Le competenze digitali dei dipendenti pubblici

Le competenze digitali dei dipendenti pubblici
di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile
osservatorio dati professioni e competenze Aidr

La parola competenza è ambigua e illusoria almeno quanto la parola
innamoramento. Per entrambe è difficile dare una definizione, anche
se, per la seconda parola, George Bernard Shaw in qualche modo l’ha
fatto, definendo l’innamoramento un’esagerazione smisurata della
differenza tra una persona e tutte le altre. Per le competenze,
invece, la questione è più complicata. In primo luogo perché, a
differenza dell’innamoramento, che proietta i fortunati in uno stato
di grazia onirico totalmente estraneo al mondo reale, le competenze
vengono esercitate in una cruda e superficiale realtà, oltre a essere
valutate, misurate e giudicate da persone a volte assolutamente
inadeguate. Inoltre, a differenza delle esagerazioni amorose, il
divario di competenze può essere esageratamente smisurato tra una
persona e tutte le altre. La misura, la valutazione e il giudizio, in
realtà, vengono esercitati anche per i sentimenti, e questo la dice
lunga sullo spessore culturale e morale di una società in cui ognuno
si sente autorizzato a valutare, misurare e giudicare gli altri,
rispetto a qualsiasi campo della conoscenza, con un rigore esagerato
se confrontato con l’indulgenza che viene applicata verso sé stessi.

