Brusca : Il killer caro all’antimafia non è il pentito perfetto

Storia di Brusca. I suoi delitti non si contano ma, per vari motivi ,ai magistrati piace. E’ stato un pentito buono per tutte le stagioni. Ottenuto lo “sdoganamento” dall’antimafia di potere è diventato, per alcuni difensori del sistema quasi un santo. Brusca santo non è . La Saguto lo ha bollato come un raccomandato della Giustizia. Anzi, il boss di San Giuseppe conosce bene come funziona la complessa macchina della giustizia e dell’ antimafiaBrusca ha detto quello che faceva comodo a Lui a certi inquirenti. Molte cose sulle complicità con apparati dello Stato si è guardato bene nel dirle. Ha capito bene che, facendosi proteggere dall’antimafia ci avrebbe guadagnato la libertà e la copertura della stampa di regime antimafia. Mica scemo: La legge sui pentiti voluta da Falcone è altra cosa. Nessuno vuole eliminarla, semmai migliorarla . Brusca è un furbo schierato che è stato utile solo in parte. E poi chiamatelo collaboratore dei Pm. Il pentitismo è altro

Da: Il Foglio
Non ci sono solo gli orrori di Cosa Nostra, ma anche le acrobazie della memoria, i ricordi che si accendono all’improvviso dopo anni di silenzi, persino le bugie. I professionisti dell’antimafia erano disposti a perdonare ogni colpa a Giovanni Brusca. Anche quelle commesse da collaboratore di giustizia. Mica si è comportato come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Brusca è diverso dai padrini corleonesi marciti in galera senza rinnegare il proprio passato fino alla fine dei loro giorni. Brusca si è pentito e avrebbe meritato, così sostenevano alla Direzione nazionale antimafia, un nuovo premio – gli arresti domiciliari – per il suo “contributo eccezionale alle indagini”. E’ arrivato addirittura il via libera

La spaccatura è stata netta. Da una parte i favorevoli alla sua uscita come il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e l’ex magistrato, oggi senatore, Pietro Grasso. Dall’altra i contrari, i parenti delle vittime, . Il tema è divisivo. Non potrebbe essere altrimenti, quando si è di fronte a uno dei carnefici più spietati di Cosa Nostra. Il dolore è eterno, ma nella guerra alla mafia si è deciso, ormai decenni fa, di usare l’arma dei pentiti anche a costo di dovere concedere dei benefici a chi non li merita.

Ciò che stride nel parere favorevole espresso dalla Dna alla scarcerazione di Brusca è l’assenza di critiche al suo percorso collaborativo che resta pieno di ombre. Alcuni magistrati le hanno fatto notare, le ombre, mentre altri ci sono passati sopra. Troppo importante la sua collaborazione per sacrificarla sull’altare dei dubbi. Dubbi che però restano lì, nelle trascrizioni dei verbali e delle udienze, nelle parole pronunciate dallo stesso boia di San Giuseppe Jato. Brusca, a cui la Cassazione alla fine aveva respinto la richiesta di potere finire di scontare la pena ai domiciliari, ha poco di cui lamentarsi. Lo Stato con lui è stato magnanimo alzando al massimo l’asticella della premialità. Ha sciolto nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo, per zittire il padre che pentito lo era diventato prima di lui. Ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Ha schiacciato il telecomando dando il via all’inferno di Capaci. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che ha finito di scontare (a conti fatti gli anni di detenzione saranno venticinque) e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa.

Come avvenne in occasione del Capodanno di tre anni fa. Brusca riabbracciò la sua famiglia, mentre un’altra famiglia, quella del piccolo Di Matteo, piangeva per il più macabro degli anniversari. L’11 gennaio 1996 Giuseppe veniva strangolato dopo 779 giorni di prigionia e il suo corpo sciolto nell’acido. Avrebbe compiuto quindici anni otto giorni dopo. Brusca fece in tempo, quell’anno, a rientrare a Rebibbia per partecipare in videoconferenza a un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia dove i pubblici ministeri di Palermo lo attendevano a braccia aperte.

Secondo i giudici, per ultimi quelli della Cassazione, che gli hanno più volte negato la richiesta dei domiciliari, Brusca non ha mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Eppure è proprio la sua storia processuale che mostra evidenti crepe. Il ravvedimento morale in quanto intimo resta imperscrutabile. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Ieri come oggi. Nel processo al generale Mario Mori, nel quale l’ufficiale fu assolto per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, ad esempio Brusca fu ondivago sulla storia del papello, la lista delle richieste che i corleonesi avanzarono allo Stato per fermare le bombe e che anni dopo sarebbe diventato il cuore del processo sulla trattativa fra lo Stato e la mafia. All’inizio Brusca disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea. Era il 2011 e il legale di Mori, l’avvocato Basilio Milio, gli fece notare l’incongruenza. Pochi mesi dopo Brusca scrisse una lettera al Tribunale. Chiese di essere riconvocato perché si era ricordato di alcune cose importanti. Ad esempio il fatto di avere appreso dell’esistenza del papello a cavallo delle stragi, quindi dopo Capaci e prima di via D’Amelio. Che, guarda caso, è il canovaccio della pubblica accusa che vede nella Trattativa il motivo dell’accelerazione della strage in cui furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca.https://8d8f88d2d4830a95bcfe7a6c63540bc8.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html