Le donne ribelli del clan Pesce

Una donna di mafia sembra rappresentare due facce della stessa medaglia: da una parte assumere quel ruolo domestico ed educativo:  è lei ad allevare i figli maschi dell’uomo d’onore, destinati ad affiliarsi, è soprattutto lei ad educarli alla religione dell’onore e della vendetta, che costituisce il DNA della cultura ‘ndranghetista ma allo stesso tempo sembra  svolgere ruoli attivi, spesso anche molto rilevanti e compromettenti dal punto di vista giudiziario, ma caratterizzati dal fatto di rimanere in una funzione secondaria, per così dire “servente”, rispetto all’attività svolta dai loro uomini.
Sono proprio quegli uomini che decidono quale debba essere il “codice di comportamento” ai quali tutti coloro che fanno parte delle famiglie affiliate devono rispettare e riconoscere e decretano, poi, la punizione da infliggere in caso di trasgressione.
Proprio in nome della “ominità” e dell’onore di quelle regole che nell’aprile del 1981 venne uccisa Annunziata Pesce. La sua colpa fu quella di aver coltivato una relazione extraconiugale con un carabiniere, elusione gravissima di quello schema rigidamente imposto dalla ’Ndrangheta poiché disonorava suo marito facendogli perdere prestigio nell’organizzazione.
Annunziata in realtà venne fatta sparire nel nulla.
Solamente con le dichiarazioni di un’altra donna di ‘Ndrangheta, Giuseppina Pesce, appartenente alla medesima cosca, che con dovizia di particolari, in una delle sue confessioni, indicò con precisione i nomi dei responsabili dell’omicidio di Annunziata. Dettaglio di non poca rilevanza, indice di come la “tradizione” mafiosa agisca in casi del genere, fu quello secondo cui, nella riunione tenutasi per decidere il destino dell’adultera prima e la materiale esecuzione poi, fossero presenti il fratello e lo zio della stessa donna, Antonio e Antonino Pesce: espressione di come la famiglia dimostri al clan la volontà di pulire la rispettabilità macchiata. In realtà, nonostante le accuse dirette fatte da Giuseppina, le stesse rimasero senza un vero e proprio riscontro giudiziario.
Giuseppina, marginalmente anche Annunziata, rappresentano un sui generis del modello di donna di ’Ndrangheta sottomessa e devota all’attività criminale degli uomini. In entrambe le figure emerge la volontà di spostarsi dall’ombra e di ricercare la propria libertà affiancata dal desiderio di riscatto rispetto ad un destino già scritto. Giuseppina, infatti, è una delle poche collaboratrici di giustizia che ha rappresentato la chiave di volta nell’inchiesta “All Inside”, rivelando non solo i meccanismi dell’organizzazione ma anche i luoghi fisici entro cui si svolgevano le attività criminali.
Con la confessione della donna vennero arrestati più di quaranta uomini e insieme ad essi anche la sorella e la madre, circostanza che portò poi Giuseppina, forse ricattata, a indietreggiare rispetto alle dichiarazioni fatte alla magistratura.
La sua collaborazione inizia dopo il suo arresto avvenuto il 28 novembre del 2010 poiché accusata di essere la “postina del clan e di portare ordini del padre, Salvatore Pesce, agli altri associati in carcere”.
Ciò che spinge la donna a collaborare è l’amore per suoi tre figli e il desiderio di regalare loro una prospettiva di vita diversa rispetto a quella da lei vissuta; ma proprio per l’amore dei suoi figli e per i maltrattamenti dagli stessi subiti per opera  dei parenti che ne avevano la custodia, l’11 aprile del 2011 decide di interrompere la collaborazione, scrivendo in una lettera di aver precedentemente dichiarato il falso, poiché costretta dalla magistratura. Lettera che poi sarà pubblicata su un quotidiano locale, strategia mossa dai parenti della donna per far sapere a tutti del suo dietrofront e di evitarle la fine riservata a tutti coloro che decidono di voltare le spalle al clan.
Poi nell’agosto dello stesso anno il colpo di scena: Giuseppina ritorna a pentirsi rivelando i motivi che l’avevano portata ad interrompere la collaborazione, scatenando un terremoto giudiziario portando all’arresto di centinaia di persone, al sequestro di beni per un valore di più di 224 milioni di euro e ai rapporti che i clan di Rosarno avevano con la magistratura.
“Ho capito l’importanza della motivazione per cui ho collaborato: il futuro dei bambini e l’amore per un uomo che mi ama per quello che sono e non per il cognome che porto. Oggi anche se come collaboratrice posso aver perso di credibilità, come donna tutte queste esperienze mi hanno rafforzata e cosa ancor più importante mi hanno fatto ritrovare la fiducia in me stessa, i miei bambini, il mio compagno (che devo ammettere c’è sempre stato) e soprattutto mia figlia di 16 anni che in una lettera del 27 luglio mi ha scritto: Mamma io voglio stare con te, io non voglio vivere con gli altri, tu sei la mia mamma e senza di te non sono niente, qualsiasi scelta farai io ti seguirò”. Oggi Giuseppina vive con i suoi figli in una località protetta, il suo coraggio le ha regalato una seconda possibilità colorata di dignità e libertà.
In un sistema in cui le donne appaiono come pedine manovrate dal potere degli uomini, in cui subiscono le loro decisioni, Giusy, così si faceva chiamare, ha spezzato il sistema blindato dell’omertà con una decisione irriverente, audace e rivoluzionaria. La decisione di collaborare con lo Stato, da sempre visto come nemico assoluto, il coraggio di voler cambiare con la consapevolezza che per poterlo fare bisogna prima abbattere il muro del silenzio e della sottomissione.
Giuseppina viene riconosciuta come un’eroina non soltanto per aver voltato e spalle ala sua famiglia di sangue, ma per essere una donna testimone ancora in vita.

 

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