Amara e Montante, le rivelazioni di Palamara: «Così il Sistema ha colpito ancora»

Procure che usano i pentiti e pentiti che usano le procure. Giustizia fai da te, ritorsioni e manie di persecuzione. C’è tutto questo nel nuovo libro di Luca Palamara, “Lobby & Logge”, libro attraversato da un lungo filo rosso che dal 1992 porta ad oggi. Da quando, ovvero, si consumarono gli attentati ai danni di Falcone e Borsellino, oggi osannati e ieri osteggiati proprio nelle stanze di quello che dovrebbe rappresentare il palazzo più alto della magistratura. Quel Csm che, a detta di Palamara, prima regista e poi vittima delle manovre del Sistema, agirebbe seguendo logiche che poco o nulla hanno a che fare con la giustizia.

Da quel Sistema l’ex capo dell’Anm sarebbe stato espulso per aver osato pensare di spostare «l’asse della politica giudiziaria da sinistra a destra». E per farlo fuori, dice, è stato usato un trojan, una microspia inserita nel suo cellulare attraverso quello che definisce uno stratagemma: un’accusa di corruzione formulata tempo prima – nel 2018 – da Giancarlo Longo, l’ex pm finito al centro del “Sistema Siracusa”, che al procuratore di Messina racconta di aver sentito dire «che io, Luca Palamara, avrei preso 40.000 euro per nominarlo procuratore di Gela».

La nomina non avvenne mai, anzi, Longo non fu mai in gara per quel posto. In quel verbale, racconta Palamara, «Longo parlerà anche di Pignatone, ma questa parte verrà omissata e a Perugia – cioè alla procura che deve indagare sui magistrati di Roma – verrà trasmessa solo la parte a me relativa, che riemergerà alla vigilia dell’elezione del nuovo procuratore di Roma». Siamo, dunque, nel 2019, quando Palamara, l’ex ministro Luca Lotti, il deputato Cosimo Ferri e altri cinque consiglieri del Csm si riuniscono all’Hotel Champagne per parlare di chi prenderà il posto di Giuseppe Pignatone a Roma.

L’accusa di corruzione viene allora riesumata, perché essersi fatto pagare viaggi e cene dall’imprenditore Fabrizio Centofanti non basta per installare un trojan sul cellulare di un indagato. La spiegazione, secondo Palamara, starebbe nella sua scelta di voler chiudere per sempre con l’era dell’ex procuratore. «È una nomina in cui io, ancora a capo del Sistema, non seguo per la prima volta i desiderata di Pignatone. Lui come successore vorrebbe il palermitano Franco Lo Voi oppure il suo braccio destro Michele Prestipino, io un papa straniero, il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il cui nome verrà bruciato durante la famosa cena dell’Hotel Champagne dell’ 8 maggio 2019».

Quella notte trascina Palamara verso il fondo, mentre il Sistema continua a lavorare. E l’ennesimo meccanismo sarebbe rappresentato da Piero Amara, legale esterno dell’Eni, che con le sue dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria ottiene due risultati: spacca la procura di Milano e il Csm, facendo venire alla luce ancora una volta il ruolo dei giornali nel gioco di potere di nomine e carriere, dalla loro nascita alla loro morte. «È certo che Amara usa le procure, che a loro volta in alcuni casi lo utilizzano, tipo alcuni pentiti di mafia che all’occorrenza si ricordano di aver incontrato questo o quel politico e in cambio ottengono qualche agevolazione, o quantomeno un’attenzione nuova».

Amara spunta fuori un po’ ovunque. Parte da Roma, dove a voler indagare su di lui è Stefano Fava, che viene però fermato. Il pm presenta un esposto al Csm contro Pignatone denunciando i rapporti del fratello con il legale, esposto che finirà nel nulla, mentre Fava, invece, finisce a Latina a fare il giudice civile, con la carriera azzoppata per sempre. È a Perugia, nel processo contro Palamara. E prima passa da Milano, dove fa i nomi dei presunti componenti di una loggia capace di gestire le nomine nei luoghi strategici delle istituzioni. Nomi che, per lungo tempo, rimangono un mistero. Ma non tutti vengono trattati allo stesso modo: le dichiarazioni con le quali Amara paventava presunti rapporti tra il presidente del collegio del processo Eni-Nigeria (finito con l’assoluzione di tutti gli imputati), Marco Tremolada, vengono inviate a Brescia, ma nessuno finisce per essere indagato, nemmeno lo stesso ex legale.

Quello di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ed ex amico di Piercamillo Davigo, finisce invece sulla bocca di tutti a Palazzo dei Marescialli, quando quei verbali passano dal pm Paolo Storari a Davigo – come forma di autotutela per la presunta inerzia dei vertici della procura – che informa diversi componenti del Consiglio. «Perché metterlo lì (il nome di Ardita, ndr), in cima alla lista? Una casualità? Può essere, ma c’è un’altra possibilità. Infangare e screditare il nome di Ardita, e Davigo una volta venuto in possesso di quei verbali coglie l’occasione di farlo sapere a tutti». Quei verbali, alla fine, vengono spediti – secondo la procura di Roma dalla segretaria di Davigo – alla stampa, che però tiene la pistola caricata a salve. Un altro pezzo del Sistema, dice Palamara. Secondo cui il caso Amara non è diverso da quello di Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia.

«Il Csm, dove io stavo all’epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati», dice Palamara. Amara e Montante hanno in comune la provenienza e i rapporti con Eni. Quest’ultimo frequenta politici, ministri, alti prelati, magistrati e giornalisti «e in breve diventa il paladino dell’antimafia». Crea dossier su tutti. E a casa sua viene trovata un pen drive con dei «file che ricostruiscono minuziosamente rapporti non proprio limpidi con dieci magistrati di Caltanissetta». «In altre parole uno sputtanamento per il gotha dell’antimafia siciliana», scrive l’ex pm nel suo libro.

Le indagini penali non portarono a nulla, ma il fascicolo finisce al Csm. E dopo mesi di silenzi il Corriere della Sera ne dà notizia. Anche questa sarebbe una mossa ad orologeria, spiega Palamara, per poter uscire dall’imbarazzo e insabbiare tutto. «Facciamo, come è ovvio che sia, le audizioni dei due procuratori, quello di Catania Carmelo Zuccaro e quello di Caltanissetta Amedeo Bertone. Tra imbarazzi e frasi di circostanza non si cava un ragno dal buco, ma anche perché nessuno in realtà vuole cavarlo. Anzi, si prende atto che secondo entrambi i procuratori la fuga di notizie pubblicata dal “Corriere della Sera” ha gravemente compromesso la possibilità di compiere ulteriori accertamenti e nuove indagini. Una scusa che tutti facciamo finta di prendere per buona. E la cosa finirà lì, nessun provvedimento verrà preso nei confronti di Scarpinato, Lari e di tutti gli altri magistrati coinvolti».

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