Augusto e un sequestro finito male

Tra i delitti più efferati che permisero alle mafie di acquisire, più o meno facilmente, denaro da reinvestire in altre attività illecite, in particolar modo il traffico di droga, ci furono, nella seconda metà del Novecento, i sequestri di persona. Rapimenti che, nel corso del tempo, avvennero anche lontano dalle regioni a forte densità mafiosa e, soprattutto, che interessavano le famiglie più abbienti anche nel Nord Italia. Tra questi, almeno dieci rapimenti fra il 1974 e il 1979 vennero compiuti a Milano perpetrati da un eterogeneo gruppo mafioso, radicato nella periferia del capoluogo lombardo. Rientra fra loro anche il caso di Augusto Rancilio, che viveva a Parigi con la famiglia, attiva però in Italia e nel milanese in particolare.
Augusto aveva 26 anni ed era un architetto che lavorava con il padre, l’ing. Gervasio Rancilio.
Erano insieme la mattina del 2 ottobre 1978, quando si recarono in uno dei loro cantieri a Cesano Boscone per controllare l’andamento dei lavori. Fu lì che avvenne l’agguato: un commando di persone a volto coperto, sceso da due macchine e un furgoncino parcheggiati in modo da evitare il possibile intervento di soccorritori, accerchiò padre e figlio, cominciando con loro una colluttazione che terminò con la sopraffazione del giovane Rancilio, seguita da un’immediata fuga verso la tangenziale e, poi, verso l’autostrada milanese. Una vera scena da “far west”, se si aggiunge che un dipendente dell’impresa uscì dal proprio ufficio allarmato dal trambusto e, impugnando l’arma da fuoco che deteneva dopo aver subito anch’egli un’aggressione fisica, sparò contro una delle due auto, forse colpendone la carrozzeria, ma non riuscendo a impedirne la precipitosa fuga.
Un agguato organizzato, uno scontro fisico, una sparatoria e una rapida fuga: non fu difficile per gli investigatori capire fin da subito la ragione di quella azione criminosa. Si trattava evidentemente di un sequestro di persona a scopo di estorsione, bisognava solo attendere la fatidica telefonata. Telefonata che arrivò circa un mese dopo all’avvocato dell’ing. Rancilio, che però non ottenne la risposta auspicata. Il padre del giovane rapito infatti ammise subito la sua impossibilità a soddisfare qualsiasi richiesta in termini economici da parte dei rapitori del figlio.
Nonostante avesse negli anni costruito interi quartieri sia in Italia che in Francia, tutte le società a lui riconducibili erano sovvenzionate dalle banche e perciò né il padre Gervasio, né i fratelli Cesare e Fiorenza risultavano titolari di alcunché. E c’è di più: secondo quanto affermato dall’ingegnere all’indomani dell’aggressione, in famiglia erano ben consapevoli del rischio che correvano. Non solo Augusto portava spesso con sé una pistola, ma era stato deciso preventivamente, insieme ai fratelli, che in caso di rapimento di uno di loro, gli altri avrebbero mantenuto una posizione ferma di diniego a qualsiasi contrattazione con la malavita. Una scelta evidentemente forte, difficile ma probabilmente necessaria, considerate anche le non rosee condizioni economiche in cui versava l’impresa in quel periodo.
Non si può attribuire a questa decisione l’esito infausto che il rapimento ebbe; non pare ragionevole farlo. Augusto venne ucciso e il suo corpo mai più ritrovato. A niente sono serviti gli accorati appelli del padre negli anni seguenti per avere notizie del figlio rapito, per averne almeno il corpo, ormai certo del tragico destino a cui doveva essere incorso Augusto.
Il silenzio più totale è caduto sul giovane Augusto fino ai primi anni del 1990, quando il boss calabrese Saverio Morabito, 40 anni, originario di Platì (Reggio Calabria) ma trapiantato a Milano, ha cominciato a collaborare con la magistratura, spiegando i contatti d’affari fra ’ndrangheta calabrese e mafia siciliana e svelando i retroscena di omicidi, sequestri, traffici illeciti, rapine avvenuti nel territorio nei decenni precedenti.
