La storia di Hyso, ultimo di sei figli

Il 5 settembre 1999 Hyso Telharaj e suo cugino Simon venivano colpiti da nove colpi di arma da fuoco, Hyso moriva tre giorni dopo per le ferite riportate agli organi vitali e Simon veniva gambizzato.
Sempre venti anni fa, io nascevo e mio padre, 32enne, riusciva ad assaggiare i primi risultati dei tanti sacrifici fatti per realizzare il suo sogno, ce l’aveva fatta, e la sua prima figlia nasceva su suolo italiano.
Papà lasciò la sua Albania un paio di anni prima di Hyso, quando era un ragazzino, aveva un unico bagaglio stracolmo di speranze, e, a quanto pare, tutti quelli che partivano dalle coste albanesi portavano con sé lo stesso bagaglio e grandi dosi di coraggio.
Ne avevano a bizzeffe papà, i suoi amici e anche Hyso. Lo facevano per aiutare la loro famiglia, e per costruirne una loro, imbarcandosi per le coste italiane che per tanti giovani albanesi erano “l’America”.
Papà è stato coraggioso e deciso, anche perché non aveva molta scelta se quella che cercava era una vita perlomeno serena, e quelle onde che sembravano voler inghiottire il barcone alla fine non lo hanno fatto, dopo mille sacrifici è riuscito a portare anche mamma in Italia, e insieme hanno dato una svolta alla loro vita per concederne a me una migliore, con un futuro promettente. Però papà, tu sei stato anche fortunato.
Hyso, ultimo di sei figli, sentiva di avere forti responsabilità, il padre era costretto a letto a causa di un incidente ed era la madre che provvedeva alla famiglia. Era un ragazzino sveglio, bravo a scuola, che però abbandonò per partire in Grecia e lavorare. Lavorò nell’edilizia e dopo anni, ritornò in Albania con il sogno di diventare geometra e riprendere gli studi. Spinto dalle sue ambizioni, e dal supporto della famiglia, decise di seguire l’esempio dei suoi connazionali; la loro terra era devastata da guerre civili, le stesse che spinsero mio padre ad andarsene, e che fecero lo stesso con Hyso. La meta era sempre la stessa: l’Italia.
Hyso, leggo la tua storia e lo capisco che anche tu sei stato tenace, anche più di mio padre o di chi come voi ha trovato il coraggio e la forza necessari ad andarsene.
Qualcuno forse direbbe che lo sei stato troppo, ma come leggevo in un libro “Vale più uno che si alza e parla che tutta la vostra sapiente rete di illegali che non aprono bocca ma si mormorano le notizie l’uno nell’orecchio dell’altro”.
Hyso non avrà parlato molto, avrà scosso la testa e detto un semplice no, ma si è ribellato al sistema di controllo del caporalato.
L’Italia si rivelò quasi una delusione, faceva il bracciante agricolo in Puglia, con suo cugino, dove lavorava alla raccolta dei pomodori tra Cerignola e Borgo Incoronata. Lavorava senza sosta fino al tramonto per pochi soldi che servivano per provvedere al suo sostentamento e a quello della sua famiglia. Lui però si rifiuta di consegnare parte del suo guadagno al caporale, condizione necessaria per continuare a lavorare, si ribella e non china la testa come gli altri. Lo avvertirono dicendogli che quel suo gesto di ribellione sarebbe stato punito, ed infatti lo raggiunsero nel casolare in cui viveva, dove venne ucciso.
Hyso è morto per il suo “no”.
Era uno dei tanti inermi braccianti che ieri lavoravano quelle terre fertili e sotto il sole cocente della Puglia si piegavano in due per qualche miseria. Ieri come oggi, d’altronde.
Aveva ventidue anni, e il suo no riecheggia dopo venti anni non solo tra le terre della Capitanata, ma in tutta Italia, per chi ancora è costretto ad accettare e subire le subdole dinamiche di questo lavoro.
La sua storia ci riguarda ed è per il suo non aver piegato la testa che l’impegno alla memoria deve essere costante nel tempo. Memoria che va coltivata e stimolata e che, osservando la fotografia sorridente di Hyso, sembra la cosa più naturale da fare.
Oggi un buon vino porta il suo nome, vino che ha anche permesso alla famiglia Telharaj di conoscere, dopo tempo, la vicenda e di elaborare il lutto prematuro. Il vino nasce sempre in quella terra bellissima, ma difficile, che è la Puglia, realizzato con uva che viene coltivata su un terreno confiscato alla mafia del Salento. Il vino è rosso, come il colore del sangue versato da Hyso, ma anche come la bandiera della Terra delle Aquile, la sua terra, che ogni anno ricorda il suo “buzëqeshjen e ëmbël” (dolce sorriso).
Hyso è stato tenace, coraggioso e ribelle, il suo senso di giustizia e la sua storia emozionano e tengono vivo l’ardore che brucia in tutti coloro che riconoscono, lì dove c’è, e contrastano l’arroganza mafiosa.

 

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