Rosso mafia sulla via Emilia

Reggio Emilia è la terra dei fratelli Cervi, il cuore della Resistenza, la città della buona scuola e dell’integrazione ben governata. Un comune virtuoso, insomma, un modello politico, economico ed educativo divenuto un caso di studio per sociologi, storici e politologi. All’indomani delle prime stragi, a partire dagli anni Ottanta, furono le sue scuole, incoraggiate e sostenute dalle istituzioni locali, a mobilitarsi per far conoscere il fenomeno mafioso.
E un decennio più tardi furono invece le sue cooperative a portare per la prima volta sul mercato i prodotti nati sui terreni confiscati alle organizzazioni mafiose. Reggio Emilia stava dimostrando ancora una volta di essere la città solidale per eccellenza, aperta e attenta alla salvaguardia dei diritti e delle libertà collettive. Una città che amava rappresentare i suoi indiscussi punti di forza attraverso la metafora degli anticorpi. Sino a quando, nello stupore generale, l’immagine di una Emilia sicura e incontaminata iniziò a vacillare. La mafia era giunta anche a Reggio, partendo dalla Calabria silenziosamente vi aveva messo radici già dai primi anni Ottanta. E al cospetto dei boss i suoi anticorpi erano letteralmente crollati, insieme alle convinzioni dei suoi abitanti e alle rappresentazioni di studiosi che da decenni stavano teorizzando i virtuosismi del cosiddetto “modello emiliano”.
Il caso di Reggio Emilia si inserisce nel sistema delle riflessioni e degli studi sul fenomeno mafioso sotto un profilo inedito. Investe una città che possiamo definire esemplare, se la si colloca all’interno della più ampia storia sociale, politica, economica e culturale del Paese.
Rosso mafia è pertanto un viaggio lungo i paradossi e le contraddizioni che negli ultimi decenni hanno caratterizzato la provincia del Tricolore. Un viaggio che ci ha portato fisicamente tra le strade di Cutro, in Calabria, la roccaforte del clan al centro della nostra storia emiliana. Un paese del versante ionico di appena diecimila abitanti, la “terra dei banditi”, come la definì alla fine degli anni Cinquanta Pier Paolo Pasolini, dove i banditi erano vittime invisibili, persone escluse dal benessere e dai diritti che uno Stato democratico avrebbe dovuto garantire.
Cutro rappresenta oggi la locale di ’ndrangheta suprema della provincia crotonese, da decenni regno di Nicolino Grande Aracri, boss carismatico e sanguinario che nel giro di pochi anni, e senza alcun lignaggio mafioso alle spalle, ha saputo scalare i vertici della cosca. Si è fatto da sé Don Nicola, è questo un aspetto inedito della vicenda, così come da zero era partito negli anni Settanta il fondatore della ’ndrangheta cutrese, Antonio Dragone.
Quella del clan Grande Aracri è pertanto la storia della recente intraprendenza criminale dei suoi fondatori, e non di una dinastia secolare. Essa non si è radicata, come in altre zone della Calabria, in una genealogia familiare complessa, ma è stata piuttosto il frutto della recente libera iniziativa di pochi uomini. La sua indiscussa “giovinezza” non ha impedito ai suoi protagonisti di conquistare nel giro di quasi quarant’anni enormi spazi di potere all’interno e ben al di là della provincia reggiana. Da qui è proseguito il nostro viaggio lungo le terre bagnate dal Po, dove la ’ndrangheta ha trovato casa senza risparmiare nemmeno Brescello, il paese divenuto celebre grazie ai film di Peppone e Don Camillo nonché il primo comune della regione Emilia-Romagna a essere sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2016. La provincia reggiana non ha tuttavia costituito negli ultimi decenni un perimetro isolato, avulso da dinamiche più ampie e generali. Si è piuttosto collocata dentro un sistema di movimenti, di relazioni e di interessi dalla chiara matrice mafiosa che ha investito territori più estesi. Di fatto il teatro in cui si è mossa la nostra analisi ha una caratteristica speciale.
Assume il Po come elemento unificante più che come linea di divisione. E si distende attraverso e sopra il fiume, coinvolgendo l’antico quadrilatero latino che dalla diagonale Reggio Emilia-Piacenza, passando da Parma, si completa congiungendosi a ovest e a est con l’asse Cremona-Mantova. È all’interno di questa vasta area che la ’ndrangheta ha saputo cogliere le opportunità offerte da settori economici ad alta intensità di manodopera e a basso contenuto tecnologico. Edilizia e mondo degli autotrasporti sono divenuti gli ambiti strategici dell’economia mafiosa locale, a cui si sono aggiunti alcuni investimenti nei settori della ristorazione e del divertimento (discoteche, night…).
Alle sue origini vi è stata una fondamentale fase di accumulazione primitiva di capitali, passata per il remunerativo traffico di stupefacenti e una massiccia attività estorsiva. Quello tra il clan e il mondo imprenditoriale ha talora rappresentato un matrimonio di interesse in Emilia. Un “grande connubio” di cui si è cercato di delineare origini e processi evolutivi. L’”intorno” a cui abbiamo fatto riferimento si è popolato di competenze specialistiche messe a disposizione del clan da soggetti ambigui e intraprendenti, senza i quali il processo di integrazione economica e sociale della ’ndrangheta in Emilia non sarebbe mai stato possibile. Al suo interno hanno ruotato ambienti eterogenei, fonti di risorse preziose per la vita dell’organizzazione mafiosa e la salvaguardia dei suoi interessi primari: dal profitto alla legittimazione, dal consenso sociale all’impunità. Sono dunque molte le specializzazioni funzionali che sono entrate in gioco, trovando sviluppo in ambiti diversi: economico, anzitutto; ma anche politico, mediatico e repressivo-giudiziario. A dimostrare, ancora una volta che la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia.

Fonte mafie blog autore