Egli ha ammesso di aver partecipato al sequestro Rancilio insieme a Giuseppe Muià, Giuseppe De Pasquale, Giuseppe Mammoliti, il fratello e il figlio, suo omonimo, quest’ultimi già condannati per questo ed altri rapimenti avvenuti nel 1985. Ha raccontato di aver tenuto per qualche tempo Augusto proprio a Cesano Boscone e di averlo successivamente trasferito a San Giorgio su Legnano, comune di Milano, per poi trasferirlo sull’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria. Il povero ragazzo nella trasferta aveva cercato inutilmente di fuggire e il suo intento non si esaurì in quell’occasione. Parrebbe infatti che l’omicidio fosse avvenuto proprio a seguito dell’ennesimo tentativo di fuga dal proprio luogo di prigionia. Dimostrava coraggio, Augusto, e caparbietà, nonché molta forza per poter apertamente sfidare così il gruppo mafioso, che di lui intendeva farne un mero oggetto di scambio. Ma il giovane non ci stava, provando a liberarsi di quel giogo, da quell’illecita oppressione, fatta su un ragazzo di appena 26 anni. Un ragazzo che nulla aveva a che fare con la criminalità organizzata, un ragazzo semplice, normale, un architetto che lavorava insieme al padre, ormai anziano, cercando di aiutarlo nella propria consolidata attività in un momento particolarmente difficile per le finanze dell’impresa.
Augusto si è trovato coinvolto in una dinamica criminale più grande di lui che il pm antimafia di Milano, Alberto Nobili, tentò di dimostrare nel maxi-processo del 1997 denominato Nord-Sud. Il processo contro gli stati maggiori del crimine organizzato in Lombardia ha inizio il 23 febbraio 1995: da un lato centotrentatré boss malavitosi tra palermitani, napoletani e calabresi; dall’altro lo Stato, rappresentato dal procuratore Nobili, determinato a dimostrare la colpevolezza degli imputati per dodici omicidi, una catena interminabile di traffici internazionali di eroina e cocaina e nove sequestri di persona, tra i quali proprio quello di Rancilio. Il processo si concluse con la condanna degli imputati a 1800 anni complessivi di carcere.
Giustizia, dunque, parrebbe essere stata fatta per il ragazzo rapito.
Si conosce la triste fine di Augusto Rancilio, morto perché non si era sottomesso al potere ’ndranghetista: il suo corpo potrebbe essere stato seppellito in un’area di campagna e non ha avuto una degna sepoltura. Nessuna bara, nessuna lapide su cui piangere; nessun estremo saluto, come da desiderio del padre, neanche il lieve sollievo di saperlo riposare in pace.
Affranta dal dolore, la famiglia Rancilio, in particolare il padre Gervasio insieme ai figli Cesare e Fiorenza, ha scelto di ricordare Augusto istituendo nel 1983 una Fondazione che porta ancora oggi il suo nome: si tratta di un ente culturale senza scopo di lucro che da sempre promuove la cultura e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, collaborando con le maggiori università italiane, in particolare con il Politecnico di Milano, l’ateneo dove Augusto frequentò i propri studi universitari.
Oltre a donare borse di studio, la Fondazione collabora attivamente con l’ateneo nella creazione di progetti con una particolare attenzione all’architettura e al design.
La Fondazione promuove, inoltre, attività culturali presso la propria sede, curandone il necessario restauro: Villa Arconati-FAR a Castellazzo di Bollate (MI). Villa Arconati-FAR è una delle residenze di delizia più importanti del nord-ovest Milano e certamente una delle più vaste, con una proprietà che si estende su più di 200 ettari.
Infine, è di particolare interesse sottolineare che i proventi di tutte le attività promosse da Fondazione Augusto Rancilio vengono interamente destinati ai progetti culturali e sociali della Fondazione.

Fonte mafie blog autore repubblica