La morte di Pompeo, un depistaggio infinito

E’ il 28 luglio del 1982 a Paola, in Calabria. Pompeo Panaro è proprietario di un fiorente negozio di alimentari nel paese, ha recentemente vinto l’appalto per la fornitura di alcune mense ed ospedali locali;  è consigliere comunale e presidente dell’ECA, l’ente comunale di assistenza. Storicamente della Dc, da circa un anno se ne è distaccato a seguito di un discorso in cui ha puntato il dito contro le logiche clientelari della politica. Pompeo Panaro ha un enorme senso della fede e della famiglia: sposato, ha due figli, Paolo e Antonella.
E’ un padre affettuoso, che riempie di doni sua moglie e i suoi figli; non è raro che porti a casa un cucciolo di cane trovato per strada e lo affidi alle cure di Antonella e Paolo. Dopo pranzo si rilassa facendo i cruciverba della settimana enigmistica. La sera, quando non sta con la famiglia, esce per riunioni politiche o per vedersi con gli amici.
Quel 28 luglio inizia come tutti gli altri giorni, ad eccezione del fatto che il giorno prima gli era stata rubata la macchina e lui si era visto costretto a chiedere in prestito quella del cognato, una Fiat 127. Pompeo Panaro va al lavoro, nel suo negozio di alimentari che sta proprio sotto casa, in via Duomo 21. Torna per pranzo. Fa il cruciverba, si riposa un poco, coccola i figli. Prima di tornare a lavoro dice alla moglie “Stasera usciamo”. Più tardi manderà a dire di andare avanti, che li avrebbe raggiunti tutti e tre in piazza IV Novembre. Pompeo non li raggiunge, non torna più. Scompare.
Due giorni e mezzo dopo, il 30 luglio, i fratelli ne denunciano la scomparsa. Viene ritrovata dai carabinieri la Fiat 127, chiusa a chiave e parcheggiata in Via Baracche, davanti a un magazzino. In paese si vocifera che Pompeo Panaro sia tenuto prigioniero proprio lì, qualcuno dice di aver visto scatolette di tonno lanciate oltre la finestra e lamenti provenire da quello stabile. Quelle voci non vengono indagate.
Da quel momento in poi, sua moglie e i suoi figli non ne sapranno più nulla, così come gli abitanti di Paola. In paese si mormora di lupara bianca: omicidio con occultamento del cadavere; se Pompeo è stato ucciso, gli ndranghetisti avranno fatto in modo che non venga mai più ritrovato.
Nel 1993, circa dieci anni dopo la scomparsa, la moglie di Pompeo chiede la dichiarazione di morte presunta; vengono messi gli annunci sul giornale, il pm fa delle indagini, non ha riscontri e quindi il giudice del tribunale certifica che non ci sono cause che ostano alla dichiarazione di morte presunta, che viene quindi dichiarata. Da lì, di nuovo su Pompeo Panaro cala il totale silenzio.
Fino al 2011. Un giorno Paolo è a casa di un amico, lo sta aspettando mentre si prepara. Casualmente butta l’occhio su un giornale aperto, legge “Pompeo Panaro, scomparso a Paola il 28 luglio del 1982. Dagli atti giudiziari risulta che Pompeo Panaro, onesto commerciante, fosse del tutto estraneo agli ambienti malavitosi”, e sobbalza.
Quali atti giudiziari? Sono queste due parole, atti giudiziari, dopo ventinove anni di completo silenzio, l’inizio del lento cammino di ricostruzione da parte di Paolo, determinato a scoprire cosa sia successo a suo padre, scomparso quel 28 luglio, quando lui aveva solo 9 anni.
Viene quindi a scoprire, con una richiesta di accesso agli atti, che dopo la denuncia di persona scomparsa fatta dai suoi zii il 30 luglio, la procura del tribunale di Paola aprì un fascicolo per omicidio volontario a carico di ignoti. In seguito, le forze dell’ordine ricevettero una telefonata anonima che indicava una cassetta postale in cui era contenuta  una mappa che segnalava il punto esatto in cui ritrovare il cadavere di Pompeo Panaro, in un bosco in Contrada Trifoglio. Lì la polizia andò a scavare il 15 giugno del 1983 e poi in quattro diversi sopralluoghi trovò un omero, ciocche di capelli, dei pantaloni, mutande, camicia e una scarpa di tela blu. Sono anche menzionati dei frammenti di cranio, che però non vengono repertati, né menzionati nel rapporto giudiziario del 1983; Paolo infatti troverà menzione di questi frammenti solo più tardi, in un fonogramma all’interno dell’operazione di Dda Iceberg. A seguito dei quattro sopralluoghi, Paolo scopre che venne commissionata una perizia all’università di Napoli, che attraverso l’analisi dei tratti antropometrici e del gruppo sanguigno attribuì ufficialmente a Pompeo Panaro quei resti umani.
