Tita e le ragioni del cuore

È difficile comprendere perché Santa Buccafusca, nata a Nicotera (VV) il 7 febbraio 1974, figlia di pescatori “per bene”, a 15 anni si innamorò di Pantaleone Mancuso, membro dell’omonima cosca, una delle più influenti del territorio vibonese soprattutto per il traffico internazionale di cocaina.
Soprannominato “Luni Scarpuni”, Pantaleone Mancuso è ritenuto uno tra i boss della ‘ndrangheta più potenti e sanguinari, oggi recluso al 41bis.
È difficile comprendere perché continuò ad amarlo durante la sua ascesa ai vertici del potere mafioso, nonostante l’arresto del padre per il coinvolgimento in affari illeciti (alla cui origine ci fu proprio Luni), nonostante la morte prima della madre e poi del fratello qualche anno dopo.
Difficile comprendere perché non cambiò vita, quando Luni venne arrestato. Difficile comprendere perché accettò la solitudine e l’isolamento che la invasero quando rimase sola, fino a farla cadere nel 2008 in depressione, tanto che le furono necessari due ricoveri presso l’ospedale di Polistena.
Difficile comprendere perché sposò Luni una volta uscito dal carcere, e contribuì al solidificarsi del suo predominio nello spaccio di cocaina. Divenne infatti prestanome delle ditte gestite dal marito, tra cui “Buccafusca Santa” e “Helios Sas”, di cui risultò la maggiore azionista, adempiendo in maniera lodevole ai doveri di moglie mafiosa, sottoponendosi senza batter ciglio alle ferree regole del sistema.
Non si vede bene che col cuore, ci insegna la volpe del Piccolo Principe. Chissà cosa vide Tita, per amarlo a tal punto. Per sacrificare la sua integrità morale, per vedere la propria vita rovesciarsi, capovolgersi, in nome di dettami più forti di qualsiasi legame, di qualsiasi promessa, di qualsiasi battito di cuore.
Tita vide l’amore. Ma l’amore che rimane solo amore nulla può contro l’amore che diventa spirito, carne, vita. Fu nel 2010 che Tita divenne madre. E solo allora aprì gli occhi. Non si vede bene che col cuore.
Come una cellula impazzita che fuoriesce dal percorso genetico prestabilito, il mondo che all’improvviso sparisce, perde i contorni e diventa qualcosa di indistinto, nulla di fronte al cuore che batte tra le sue braccia.
Pre-occuparsi è essere madre. Occuparsi prima, nel tempo e nello spazio, perché la scala delle priorità si capovolge, deformando persino l’istinto di sopravvivenza. Madre.
Nel febbraio 2011 venne brutalmente assassinato Vincenzo Barbieri, il re della cocaina, il contatto principale del clan vibonese con i narcos sudamericani. Un regolamento dei conti in cui Luni sarebbe potuto essere presto coinvolto. E il mondo si ferma, la cellula impazzita sbanda, pre-occupandosi.
Con il bimbo in braccio Tita andò alla stazione dei carabinieri di Nicotera Marina. “Si ammazzano come cani”.
Il destino nelle sue mani.  E il sistema mafioso in cui era imbrigliata svanì.
Collaborerà, per salvare suo figlio da quel destino. Parlerà, per donargli la vita, anche a costo della sua. Essere madre. Chiamò il marito, esortandolo a collaborare, ultimo disperato tentativo di amare qualcuno che amore non era. Trascorse la notte in una struttura dell’Arma di Catanzaro, assistita anche da personale medico, perché la paura rende le fragilità ancora più forti.
E furono la paura e i sensi di colpa a sventrare il muro di sicurezza che aveva cercato di erigere. L’angoscia, la solitudine, l’incertezza, il non sapere. Non era lucida, Tita. Non firmò completamente il verbale in cui dichiarava di voler entrare nel programma protezione testimoni. Lo lasciò a metà, come la sua vita.
La mattina seguente chiamò la sorella. Al termine della telefonata quel “Non firmo, non firmo proprio”.
Tornò a casa, Tita, il 15 marzo 2011. Tornò a casa e ci rimase un mese esatto.
Il 16 aprile Pantaleone Mancuso si presentò alla stazione dei carabinieri di Nicotera Marina annunciando che la moglie aveva tentato il suicidio ingerendo acido muriatico. Tita morirà due giorni dopo all’Ospedale di Reggio Calabria.
Tutto quello che rimane è la domanda del pm antimafia Camillo Falvo: “Poteva ingerire volontariamente una simile quantità di acido muriatico?”. Già, perché l’autopsia rivelò che Tita ingerì una quantità di acido umanamente non sopportabile. Domanda che però è rimasta e rimane così, strozzata nel suo stesso nascere, per mancanza di prove, per dichiarazioni mai ufficializzate, perché l’amore non sempre salva, perché l’amore è anche condanna, morte e rassegnazione.
“Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, Blaise Pascal.

 

 

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