Matteo e il Far West foggiano

Matteo Di Candia, 62 anni, pensionato, viveva solo con l’anziana madre a Foggia. È una vittima innocente della criminalità organizzata. Vent’anni dopo il suo omicidio, il 21 settembre 2019, la locale sede dell’AUSER gli è stata intitolata, con l’apposizione della targa che recita le seguenti parole: “Non esiste un posto sbagliato o un momento sbagliato per le persone vittime delle mafie: al posto sbagliato ci sono sempre i mafiosi”.
Il racconto, ispirato ai tragici fatti accaduti il 21 settembre 1999, è scritto immaginando la sofferenza dell’anziana madre. Nella seconda parte, invece, la rielaborazione di un articolo di giornale, basato sull’originale “Far west a Foggia, ucciso un passante”, pubblicato il 22 settembre 1999 su La Repubblica.
È ormai arrivata la sera. Tutto procede tranquillamente e con una certa monotonia. In casa gli oggetti sono al proprio posto. C’è solo silenzio. Mi accorgo che il cattivo tempo mi ha procurato una gran malinconia. Cerco di rilassarmi, di distrarmi, di pensare ad altro e infatti decido di leggere qualche pagina del mio libro preferito, accompagnato da una calda tazza di tè. Nonostante tutto ancora un senso di angoscia e di solitudine mi opprimono. Non riesco a darmi pace. Probabilmente è solo una fissazione – mi ripeto continuamente – come se volessi convincermi, ma non riesco neanche più a concentrarmi sul libro, che in questi momenti è l’unico riparo. Ho in mente mio figlio, Matteo. Oggi è un giorno speciale: è il suo onomastico e lo festeggia con i suoi amici.
Provo rabbia, talvolta, nei suoi confronti… lui, quello sciocchino  ha deciso di non sposarsi per non lasciarmi sola. Lentamente mi lascio andare ad un sonno profondo.
È piuttosto disturbato, sensazioni spiacevoli mi accompagnano.
Mi sveglio di soprassalto quando sento bussare alla porta. Mi tranquillizzo, pensando alla vista di mio figlio Matteo mentre varca la porta di casa. Ma poi mi chiedo perché non abbia usato le chiavi per entrare. E così mi viene un nodo in gola quando vedo un agente di Polizia sull’uscio. Mi dice di sedermi e di ascoltarlo, ha una faccia confusa, azzarderei frustrata. In pochi secondi inizio a pensare al peggio e, soprattutto, a pensare che quel malessere non fosse poi cosi frutto della mia immaginazione. Cerco di seguire attentamente le parole dell’agente. “Stia tranquilla – mi dice –  adesso le racconto tutto. Matteo Di Candia è suo figlio, giusto?”. Rispondo di sì, con voce flebile. “Bene… Suo figlio era al bar nella zona dello stadio… c’è stata una sparatoria e qualcuno ha colpito involontariamente anche Matteo…”. Sono confusa ed inizio a piangere mentre l’agente pronuncia parole che una madre non vorrebbe mai ascoltare. “Suo figlio non ce l’ha fatta, signora. Mi spiace”.
Sento un improvviso vuoto allo stomaco, potrei svenire da un momento all’altro. L’agente continua a fissarmi come se cercasse da me una reazione che inizialmente non ho. Non riesco ad esprimere  più emozioni che mi travolgono allo stesso tempo. Ho solo lacrime. Poi sopraggiungono rabbia, delusione e profondo dolore. Rabbia perché già so che nei confronti di questi criminali non si otterrà mai giustizia, sono quasi delusa da me stessa, avrei voluto difenderlo, proteggerlo da quella terribile morte.
La mafia a Foggia colpisce ancora. Due killer sparano all’impazzata per uccidere un sorvegliato speciale, al contrario però colpiscono due innocenti, tra cui Matteo Di Candia. Era un uomo di 62 anni, pensionato non sposato, viveva con l’anziana madre. Fino a quando, decide di festeggiare il giorno del suo onomastico con i suoi amici. Scelta normale, giusta, ma nel bar sbagliato. D’un tratto arriva una moto di grossa cilindrata, scendono i due assassini, con il casco per non farsi riconoscere e con due grosse armi, si presume due kalashnikov. Divampa il terrore nel bar, inizia la sparatoria, la prima raffica colpisce il tavolino più vicino, dov’era seduto Matteo Di Candia in compagnia di una fresca birra, è stramazzato in un lago di sangue e chiedeva aiuto senza accorgersi di ciò che accadeva, mentre i suoi amici terrorizzati cercavano riparo dietro i tavolini, le sedie, il bancone. L’obiettivo degli assassini, in realtà, era uccidere Salvatore Prencipe, un uomo di 35 anni. Era un sorvegliato speciale, che accorgendosi di essere la loro preda, scappa in fretta dal locale. I killer lo hanno inseguito fuori dal locale, lo hanno sparato e il proiettile lo ha raggiunto al piede, ma non l’ha ucciso. “Il rischio di fare una carneficina era evidente, il locale molto affollato, hanno sparato come bestie…” riporta un investigatore tracciando le linee bianche sul pavimento intriso di sangue, sangue innocente per giunta. In effetti è questo l’aggettivo adatto per descrivere tale persona, una Bestia, che pur di raggiungere il suo obiettivo, il suo scopo crudele e sbagliato, è disposto a commettere tale ingiustizia. “Matteo Di Candia era un buon uomo, non faceva male a nessuno” afferma una donna, allontanandosi a passo svelto. E’ venuto a mancare infatti, una persona innocente, che era al bar solo per festeggiare il suo ultimo onomastico in compagnia di amici.

Marianna Castellana e Melania Eramo (Studentesse del Liceo Tito Livio di Martina Franca – Progetto Cosa Vostra)

 

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