L’uccisione di Abū Bakr al-Baghdādī, tra dubbi, meriti e prospettive

Fin dai primi momenti in cui il presidente americano Donald Trump annunciava al mondo l’avvenuta eliminazione di Abū Bakr al-Baghdādī, l’autonominato Califfo dello Stato Islamico, molti analisti cominciavano a farsi le prime domande.

Per quale motivo al-Baghdādī avrebbe scelto di rifugiarsi nel villaggio di Barisha nella provincia siriana di Idlib, dove è certa la presenza di ribelli acerrimi nemici dell’ISIS?

Fino a prima della sua uccisione, le intelligence di vari paesi ritenevano che il Califfo si nascondesse in Iraq o nella regione di confine con la Siria. Appariva dunque assai improbabile che scegliesse Idlib, dove la presenza di nemici di Assad,  ma anche dello Stato Islamico, avrebbe certamente portato i russi ad attaccare l’ultima roccaforte dei ribelli al regime di Bashar al-Assad. Senza considerare la vicinanza ai luoghi di una base aerea russa e di ben otto punti di osservazione da parte della Turchia.

L’unica spiegazione possibile era quella che il leader dell’ISIS stesse tentando di raggiungere la Turchia, dove evidentemente godeva di protezioni.

L’edificio dove si nascondeva

Secondo le notizie riportate dalla stampa, al-Baghdādī avrebbe raggiunto il villaggio di Barisha nelle 48 ore precedenti al raid nel corso del quale sarebbe stato ucciso. Eppure, l’autorizzazione all’operazione il presidente Trump l’avrebbe firmata una settimana prima.

Trump sapeva dunque dove si trovava al-Baghdādī, dove era diretto e quando vi sarebbe giunto?

Secondo fonti d’intelligence, il califfo sarebbe stato tradito da due persone a lui molto vicine. Uno dei suoi più stretti collaboratori e il marito della cognata, che, cooptati dai curdi siriani, avrebbero fornito alla CIA le indicazioni utili a individuare il covo di al-Baghdādī.

Anche l’intelligence irachena mira ad intestarsi il risultato dell’operazione, facendolo risalire alle notizie ottenute due mesi fa a seguito dell’arresto del terrorista Mohammed Ali Sajid al-Zobaie, che avrebbe condotto gli iracheni  alla scoperta di un tunnel nel deserto vicino alla città di Al-Qaim, a ovest di Anbar, dove grazie alla scoperta di oggetti personali, scritti e mappe disegnate a mano, l’intelligence irachena sarebbe riuscita a risalire alla rete di trafficanti che era responsabile del trasporto del terrorista e che ne aveva organizzato il trasferimento a Idlib intorno alla fine del mese di agosto, affidando poi agli americani il compito di portare a termine l’operazione.

minibusMa se queste sono le informazioni più recenti in merito a indicazioni date da parte di stretti collaboratori di al-Baghdādī, le note informative degli apparati iracheni ci rimandano al febbraio 2018, quando dopo l’arresto e l’estradizione dalla Turchia, Ismail al-Ithawi, “ministro” dell’ISIS responsabile degli editti religiosi e dei trasferimenti di fondi sui conti bancari del gruppo in diversi paesi, iniziò a collaborare con le agenzie di sicurezza in Iraq, dando preziose informazioni sui luoghi dove il califfo si nascondeva  e di come tenesse colloqui strategici con i suoi comandanti all’interno di minibus carichi di verdure per evitare di essere scoperti. Al-Ithawi avrebbe inoltre fornito i dettagli di un incontro tra il califfo e cinque suoi fedelissimi – compreso il collaborante – che sarebbe dovuto avvenire in Siria. Trump ha dunque mentito quando ha affermato di essere venuto a conoscenza della presenza di al-Baghdādī in Siria solo  agli inizi di ottobre, quando ha deciso di far ritirare l’esercito americano da quell’area? Gli americani erano stati tenuti all’oscuro di tutto e hanno avuto un ruolo del tutto marginale nell’attività di intelligence, prendendo parte solo al raid conclusivo?

Secondo fonti irachene, la CIA era stata messa al corrente già all’inizio di quest’anno quando cinque terroristi arrestati avevano fornito indicazioni sui luoghi in cui si stavano incontrando con al-Baghdādī in Siria e venne deciso di coordinarsi con la CIA per strutturare una rete di informatori nella regione.

 Quello che è rimasto del covo del Califfo dopo il raid americano

A metà del 2019, le agenzie di sicurezza irachene e americane avrebbero già identificato Idlib come il luogo in cui il califfo si stava trasferendo con la sua famiglia e tre dei suoi fedelissimi, dopo vari spostamenti da un villaggio all’altro.

