I Messina Denaro non vollero bombe a Selinunte per proteggere il ricco mercato dei reperti trafugati gestito dalla cosca e dai loro amici

Le bombe a Selinunte avrebbero distrutto il ricco mercato  dei reperti e messo in evidenza tutti i furti effettuati dal dopo guerra

Nel gennaio del 1990-come riporta l’AGI- Paolo Borsellino chiese il divieto di soggiorno per Francesco Messina Denaro, vecchio campiere classe 1928 e padre del superlatitante Matteo, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, con un decreto che “è una sorta di schiaffo a chi l’aveva avanzata”. Erano gli anni in cui ‘don Ciccio’ “usciva fuori dai radar, dicendo che aveva una brutta malattia e mandando avanti il figlio Matteo che partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92”.  Una decisione che fa puzza da ogni parte si legga. Eppure, Don Ciccio era molto conosciuto dalle Forze dell’Ordine. Superficialità della magistratura del tempo o altro?Non lo sapremo mai. Tanto i magistrati non pagano mai per i loro errori. 

Don Ciccio Messina Denaro aveva ucciso e rubato già dagli anni 50. In diversi articoli pubblicati dal 2018 sul nostro blog ne abbiamo parlato

Correva l’anno 1957 e a Castelvetrano viene ammazzato con la lupara un Notaio . Il Notaio Craparotta, nonno di un conosciutissimo legale castelvetranese particolarmente impegnato anche nel sociale. Nell’agguato viene freddato anche  un dipendente dello Stato. I Carabinieri arrestarono due medici e alcuni mafiosi. Don Ciccio veniva ritenuto uno dei sicari del delitto Craparotta.

Nel 1962 fu protagonista del furto dell’Efebo dal comune di Castelvetrano. Da quella data Don Ciccio entra nel business dei reperti rubati. I Carabinieri del tempo ,in molte relazioni investigative arenatesi nelle scrivanie dei tribunali , specificarono la pericolosità del boss. I Messina Denaro e i loro complici hanno lucrato per decenni su Selinunte

Vincenzo Tusa fece trasferire molti reperti a Palermo per salvarli dalle mani mafiose della cosca di Castelvetrano e dai loro amici trafficanti d’arte

Il Satiro danzante, l’Efebo di Selinunte e tutta l’area archeologica vicina a Castelvetrano, meta ogni anno di milioni di turisti. Un tesoro per la Sicilia e per l’umanità, una mammella a cui attingere anche per Cosa Nostra. Nel territorio dei Messina Denaro, per anni la mafia ha fatto affari con i beni archeologici, non solo grazie ai numerosi tombaroli – tra cui si annoverano i diversi ex pescatori e altri – ma anche attraverso chi era in grado di piazzare i reperti sul mercato europeo e internazionale.

Angelo Siino lo spiega molto bene il ruolo di Don Ciccio

 

«Era Don Ciccio  soprattutto che  aveva questo hobby particolare, perché la sua carriera la iniziò proprio come tombarolo a Selinunte».

Così il collaboratore di giustizia Angelo Siino descriveva Francesco Messina Denaro, il padre del boss di Castelvetrano 

 Il vecchio Messina Denaro era l’esperto di archeologia che avrebbe potuto contare su una rete di fidati tombaroli, e su un colpo di fortuna che riporta ai legami con la famiglia del senatore Antonio D’Alì, di cui Francesco Messina Denaro era il campiere.Don Ciccio era un umo di campagna ma dal cervello fino. Qualcuno lo formò bene e gli fece capire quanti soldi si potevano fare con i reperti di Selinunte. Per decenni fecero razzia di tutto ciò che trovavano. In molti si arrichirono . Non solo i Messina Denaro fecero soldi

L’elevazione del Boss

«Il livello sociale dei Messina Denaro era infimo – spiegò ancora Siino ai magistrati durante una deposizione – in quanto suo padre (il nonno di Matteo Messina Denaro) era bidello, con tutto il rispetto per i signori bidelli, era un bidello particolare. Non è che era chissà che… Poi praticamente loro in una zona bellissima, che peraltro non era di loro proprietà, avevano trovato una serie di reperti archeologici. Questo posto era di proprietà dei D’Alì. C’era un firriato, una sorgente d’acqua calda e diverse grotte, dove mi dissero: “Qua quello che abbiamo trovato è stato veramente incredibile”».