In seguito alla perizia del gennaio del 1984, la procura quindi convocò i fratelli di Pompeo per la conferma dei tratti; su quel foglio di conferma compare pure la firma della moglie. Paolo riferisce che sua madre afferma di non avere mai firmato, perché a lei non venne mai detto di quei resti attribuiti al marito, neppure mai fu convocata ufficialmente per la conferma dei tratti antropometrici.
Nel febbraio del 1984, quindi, si chiuse l’indagine, con una comunicazione di conferma del ritrovamento di resti umani identificati come appartenenti al cadavere di Pompeo Panaro. E lì si ferma tutto. Paolo scopre che in seguito i suoi zii  fecero richiesta che gli fossero restituiti i resti per la sepoltura e che gli furono consegnati. Lui, sua sorella e sua madre, continuano ad essere tenuti all’oscuro, così come il resto del Paese. Non seppero che quei resti erano stati identificati come di Pompeo, ne’ che gli zii li avevano richiesti, ottenuti e seppelliti nella cappella di famiglia, sotto una tomba senza nome.
Dopo queste scoperte Paolo si chiede come sia possibile che nel 1993 il tribunale abbia concesso la morte presunta, esistendo agli atti un fascicolo per omicidio volontario a carico di ignoti e una perizia che aveva identificato i resti ritrovati come appartenenti a suo padre. Inoltre, perché gli zii, che ricevettero i resti di suo padre, non fecero denuncia agli uffici dello stato civile del comune del decesso? E perché la procura non comunicò sempre a quello stesso ufficio il nulla osta al seppellimento? Infatti fino al 1993 all’ufficio di stato civile di Paola Pompeo continua a risultare come ufficialmente scomparso .
La situazione per Paolo è assurda: suo padre è scomparso nel nulla, quella sera del 28 luglio. Viene aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti, di nuovo senza che nessuno sappia niente al riguardo, e neanche un anno dopo, nel 1983 vengono trovati i suoi resti, i resti di suo padre, di cui lui e la madre non sono mai stati informati. Nel 1993 poi, anno in cui avevano richiesto la dichiarazione di morte presunta, come è possibile che gli sia stata concessa, con un fascicolo per omicidio aperto e i resti attribuiti a suo padre?
Siamo nel 2012. E’ passato un anno dal giorno in cui Paolo ha letto quelle due parole “atti giudiziari” sul giornale a casa dell’amico. Durante quest’anno Paolo ha lentamente rimesso insieme i pezzi della storia dietro alla scomparsa di suo padre e lavora all’esposto che intende presentare. Tenta di farlo per quattro settimane: un giorno trova una vite infilata nella ruota destra, un altro le ruote squarciate. Nel momento in cui si reca a Roma per ingaggiare un penalista, qualcuno massacra di botte i suoi cani, uccidendone uno. Ciononostante, riesce a presentare l’esposto, e il caso viene riaperto.
Ed è lì che Paolo viene a conoscenza di una serie di fatti che rendono la storia della scomparsa di suo padre ancora più assurda: Paolo viene infatti a sapere che nel 1997 un pentito di nome Fedele Soria, un mafioso del clan ‘ndranghetista Serpa, raccontò delle dinamiche dell’omicidio di Pompeo Panaro alla Dda, che aprì il caso, acquisendo dalla procura di Paola il fascicolo di apertura delle indagini per omicidio volontario a carico di ignoti, proprio quel fascicolo che la procura sembrava non avere quando erano in atto gli accertamenti a seguito della domanda di dichiarazione di morte presunta, nel 1993, cinque anni prima.
Soria affermò che a Pompeo Panaro venne tesa una trappola: la sera del 28 luglio l’avrebbero convinto a seguirlo con la scusa di fargli ritrovare la sua macchina e l’avrebbero portato via con la forza in un altro luogo. Il movente secondo Soria è che Pompeo esigeva l’affitto di due appartamenti di proprietà della famiglia Panaro che erano occupati abusivamente da mafiosi latitanti e che quindi per ritorsione lo uccisero; circa 12 esecutori, di cui Soria fa nomi e cognomi, anche di quello che sparò l’ultimo colpo al petto di Pompeo; descrisse il calibro della pistola e disegnò la mappa del luogo dove fu seppellito, proprio quella Contrada Trifoglio dove la polizia l’aveva già trovato nel 1983.