La CIA, negli ultimi cinque mesi, avrebbe utilizzato un satellite e veicoli aerei senza equipaggio (droni) per monitorare un sito che era stato già individuato, fino a quando, due giorni prima del raid, al-Baghdādī con la sua famiglia sarebbe uscito per la prima volta allo scoperto, viaggiando in minibus verso un villaggio vicino.

Perchè dunque Donald Trump, a un passo dal successo nella cattura del califfo stava abbandonando la caccia facendo ritirare l’esercito dal nordest siriano, lasciando spazio a Erdogan e Putin per il controllo dell’area, tradendo inoltre i curdi che erano stati i migliori alleati americani nella guerra contro l’ISIS?

Secondo i malpensanti, l’uccisione del califfo sarebbe il regalo fatto da Erdogan agli americani, in cambio del ritiro delle truppe che ha permesso alla Turchia di invadere il territorio controllato dai curdi, massacrando centinaia di persone che avevano combattuto fianco a fianco con gli Stati Uniti.

Un bel regalo in un momento particolarmente difficile per il presidente americano, il quale comunque ha rilasciato ridicole dichiarazioni affermando che il leader jihadista è morto urlando e piangendo, venendo smentito anche da fonti del Pentagono secondo le quali il video dell’operazione era senza sonoro.

Chiunque abbia visto il video girato la stessa notte, nel quale si vedono fasi del combattimento durato a lungo, il minibus di al-Baghdādī distrutto e i cadaveri dei miliziani morti con il califfo durante il conflitto a fuoco (come dall’immagine tratta dal video girato la note, pubblicata in basso nel nostro articolo che mostra una ferita da arma da fuoco su uno dei cadaveri) si sarà reso conto delle castronerie dette da Trump durante la conferenza stampa.

L’ISIS è definitivamente sconfitto?

Che l’uccisione del leader islamista sia un duro colpo per l’ISIS, è fuor di dubbio, ma questo non significa che abbiamo chiuso i conti con il terrorismo islamico.

Le cellule presenti in molti paesi, dal Nord Africa, in particolare in Libia, all’Asia, non hanno bisogno di una leadership, agiranno secondo il loro livello di radicalizzazione, così come accadde con al-Qaeda dopo l’uccisione di Bin Laden.

L’eliminazione del califfo, porterà comunque a una sua successione, al possibile ritorno ad  al-Qaeda di miliziani dell’ISIS e alla reazione dei lupi solitari.

Inoltre, l’ISIS ha ancora una sua struttura in fase di ampliamento, a partire dall’Afghanistan, da dove potrà organizzare nuove cellule che colpiranno in più paesi.

La scelta dipenderà molto da chi oggi detiene il controllo dei 400milioni di dollari e le 40 tonnellate d’oro che rappresentano il lascito di Abū Bakr al-Baghdādī.

L’ipotesi più probabile è quella che il candidato alla successione del califfo mantenga in piedi la struttura.

Chi sono i candidati?

Abdullah Qardash, ex ufficiale dell’esercito iracheno, passato poi da al-Qaeda all’ISIS, è il nome più ricorrente. Era stato lo stesso califfo a nominarlo quale suo successore.

Ayad al-Obeidi, in passato dato per morto, potrebbe anche lui essere il nuovo leader.

C’è poi il leader somalo Abdul-Qadir Momen, già ai vertici  dell’ISIS in Africa.

Non manca poi un tunisino (del quale non conosciamo il nome) e Abdelilah Hammich, marocchino di cittadinanza francese che ha già preso il posto di Salah Abdel Salam, autore degli attentati del  Bataklan a Parigi, alla guida delle formazioni dell’ISIS ramificate anche in Occidente.

La successione da parte di Qardash appare la più probabile, non tanto per la nomina da parte di al-Baghdādī, visto che la stessa  dovrebbe passare attraverso il “consiglio della Shura” e non per eredità, quanto per il fatto che Qardash ha il database dell’organizzazione con i nomi dei suoi membri e controlla le risorse finanziarie dell’organizzazione.

In Libia, invece, l’ipotesi più probabile è quella di cellule autonome che stringeranno le alleanze secondo le condizioni del momento, la stessa cosa che potrebbe avvenire in Tunisia e Marocco, qualora il nuovo leader non appartenga a uno di questi due paesi.

L’ISIS comunque non è sconfitto e l’aver cantato vittoria troppo presto non deve indurci nell’errore di sottovalutare il rischio di attacchi che erano già pianificati o quello di dormienti lupi solitari pronti a colpire.

A questi, andranno ad aggiungersi i jihadisti fuggiti dalle carceri curde, dove erano detenuti prima che Trump ordinasse il ritiro dell’esercito americano lasciando campo libero alla Turchia, facilitando così la fuga degli ex miliziani dello Stato Islamico.

Gian J. Morici