Tutte le voci dentro Cosa Nostra

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Francesco DI CARLO
Collaboratore anch’egli dal giugno 1996, aveva rivestito un ruolo di particolare rilievo – rappresentante della famiglia di Altofonte – prima di trasferirsi, per non chiariti contrasti interni a “Cosa Nostra”, in Inghilterra, dove era stato poi arrestato nella metà degli anni Ottanta per un grosso traffico di stupefacenti.
Pur con le perplessità legate dunque all’atipica esperienza del DI CARLO, la Corte riteneva le sue dichiarazioni, già oggettivamente riscontrate in numerosi altri procedimenti, positivamente caratterizzate da logicità, costanza e coerenza e dunque dotate di elevato valore di attendibilità ed importanza, in considerazione dell’alto livello di conoscenze acquisite grazie al ruolo di primo piano svolto all’interno di “Cosa Nostra” fino ai primi anni ’80 ed ai contatti costantemente mantenuti con i fratelli ed il cugino Antonino Gioè, tutti investiti di ruoli operativi nell’ambito della consorteria.
Il collaborante narrava così che suo fratello, Giulio DI CARLO, gli aveva detto che nell’ambito di “Cosa Nostra”, per scopi dichiaratamente infamanti, si era deciso di spargere la voce che era stato lo stesso dott. FALCONE a inscenare un finto attentato per acquistare maggiore prestigio anche all’interno degli ambienti giudiziari e per contrastare il calo di tensione nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Il cugino Antonino Gioè gli aveva confermato che in realtà l’attentato era stato organizzato da “Cosa Nostra” e che non vi avevano preso parte uomini d’onore dei mandamenti di Corleone e S. Giuseppe Jato, desumendo attraverso le proprie conoscenze delle regole mafiose e la personale esperienza, che l’attentato non poteva che essere opera della famiglia mafiosa dei MADONIA, particolarmente vicina ai “corleonesi” di Salvatore RIINA, dato che era stato eseguito sul loro territorio.

Vito LO FORTE
per lungo tempo legato da rapporti criminali a diversi esponenti di potenti famiglie mafiose come quelle dei MADONIA, dei Fidanzati e dei GALATOLO, il LO FORTE non era però mai stato affiliato a Cosa Nostra.
Aveva confessato la propria responsabilità in ordine a molti fatti delittuosi e le sue dichiarazioni venivano positivamente valutate dalla Corte nonostante fosse emerso in dibattimento un omicidio commesso dal LO FORTE dopo l’avvio della collaborazione.
In relazione ai fatti dell’Addaura, il collaboratore,
– ritenuto intrinsecamente attendibile dai primi giudici, sentenza f. 200, -dichiarava di avere ricevuto nel dicembre 1989, mentre si trovava agli arresti domiciliari presso l’abitazione della sorella, la visita di Angelo e Vito GALATOLO, cugini, in quanto, rispettivamente, figli di Giuseppe e di Vincenzo e, nell’occasione aveva parlato con il primo di loro, sia delle indagini in corso sull’omicidio di tale Matteo Corona – effettivamente ucciso il 07/12/1989 – cui aveva partecipato, sia dell’attentato dell’Addaura, in relazione al quale il giovane GALATOLO gli aveva detto che era stato proprio lui, insieme ad altri, a collocare la bomba e che l’azione era stata decisa per intimidire il giudice FALCONE ed i componenti della delegazione svizzera venuta in Sicilia. Lo stesso collaborante affermava però di ben conoscere le vanterie del giovane GALATOLO e quindi di non poter essere certo che quanto appreso fosse la verità.

Angelo SIINO
Con riferimento specifico alla vicenda dell’Addaura, Angelo SIINO, soggetto non inserito ritualmente nell’associazione mafiosa ma certamente assai attivo come emerso nel corso di altri procedimenti, nel settore degli appalti e dei contatti con il mondo politico contiguo a Cosa Nostra, ha dichiarato, in sostanza, che mentre andava in onda un programma televisivo in cui venivano mostrate le immagini di tale fallito attentato, nel 1993 a Termini Imerese, il GALATOLO Vincenzo, suo co-detenuto, aveva avuto una forte reazione di stizza, lasciandosi andare ad espressioni scurrili ed offensive nei confronti del dott. FALCONE, attraverso cui egli aveva ritenuto di arguire che il suo compagno di detenzione aveva partecipato in modo diretto alla esecuzione dell’attentato.
Peraltro il collaborante precisava di non potere escludere che si trattasse di una pura messa in scena di un suo compagno di detenzione.

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