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibile col vecchio rito, acquisendo copia dell’ istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo”. Il giorno dopo, il 19 dicembre: “Non ha più telefonato a Giudice andrea (il procuratore capo di Roma ndr) e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio”.

L’ amarezza di Falcone nasce soprattutto dallo “spazio” che doveva conquistarsi giorno dopo giorno in procura, proprio lui che era diventato procuratore aggiunto con la delega di tutte le inchieste su Cosa Nostra, cioè il coordinatore del pool antimafia. Ma, evidentemente, le cose andarono in maniera diversa. Scrive ancora Falcone il 26 gennaio del 1991: “Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta”.

E così Falcone racconta un’ altra mezza dozzina di episodi avvenuti al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo, così spiega la sua decisione di lasciare la Sicilia (“Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?”) per il ministero. ‘ Il Csm indaghi sulla Procura’

Quali furono le prime reazioni a Palermo dopo la pubblicazione di questi appunti? Reazioni? Nessuna. Solo silenzio. Non parlò il procuratore Giammanco, Tutti  in silenzio: da Pignatone ad altri PM e magistrati del Palazzo presenti a Palermo in quel periodo. L’ unica voce fu quella di Giuseppe Ayala,  allora neodeputato del Pri e per tanti anni testimone come sostituto procuratore a Palermo di tutti i veleni del Palazzo.

Ayala sul punto: “Falcone non è andato a Roma per vendersi al potere come purtroppo è stato detto, ma perché egli riteneva di non potere più a Palermo lavorare così come poteva, sapeva e doveva”. Sul “caso” intervenne anche il deputato del Pds Pietro Folena: “Credo che il Csm debba aprire un nuovo esame sulla situazione della procura di Palermo”. L’ ultima estate siciliana è appena cominciata. E subito un anonimo “molto informato” fa il giro di Palermo. E’ la lettera senza firma di 8 cartelle, spedita a 39 indirizzi, dal Presidente della Repubblica ai direttori di alcuni giornali, dai magistrati ai segretari di alcuni partiti. Dentro si parla di mafia e di antimafia, di scandali, di “coperture”, di tangenti, di strani incontri.

Un altro episodio inquietante fatto di mezze verità. Bugie e depistaggi , frutto di quella brutta stagione della magistratura palermitana rimasta nel mistero. Vico diceva “la storia si ripete”. Oggi il caso “Palamara” ha ampiamente dimostrato di cosa sono capaci i magistrati all’interno dei vari giochi di palazzo. Il giudice Falcone fu l’antesignano . Aveva già capito prima di morire che oltre ai boss mafiosi a fare terra bruciata attorno Lui ci stava pensano qualcun’altro.  Nei suoi appunti, trovati e resi pubblici dopo la sua  morte si mischiano con l’ immondizia, il tritolo la mafia, tante vergogne di Stato. Sembra quasi intuire che , quando Falcone è andato all’attacco dei boss tutto filava liscio. Quando il magistrato palermitano,massacrato dalle bombe, insieme alla moglie e ai poliziotti della scorta, ha cominciato a indagare e guardare gli affari dei colletti bianchi potenti,  senza saperlo ,ha firmato la sua condanna a morte. Se ne vergognino per sempre tutti quelli che lo isolarono e che in questi anni hanno fatto il gioco dei depistatori

 

Fonte: Archivi Repubblica