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La PA, a differenza del settore privato, in cui gli addetti alla
formazione e alla selezione del personale hanno un ruolo
delicatissimo, utilizza dei meccanismi di selezione, di valutazione e
di rilevazione dei fabbisogni formativi quantomeno bizzarri. Il titolo
di studio, per esempio, l’antico italico pezzo di carta, quello che
“un laureato conta più di un cantante”, per dirlo con le parole di
Guccini, è considerato ancora il principale lasciapassare per
l’accesso al concorso pubblico e alle carriere che “contano”. In più
è, (o dovrebbe essere?) la prova provata delle competenze possedute
dai candidati, che solleva le commissioni da qualsiasi responsabilità,
liberandole dal gravoso compito di indagare sul percorso di vita che
ciascun individuo ha intrapreso quando ha lasciato i banchi
dell’università e che, probabilmente, lo ha arricchito almeno quanto
il percorso di studi. Il ruolo di chi si occupa della formazione e
della gestione delle risorse umane, quindi, è essenziale per
l’adozione di percorsi mirati ad accrescere il set di competenze
digitali dei lavoratori pubblici. È necessario conoscere a fondo i
processi lavorativi, le tecnologie adottate e i singoli individui, per
attuare misure realmente efficaci e spendibili dai lavoratori. C’è da
dire che, molto frequentemente, le aree che si occupano di gestire le
risorse umane di una pubblica amministrazione sono costituite da poche
persone con le idee chiare, spesso arrese, sfiduciate e messe da
parte, e da molte persone con le idee confuse, in cerca di visibilità,
di gloria e di carriere, che probabilmente approdano all’ufficio del
personale per sbaglio, per stanchezza o perché non hanno trovato una
collocazione migliore. Questo aspetto, laddove scarseggino le
competenze umane e relazionali, rende l’applicazione di qualsiasi
provvedimento riguardante le competenze digitali molto complesso. I
dipendenti pubblici che acquisiscono nuove competenze, di qualsiasi
tipo, dovrebbero avere dei benefici che non sempre sono evidenti.
Benefici in termini di possibilità di crescita all’interno
dell’organizzazione e di migliorie tangibili nello svolgimento del
lavoro. Tutto ciò, in molte PA, non è possibile. Non è possibile
perché la visione prospettica di ogni amministrazione pubblica è
limitata dal perimetro istituzionale nel quale ci si muove. Non è
possibile perché il meccanismo perverso attraverso il quale si
costruiscono le carriere, la gloria e la visibilità nella Pubblica
Amministrazione non è affatto associato al merito e alle competenze
possedute, piuttosto viene costruito partendo dalla formalizzazione,
sotto forma di delibere spendibili nei concorsi, di un qualche tipo di
incarico, anche il più insignificante, di una qualche pubblicazione,
anche la più insignificante, e dalla partecipazione a commissioni e
gruppi di lavoro, che adesso vengono chiamati più scenograficamente
cabine di regia o task force. Insomma, fare carriera è un vero e
proprio lavoro nel lavoro che assorbe quasi tutte le energie dei
lavoratori. Le aspettative riposte nel Piano Nazionale di Ripresa e
Resilienza (PNRR), quindi, sono subordinate al (mal)funzionamento di
una macchina con pochi ingranaggi giusti che vengono fatti funzionare
nel modo sbagliato e molti ingranaggi sbagliati che funzionano in modo
sbagliato. La mancanza di competenze digitali non è soltanto associata
alla velocità con cui si muove la tecnologia e all’incapacità dei
lavoratori pubblici di inseguirne i cambiamenti, ma è frutto di un
sistema che negli anni ha disinvestito nella cultura e nella
condivisione, favorendo l’individualismo e la competizione. In una
recente intervista, il Ministro per l’innovazione e la transizione
digitale Vittorio Colao ha rilasciato la seguente dichiarazione.
“Sappiamo tutti che non c’è vera innovazione senza profonde
competenze: mancando queste gli investimenti non possono decollare, la
modernizzazione della PA rimarrà al palo, il sistema educativo non può
diventare un motore di promozione sociale. Vogliamo innanzitutto
colmare il gap digitale e competitivo tra Italia in Europa, grazie a
un cambiamento culturale profondo di metodo. Occorrono investimenti,
nuovi processi nella pubblica amministrazione, ma soprattutto
competenze”.
Non è esatto. Dovremmo sapere tutti che non c’è vera innovazione se
non c’è una profonda cultura condivisa. I cambiamenti di qualsiasi
tipo, anche quelli peggiorativi, hanno sempre una solida base
culturale. Le competenze sono una conseguenza di un percorso culturale
che la formazione può soltanto perfezionare. Per cambiare realmente il
lavoro pubblico è necessario cambiare la cultura del lavoro,
valorizzando adeguatamente le risorse umane, a partire dalla
dirigenza. La Pubblica Amministrazione è composta da diverse anime
molto diverse tra loro. Ci sono alcune eccellenze, grandi e piccole,
in cui il livello culturale è altissimo e molte amministrazioni
paludose in cui rilevare i fabbisogni formativi è complesso a causa di
processi organizzativi lacunosi, infrastrutture inadeguate e scarsa
visione da parte dei vertici. Qualche anno fa, ingenuamente, avevo
maturato la convinzione che per colmare i gap cognitivi digitali e
rilevare i fabbisogni formativi nella PA fosse sufficiente applicare
due modelli di rappresentazione delle competenze, Syllabus ed ECF 3.0,
per misurare il livello e pianificare la formazione. Entrambi i
modelli propongono un sistema di misura attraverso la rilevazione di
alcune dimensioni che possono rappresentare il livello delle
competenze digitali dei lavoratori pubblici. Le dimensioni possono far
riferimento all’autonomia, alla complessità dei compiti svolti, ai
comportamenti o al dominio cognitivo degli individui. Attraverso la
combinazione di queste componenti, è possibile valutare il set di
competenze digitali di base e specialistiche e attuare le politiche di
formazione digitale più adeguate. Questo in teoria. In pratica, quando
mi sono trovato a insegnare ai lavoratori delle amministrazioni
pubbliche “come si fa”, ho capito meglio l’impossibilità di applicare
metodi scientifici generalizzati. In primo luogo perché per effettuare
una qualsiasi misura bisogna aver chiaro cosa si deve misurare e come.
In un’istituzione di qualche centinaio di dipendenti, esistono:
– aree diverse (amministrative, produttive e tecnologiche)
– tecnologie diverse
– processi diversi
– organizzazioni del lavoro diverse
– esperienze personali diverse
– generazioni diverse
– volontà diverse
– motivazioni diverse
– interessi diversi
– culture (e subculture) diverse
– punti di vista diversi
– dirigenti diversi
Insomma, la parola più rappresentativa della pubblica amministrazione
non è “digitale” ma “diversità”. Propagandare una qualche pozione
magica che trasformi, seppur in un PNRR ben fatto, la parola diversità
in digitale è pura demagogia. Per attuare un piano di formazione
digitale nella PA è necessario procedere in una duplice direzione: da
una parte ci sono le diversità e le necessità di competenze digitali
specifiche per i singoli individui, dall’altra c’è la cultura digitale
collettiva. E le due cose seguono canali totalmente distinti; :un
conto è creare il tessuto di una nuova cultura, un altro conto è
formare una risorsa all’uso di un foglio di calcolo o alla
configurazione di un firewall. Ogniqualvolta ho indossato i panni da
docente, queste due necessità sono emerse prepotentemente: i
lavoratori vogliono conoscere il lessico, le tecnologie e le
possibilità offerte dalla trasformazione digitale, ma per condurre con
maggiore efficacia il lavoro quotidiano hanno bisogno di corsi
specifici. Corsi che nella stragrande maggioranza dei casi si
riferiscono non a un “digitale generico”, ma a temi specifici
funzionali alle scelte tecnologiche e organizzative
dell’amministrazione. Purtroppo, l’intreccio generazionale non aiuta
molto a sciogliere questi nodi. La forza lavoro prossima alla pensione
è spesso disinteressata alle opportunità di crescita, mentre le nuove
generazioni hanno competenze digitali più legate all’uso dei
dispositivi e delle applicazioni social che non ai prodotti, ai metodi
e ai linguaggi del mondo digitale. I giovani, insieme alle fasce di
lavoratori di mezza età, molto spesso apprendono sul campo le
competenze necessarie allo svolgimento del lavoro, a volte vengono
addirittura formate attraverso corsi che non hanno un’applicabilità
alle attività quotidiane e che rappresentano più che altro una perdita
di tempo e di energie. È proprio dalla diversità accennata nelle righe
precedenti che bisogna partire per affrontare la sfida del digitale.
In questo, possono essere d’aiuto le famose regole delle 5W, derivanti
dal giornalismo anglosassone, quantomeno per suddividere una pubblica
amministrazione in sottoinsiemi omogenei e pianificare una formazione
mirata. Chi sono i dipendenti pubblici? Che tipo di attività svolgono?
Dove lavorano principalmente? Quando svolgono la loro attività
lavorativa? Perché hanno bisogno di acquisire competenze digitali?
Rispondere a queste domande significa conoscere a fondo il capitale
umano e la collocazione dei lavoratori all’interno della PA. E la
conoscenza è la base di qualsiasi tipo di competenza, anche di quella
dei decisori.