Una carica mortale

2Lo sviluppo delle indagini tecniche, si era sostanzialmente snodato attraverso due momenti investigativi, subito successivi ai primi accertamenti in loco di cui si è detto:
la consulenza esplosivistica disposta dal PM procedente, ed affidata agli esperti Cabrino, De Logu, Lo Torto e Corazza,
ed il fascicolo fotografico collazionato prima del disinnesco.
Tali attività consentivano di scoprire come all’interno della borsa, lungo la chiusura lampo, era stato cucito un filo elettrico, con guaina nera spellata ad una estremità, in funzione di antenna ricevente.
La cassetta di acciaio a forma di parallelepipedo contenente l’esplosivo ed i detonatori, presentava un foro nelle due pareti laterali più piccole attraverso cui passavano i reofori di innesco dei detonatori. L’esplosivo sopra indicato consisteva in candelotti di circa 25 centimetri di lunghezza per 25 millimetri di diametro, avvolti in carta cerata di colore avana con stampigliato il nome del prodotto.
I candelotti di esplosivo rinvenuti all’Addaura risultavano fabbricati nello stabilimento di Ghedi (Brescia) della Società Esplosivi Industriali (SEI) entro l’anno 1985, atteso che i candelotti di Brixia B5 dopo quella data sono stati prodotti dalla medesima società presso lo stabilimento di Domus Novas (Cagliari) ed avvolti in carta cerata color magenta.
Attraverso le specifiche indicazioni fornite dalla casa produttrice e le verifiche tecniche svolte, emergeva come ciascun candelotto contenesse 135 grammi netti di esplosivo, per cui si accertava  che  il  peso  della  carica  esplosiva totale corrispondeva a poco meno di 8 chilogrammi.
In seguito alle considerazioni di carattere tecnico riferite in dibattimento dai consulenti, la Corte riteneva pacificamente che il circuito di attivazione della carica esplosiva fosse stato realizzato in modo assolutamente efficace al fine di assicurare l’attivazione dei detonatori e, quindi, lo scoppio della sostanza esplosiva contenuta nella borsa.
In particolare, i reofori dei detonatori erano collegati – come poteva notarsi anche dai rilievi fotografici – ad una leva metallica a forma di “T” (peraltro non ritrovata a causa dell’esplosione ‘controllata’ del TUMINO), mossa da un servocomando del tipo in uso per aeromodelli, che in posizione di attesa dell’impulso radio non toccava l’altra estremità del congegno elettrico destinato ad attivare i detonatori e che serviva appunto per chiudere il circuito di fuoco nell’istante in cui il servocomando radiocomandato, facendo ruotare la leva, avrebbe creato il contatto con l’estremità del circuito collegato all’accumulatore.
Le verifiche sperimentali consentivano poi alla Corte di ritenere accertato che la ricevente, di fabbricazione giapponese (“SANWA”, serie EXPERT), comunemente usata dagli aeromodellisti, era perfettamente funzionante e che l’alimentazione di tale congegno, sicuramente idoneo per attivare la carica esplosiva, era composta da quattro pile a secco marca MAZDA cilindriche da 1,5 Volt ciascuna collegate in serie, che assicuravano una autonomia in stand-by di oltre 20 ore.
I rilievi compiuti e gli accertamenti tecnici condotti dai consulenti tecnici, consentivano poi di fugare ogni dubbio circa la possibile esistenza di meccanismi di attivazione della carica diversi dal radiocomando di cui era stata rinvenuta la ricevente.
Nessuna traccia veniva rinvenuta infatti, del congegno antirimozione, attivabile “per contatto tra i manici della borsa”, ipotizzato dall’artificiere TUMINO, ed alimentato da una pila piatta da 4,5 Volt: tale possibilità veniva scartata dai consulenti e dalla stessa Corte anche in considerazione del fatto che le foto scattate dalla polizia scientifica di Palermo prima del disinnesco dell’ordigno, non rivelavano alcun filo elettrico sui manici della borsa che avesse potuto fungere da congegno antirimozione. Il verosimile errore del TUMINO peraltro ammesso in deposizione, poteva dunque essere determinato dall’aver scambiato il filo d’antenna della ricevente per quello di contatto di un possibile congegno antirimozione.
Dalle indagini non emergeva neppure traccia alcuna di un possibile timer, che l’artificiere TUMINO, aveva sostenuto fosse presente nell’ordigno all’atto del suo intervento e che lo stesso aveva in un primo momento erroneamente indicato come potenziometro nella sua relazione di servizio, datata 1 luglio 1989, non essendo stato rinvenuto nessun reperto riconducibile al suddetto timer ritenuto dagli esperti un elemento del tutto inutile in presenza di radiocomando funzionante.
Da ultimo, attraverso un apposito sopralluogo ed una prova pratica di scoppio con una carica esplosiva esattamente corrispondente a quella del fallito attentato, confinata in un contenitore metallico con caratteristiche corrispondenti alla cassettina in cui vennero rinvenuti i candelotti di esplosivo, i consulenti erano pervenuti alla conclusione – ritenuta dalla Corte assolutamente condivisibile perché fondata su argomentazioni tecniche incontestate e convincenti – che il raggio di letalità della carica dell’Addaura per effetto dell’onda d’urto e della vampa termica sarebbe stato di circa 2 metri ed avrebbe coinvolto, con esiti quasi certamente mortali, ogni persona che si fosse trovata al momento dello scoppio sulla scaletta e sulla piattaforma con le spalle rivolte al mare: la medesima onda d’urto poi, per effetto della proiezione di schegge pesanti, avrebbe avuto, nel raggio di circa 60 metri, esito parimenti mortale per ogni persona che si fosse trovata in tale ambito, in relazione alla parte del corpo raggiunta.

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