Maria Concetta morta di ‘Ndrangheta

È il 20 agosto 2011 quando Maria Concetta Cacciola muore durante la corsa verso l’ospedale, dopo aver bevuto una bottiglia di acido muriatico. Come se fosse un normale caso di suicidio. Ma quando hai il nome Mafia inciso sulla pelle, niente di ciò che appare è limpido e trasparente.
Piana di Gioia Tauro, Rosarno, Calabria. Cosche dei Bellocco e dei Cacciola. Lei, 31 anni, figlia moglie e madre. E tutto intorno, ‘ndrangheta.
Un’esistenza intrappolata nell’esecrabile moralità delle famiglie mafiose, il codice d’onore come mantra e la rispettabilità come veste quotidiana. Un’esistenza intrappolata nel regime delle apparenze, aggrappata al sangue come vincolo di salvezza e di condanna, come utero e carnefice.
Maria Concetta Cacciola è donna “di mafia”? Costretta a vivere sotto controllo, osservata, definita in ogni azione, incastrata nei dettami che la ‘ndrangheta stabilisce: chinare la testa, accettare i soprusi, assecondare la violenza, dimenticare la libertà. La donna di mafia non appartiene a sé stessa, appartiene alla famiglia e al clan, così come a loro appartiene la sua vita.
Maria Concetta Cacciola è moglie “di mafia”? Sposata con l’illusione dell’amore con Salvatore Figliuzzi, per finire con una pistola puntata alla testa durante un litigio. Sognare la libertà di una vita condivisa, ritrovarsi ancora più sola, ancora più in gabbia, tra minacce e violenze. La voglia di scappare, per poter salvare i 3 figli dal destino che troppo pesante pendeva sulle loro vite, già stabilito. Ma “questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita”, così le disse il padre, il boss Michele, rispondendo alla sua richiesta d’aiuto. Perché la moglie deve piegarsi alla volontà del suo uomo, perché solo così si rende rispettabile agli occhi del mondo mafioso.
Maria Concetta Cacciola è amante. Nel 2005 il marito viene arrestato e condannato a 8 anni di carcere nel processo “Bosco Selvaggio”. Lei rimane sola, dopo anni di sofferenza e reclusione, e ciononostante controllata in maniera sempre più invadente dalla famiglia. Su Facebook conosce un uomo, se ne innamora. Un uomo non di mafia, una parvenza di normalità, una scintilla di luce tra le sbarre della gabbia che ogni giorno diventava più soffocante. Un germoglio di amore, come una goccia di felicità che ha più forza di ogni vincolo imposto, che le dà il coraggio di decidere di lasciare il marito. Un germoglio di amore stroncato, distrutto, sventrato dai pugni del padre e del fratello Giuseppe, che la massacrano di botte, fracassandole una costola. Perché sopra ogni cosa, l’onore. E lei, donna infedele, lo stava infangando.
Maria Concetta Cacciola è testimone di giustizia. Lo diventa per caso, nel maggio del 2011, approfittando di una convocazione in caserma per un problema col motorino del figlio. Un appiglio per sfuggire a una vita di segregazione e tormenti, parole che diventano nomi, luoghi, fatti. Parole che condannano, che inchiodano. Perché la donna di mafia sa più di quanto dovrebbe sapere. E allora fuggire è l’unica via, il terrore che inizia a segnare i giorni della sua vita, la paura che diventa carne: i suoi figli, affidati alla madre, con una preghiera di perdono e la speranza che possano guardare il futuro a testa alta, senza mai avere paura.
E una condanna: “So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore che ha la famiglia, per questo avete perso una figlia”. Così la notte tra il 29 e 30 maggio viene prelevata dai Carabinieri e trasferita prima a Cassano sullo Ionio, poi a Bolzano e infine a Genova. I giorni passano lenti, assaporando quella libertà fino ad ora sconosciuta, finalmente padrona delle proprie azioni e dei propri pensieri, lontana dalla terra natia e dalla consapevolezza dell’aver violato il codice d’onore.
Ma Maria Concetta è donna, madre, figlia. La nostalgia penetra nelle vene come acido, le mancano i figli. Perché per lei è l’amore sopra ogni cosa. Cede, Maria Concetta, e chiama la sua famiglia, che per due volte va a prenderla. La prima, fallimentare, la seconda sarà quella buona. In macchina con i genitori Concetta sa di dirigersi verso la morte.
Maria Concetta Cacciola è figlia “di mafia”? Quando il legame più antico del mondo, quello tra madre e figlia, viene spezzato, quando la madre diventa boia e la figlia vittima. Quando la scelta diventa “o cu nui o cui iddi”, o con noi o con loro, capisci che la dicotomia tra amore e onore penderà sempre a favore di quest’ultimo. Perché fu la madre, Anna Rosalba Lazzaro, la genitrice, colei che avrebbe dovuto essere casa, rifugio, protezione, a condannarla al suo destino. Fu la madre a ricattarla giocando sulla nostalgia di Concetta per i figli. Fu la madre a logorarla, giorno dopo giorno, pregandola di tornare a casa. “Cetta, a noi puoi darci il torto, non a te, a noi.. tu hai una vita davanti, stai tranquilla con la tua famiglia…”.
L’apparenza del perdono, del ritorno a casa del figliol prodigo, una bontà quasi cristiana. In realtà, la volontà di far ritrattare tutto, di lavare l’onta che l’infame aveva gettato non solo sulla famiglia ma su tutti i clan della Piana di Gioia Tauro. E l’amore, l’amore di madre e la fiducia nella madre, vincono. Torna a Rosarno, Concetta, lucida, atrocemente lucida, nonostante tutto: “l’onore non lo perdonano e questa cosa gli è caduta più del fuoco e della fiamma”.
Maria Concetta Cacciola è vittima di mafia. Muore il 20 agosto 2011 dopo aver bevuto una bottiglia di acido muriatico. La morte riservata ai testimoni di giustizia. Soffocati e uccisi dalle proprie parole. Una morte atroce, dolorosa, una morte che lacera e taglia e devasta. Sangue che si rivolta contro il sangue.
Suicidio, così conferma il medico legale.
Il 23 agosto, dopo i funerali, i genitori depositano un esposto alla procura di Palmi che sostiene che Cetta è stata vittima di un raggiro delle forze dell’ordine che hanno fatto leva sulla sua instabilità psicologica per costringerla a raccontare falsità e menzogne contro la sua volontà. Allegano una cassetta in cui Cetta dichiara di aver inventato tutto solo per vendicarsi dei soprusi di padre e fratello.
Cosi Cetta muore due volte. Infangata da ogni lato.
Le investigazioni successive porteranno nel 2015 all’arresto del padre, della madre, del fratello Giuseppe, che verranno condannati per maltrattamenti e istigazione al suicidio, insieme a due avvocati complici nell’aver costretto Cetta a registrare la cassetta. Nel “Processo Onta”, che prende il nome proprio dall’onta che la giovane ragazza di Rosarno ha arrecato alle potenti ‘ndrine calabresi, conclusosi recentemente, si definisce quanto avvenuto un simbolico omicidio di mafia, come riportato nella sentenza della Corte d’Assise di Palmi, condivisa dalla Corte d’Assise d’Appello e confermata dalla Corte di Cassazione, pur non essendo ancora noto il nome dell’assassino.
Non una povera donna pavida e debole, traviata dalle forze dell’ordine. Non una suicida disprezzante la vita. Non una meschina bugiarda. Una coraggiosa, forte, impavida vittima di mafia, una donna che ha voluto sfidare il sistema ’ndrangheta in nome di una giustizia più alta.

 

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