La vera storia Dei Casamonica

dalla periferia estrema fino al centro storico.
Usura che ti strozza, cazzotti in faccia, tenute principesche che invadono i marciapiedi e un senso di vertigine per le borgate seppellite da colate di cemento. Un vortice criminale in cui si arraffa tutto e tutti, dalla casa popolare al ristorante della Dolce Vita che fu, dove si trascorre una sera attovagliati con il potere in giacca e cravatta e un’altra con i narcos per acquistare tonnellate di droga. E intanto la metropoli china la testa davanti alla potenza del denaro. Soldi in contanti, fuoriserie che sgommano, Rolex da esibire.  I Casamonica sono lì, presenti ma da dimenticare. Come le buche, come i cassonetti debordanti di rifiuti e i topi che si sono fatti padroni. Metafora di una città in dissolvenza. Un vetrino per mettere a fuoco il virus che genera il contagio. Capace di infettare il cuore della capitale.
Il mondo dei Casamonica si muove ancora più in basso del Mondo di mezzo, più giù del Mondo della strada – citato da Massimo Carminati nell’inchiesta Mafia Capitale. Prospera sotto il livello a cui le istituzioni guardano, domina i meandri più oscuri. Un mondo feroce cresciuto senza controllo e una città dove accordi e affari prosperano nell’ombra, avvolti nel silenzio compiaciuto dei più. Perché a Roma la parola mafia per troppo tempo non si è potuta pronunciare, come se ne fosse immune per DNA.
I Casamonica, una famiglia che non è considerata mafiosa perché rom, ma perché romana. Figli di un dio minore, si sono imposti e sono diventati un modello in una città dove il degrado e la corruzione sono sistema. Una dinastia criminale cresciuta insieme alla capitale, che si è ramificata con l’espandersi dei quartieri e con lo sgretolarsi della società civile. «I romani non ci vanno a fare la guerra ai Casamonica» ha sentenziato un uomo vicino alla ’ndrangheta «perché sanno che vanno in perdita, che quelli comunque o sparano o vengono in venti, in cinquanta.» Con una sequenza interminabile di minacce e lusinghe, di pestaggi e di affari hanno divorato il territorio.
Il loro è un nome che si sussurra e si rispetta. Perché loro sono tutti e nessuno: «Dei Casamonica devi avé paura perché noi siamo tanti e se pure vado in carcere te vengono a cercà in 100 e non campi più». Perché nelle borgate dove le istituzioni si sono eclissate spesso sono l’unica autorità. Stringono il cappio in una lenta asfissia e pur di sfuggire a quella morsa spietata c’è chi arriva a dichiararsi schiavo a vita. A comprarsi per centinaia d’euro al mese il diritto a sopravvivere.
E poi entrano nei negozi e si prendono quel che vogliono, catturano la vittima dell’usura senza neppure prestare denaro mettendo sul tavolo la fama intimidatrice del loro cognome.
Una violenza plateale, come nel pestaggio del “Roxy Bar”, che non è solo follia: in quell’aggressione c’era marketing criminale, la necessità di spandere quel messaggio brutale: «Qui comandiamo noi».
Una mafia forte, costruita con il cemento del vincolo familiare, in grado di trattare con le altre organizzazioni criminali che le riconoscono prestigio, controllo del territorio, capacità di diversificare gli affari e di instaurare reti di relazioni importanti. Ossia capaci di dominare. Giuseppe detto Bìtalo, che nella sua lingua significa “una cosa grande”, offre una certezza: «A Roma ci stanno i Casamonica e basta! Andò stamo noi nessuno viene a rompe er cazzo». La finta sicurezza garantita dai protettori di un ordine mafioso, costruita sulla violenza e la prepotenza, sulla pelle di una popolazione abbandonata a se stessa.
Eppure come sosteneva Giovanni Falcone «la mafia non è affatto invincibile: è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine». Per questo Roma si sveglia dal torpore e sebbene con lentezza reagisce. Adesso il futuro è nelle mani dei cittadini, della loro volontà di liberarsi da questo contagio che si è esteso a ogni quartiere. Ma la sfida spetta soprattutto alle amministrazioni, che hanno la responsabilità di liberare dal degrado e restituire la fiducia nella legalità. La Procura reprime, come un chirurgo che recide la parte infetta, ma senza una riconquista del territorio, senza un impegno veramente collettivo, il male tornerà a svilupparsi. Perché Roma resta il mercato più grande per gli affari delle mafie, vecchie e nuove, piccole o grandi, autoctone o provenienti da lontano.

Fonte mafia blog repubblica