E lì, nel 1997, anche dopo le dichiarazioni di Soria, l’indagine si fermò di nuovo, inspiegabilmente.
E di nuovo inspiegabilmente, dopo sette anni, nel 2004, Soria ritrattò tutto, anzi disconobbe ogni cosa, nonostante avesse indicato precisamente dove il corpo di Pompeo fosse seppellito. E d’un tratto, da lì in poi, in varie inchieste di Dda, tra cui ad esempio l’operazione Missing, ricompare la storia secondo cui Pompeo Panaro è scomparso per lupara bianca, omicidio cioè senza ritrovamento del cadavere. Perché, se quei resti c’erano già dal 1983 ed erano stati riconosciuti come del padre nel 1984? Perché parlare di omicidio con scomparsa del cadavere dagli anni 2000 in avanti, se c’era già un fascicolo del 1983 e una perizia sui resti identificati come di Pompeo Panaro dal 1984?
A seguito della riapertura del caso, Paolo viene inoltre a sapere che nel 2007 un altro pentito aveva parlato: si trattava di Giuliano Serpa, il boss del clan Serpa. Raccontò la stessa storia di Soria, facendo gli stessi nomi, con un movente diverso: secondo Serpa, lui e altri undici uccisero Panaro perché denunciò ai carabinieri i nome degli ‘ndranghetisti che avevano ucciso Luigi Gravina, un meccanico che qualche mese prima di quel luglio del 1982 si era rifiutato di dare gratuitamente dei copertoni a un boss. Ma nonostante la nuova testimonianza, ancora una volta, le indagini nel 2007  non partono .
Solo a seguito dell’esposto di Paolo, la magistratura ordina l’esumazione dei resti di Pompeo dalla cappella di famiglia, esumazione a cui vengono convocati gli zii ma non Paolo e la madre. Lì, nella cappella di famiglia, viene ritrovata una scatola di zinco, avvolta in una carta in ottime condizioni, asciutta e ben conservata; dentro questa, vengono rinvenuti due sacchetti della Standa e un sacco dei rifiuti, con dentro l’omero, sezionato in tre parti, sporco di terra. Dei capelli non c’è traccia, la scarpa è diversa. L’analisi del dna conferma che quei resti sono di Pompeo Panaro. Viene quindi rinviato a giudizio il secondo pentito, Giuliano Serpa, che si è autoaccusato, ma viene assolto con sentenza di Corte d’Assise per prescrizione del reato.
Rispetto agli altri undici nomi, identificati da Serpa come esecutori materiali, le indagini preliminari vengono chiuse nel 2014 nel modo assurdo in cui tutta la vicenda da quel 28 luglio del 1982 è stata gestita: con la dichiarazione che l’azione penale non può essere esercitata perché tutti gli esecutori materiali sono morti, nonostante nella stessa sia possibile leggere i nomi di alcuni di essi come “attualmente residenti in” e altri abbiano riportato condanne solo l’anno prima all’interno di altre operazioni di Dda, una su tutte, Tela del Ragno. La stampa dell’epoca tralascia di specificare l’assurdità della vicenda giudiziaria, arrivando in alcuni casi a pubblicare articoli in cui si afferma che i  presunti esecutori materiali, residenti a Paola o detenuti in carcere, sarebbero stati raggiunti da citazione in giudizio sul caso di Pompeo Panaro per errore. Perché dunque di questi presunti esecutori materiali, pur essendone vivi otto su undici, sono considerati tutti morti? E come mai successivamente secondo il Gip e la Corte d’Assise ne vengono considerati deceduti nove? Perché il numero cambia?
Paolo rimane sconcertato, non capisce cosa possa esserci sotto alla vicenda dell’omicidio di suo padre, commerciante e consigliere comunale di un paesino come Paola, ma è certo qualunque cosa sia perduri tutt’ora.
Dopo quella sentenza, Paolo, che ha combattuto contro il silenzio di un paese intero, è di nuovo solo, l’unico che ancora insiste a chiedere giustizia e verità sulla vicenda del padre.
Nel 2017 lo intervista Fanpage.it e subito dopo la pubblicazione dell’articolo, Paolo si trova una volpe morta, appesa all’albero di fianco alla sua macchina. Tre mesi dopo, sul finestrino della vettura ritrova un asparago, che gli viene interpretato come la fotografia della sua situazione, che intorno a lui c’è terra bruciata, che è solo.
Ma non è così. Paolo non sarà solo finché si faranno sentire le voci di chi chiede che sulla vicenda di suo padre sia fatta luce.

di Paolo Panaro; a cura di Elisa Boni
(foto per gentile concessione di Paolo Panaro)

 

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