Un ruolo chiave , come già detto,Francesco Messina Denaro lo ha  giocato anche nel furto dell’Efebo di Selinunte, la statuetta del V secolo a.C. ritrovata a fine ‘800 in una contrada di Castelvetrano, che per sei anni – tra il 1962 e il 1968 – sparì, prima di essere recuperata dalla polizia a Foligno dopo uno scontro a fuoco. «All’inizio della sua splendida carriera – racconta Siino – il Messina Denaro padre ebbe a trattare la questione del famoso Efebo selinuntino. E da quel momento in poi, loro capirono che il filone era redditizio, era molto importante, e da lì in poi si sono sempre occupati di reperti archeologici e di arte». Una passione trasmessa da padre in figlio e sublimata da Matteo Messina Denaro, grazie ai suoi contatti internazionali, «agganci romani e svizzeri», li chiama l’ex ministro degli Affari pubblici di Cosa Nostra. E non solo. Dei viaggi della primula rossa in Austria parlano i pentiti, a trovare «una bellissima ragazza austriaca», «ma ne aveva anche un paio di cecoslovacche – ricorda Siino -. Insomma, aveva un po’ di persone, andava spesso fuori Italia». 

Un altro Messina Denaro programma di portare via il Satiro Danzante, in quel periodo esposto a Mazara del Vallo. A raccontarlo è uno degli uomini che avrebbero dovuto portare a segno il colpo, poi sfumato: Concetto Mariano, affiliato della famiglia di Mazara, e collaboratore di giustizia dal 2002. «Nel nostro ambiente veniva chiamato il pupo – racconta – ci era stato detto che aveva un valore commerciale non indifferente, che ognuno dei partecipanti, una volta messo a segno il colpo, avrebbe preso addirittura 200 milioni. Mi venne detto che Matteo Messina Denaro si occupava di questa situazione e ci avrebbe pensato lui, tramite i suoi canali, a farsi rimpiazzare il Satiro Danzante». Seguono appostamenti che però non hanno buon esito. «Mi resi conto – continua il pentito – che a guardia restavano al massimo tre vigili urbani, non era difficile entrare. Però, una volta che già eravamo quasi pronti, abbiamo dovuto desistere perché ci accorgemmo che la gente passava, per cui una volta dentro noi non avremmo avuto più il controllo della situazione, qualcuno avrebbe pure potuto accorgersene e dare l’allarme». Passano alcuni mesi a Andrea Mangiaracina, oggi al 41bis, torna a bussare alla porta di Mariano. «Tornò a parlarci di questa situazione che si doveva assolutamente portare a termine perché Matteo Messina Denaro era ritornato all’attacco». Ma anche il secondo tentativo va male, «perché la strada quel giorno era molta trafficata». Sei mesi dopo il Satiro fu spostato da Mazara del Vallo, facendo svanire il sogno del latitante di Castelvetrano.

Anche Giovanni Brusca, braccio destro di Totò Riina e poi collaboratore di giustizia, parla dell’attenzione di Cosa Nostra per il mondo dell’archeologia nei primi anni ’90, anche come strumento di pressione sullo Stato italiano. «C’era la possibilità di potere fare uno scambio di materiale – ricostruisce Brusca ai magistrati – cioè dando queste opere d’arte in cambio di permessi, al ché io mi diedi aiuto per potere trovare di questo tipo di materiale. Mi rivolsi a Salvatore Riina e Matteo Messina Denaro. Io non ero competente in materia, mi affidavo a loro; in più Messina Denaro mi ha fatto incontrare una persona, credo che non sia uomo d’onore, però una persona molto vicina a lui».

È l’incontro che avviene nella gioielleria Geraci di Castelvetrano. A lungo gli inquirenti hanno ipotizzato che questo ospite – «uno che stava in Svizzera e aveva contatti con mezzo mondo» 

Quello che invece è stato accertato è che per anni Castelvetrano è stata una importate centrale di smistamento di un vasto traffico di reperti archeologici, che si snodava tra l’ltalia e la Svizzera. Una logica conseguenza dell’onnipresenza dei Messina Denaro su quel territorio: «Qualsiasi cosa c’era a Castelvetrano che potesse produrre un chicco di grano – chiosa Siino – loro ci mettevano subito le mani».